Esiste una realtà unica e oggettiva? Questa domanda appare giustificata alla luce delle conoscenze scientifiche attuali. Da una prima riflessione su questo tema emerge un dato rilevante: la percezione del mondo s’identifica con i limiti della funzionalità dei nostri organi di senso. In sostanza, la capacità di osservare la realtà fisica è direttamente proporzionale alla quantità di informazioni che riusciamo a percepire.
L’uomo, rispetto agli altri esseri viventi, può contare su delle capacità sensoriali ridotte, fortemente condizionate dai suoi limiti biologici. Infatti, dell’ampio spettro generale delle onde elettromagnetiche disponibile, compreso tra qualche miliardesimo di millimetro (onde ultra corte come i raggi x, gamma, ecc.) e qualche metro (onde lunghe radio), gli esseri umani riescono a percepire, attraverso i sensi, una porzione molto limitata: nello specifico, una fascia compresa tra 0,4 e 0,7 millesimi di millimetro.
Tutto quello che sfugge alla percezione dei nostri sensi è come se non esistesse; per questa ragione siamo costretti a ricorrere all’ausilio della tecnologia per riuscire ad allargare un po’ di più il nostro orizzonte percettivo. Inoltre, dallo studio dei fenomeni legati alla percezione, emerge che l’automatismo “stimolo-risposta”, appartiene a un “realismo fisiologico” ormai superato.
Il cervello è impegnato in un’incessante opera di “filtraggio” (spesso in assenza di consapevolezza) nei confronti di tutto quello che viene percepito dall’esterno (e dal mondo interiore). In questo contesto, vacilla e perde consistenza quella concezione di stampo cartesiano che riconosce il sistema nervoso come un ricettore passivo di informazioni: attraverso il circuito neurale, infatti, viene messa in atto una continua riorganizzazione e interpretazione delle informazioni raccolte dall’apparato sensoriale.
L’Universo, nella sua essenza, è paragonabile a un grande evento dinamico in equilibrio tra una matrice organizzata, nascosta ai nostri sensi, e una dimensione visibile, apparentemente solida e limitata. L’elemento fondamentale che caratterizza un qualsiasi sistema è la quantità d’informazione che può essere conservata e trasmessa. Oggi, in molti settori della ricerca emerge un’interpretazione della realtà fondata su una visione sistemica della vita, frutto di una rete di rapporti inseparabili. Questa interpretazione “ecologica del mondo” comporta un cambio di prospettiva che permette di scardinare il sistema di potere che pone l’uomo all’apice della creazione.
Non è un caso che dall’interpretazione della fisica moderna, in particolare della meccanica quantistica, emerga un modello di realtà di tipo olistico, dove, accanto ai fenomeni di causa-effetto, si manifesta una complessa rete di influenze non-localistiche. Basti pensare alla teoria dell’olomovimento di David Bohm, ai principi d’indeterminazione e di complementarità, rispettivamente di Heiserberg e Niels Bohr, per rimettere in discussione i capisaldi della sperimentazione scientifica che vertono sull’indiscussa oggettività della materia. Esistono prove scientifiche, nell’ambito della biofisica, che confermano la possibilità di trasmettere informazioni tra una sostanza all'altra, non solo attraverso i classici meccanismi biochimici, ma anche tramite interazioni più sottili. La meccanica quantistica, in particolare, riscatta la coscienza dal proprio isolamento, investendola di un ruolo attivo nel processo di formazione della realtà.
L’osservatore, quindi, non è più un elemento separato dalla realtà, come vuole la scienza ufficiale (dogma dell’oggettività), poiché la sua azione d’interferenza è in grado di modificare la natura di un sistema. Ne consegue che ogni atto di “misurazione” influisce sulle dinamiche strutturali di un oggetto osservato, attivando il passaggio dal “probabile” al reale, nella logica non “localistica” di un “universo partecipativo”, dove ogni singola parte è legata al tutto. Evidenze simili sono riportate nella tradizione orientale indiana a proposito dell’akasha, una specie di memoria cosmica che registra tutti i fatti della vita, oppure del prana o delle nadi (elementi funzionali di una complessa rete di corpi sottili): tali concetti sottintendono la presenza di un’energia primordiale che regola i processi vitali della natura e di tutti gli organismi viventi.
Questa visione trova supporto nella moderna teoria dei Campi Morfogenetici, secondo la quale la nascita della materia (organica e inorganica) e gli eventi che ne regolano la crescita e l’evoluzione, sono legati all’influenza di specifici “contenitori di memoria”. Molti studiosi sono convinti che nella sua manifestazione fisica, la materia sia programmata da equazioni morfogenetiche simili a “schemi matematici immutabili”.
L’essenza che anima la concezione della materia, delle forme e degli spazi trova espressioni diverse nelle varie culture. Questa differenza è riscontrabile non solo a livello religioso, filosofico, sociale e architettonico, ma anche a livello organico, attraverso adattamenti e condizionamenti neurofisiologici del tutto speciali. Nella tradizione orientale incontriamo una visione della realtà tendenzialmente sintetica, intuitiva e simbolica, dove sono fondamentali l’equilibrio e le proporzioni dei suoi elementi naturali: questa attitudine è stimolata dalla dominanza dell’emisfero destro. Un esempio rappresentativo di tale atteggiamento è possibile rintracciarlo nella tradizione giapponese, a proposito dei giardini zen: la composizione dello spazio e delle forme di tali luoghi, lungi dall’essere il frutto di una mera ricerca estetica, catalizza un’esperienza di fusione tra soggetto-osservatore e oggetto-osservato (lo stesso approccio, nelle sue implicazioni filosofiche ed epistemologiche, lo ritroviamo nella fisica moderna). Ma anche molte forme di scrittura, linguaggio, pittura e musica, appartenenti alla cultura orientale, sono il frutto di una diversa programmazione neurologica.
Noi occidentali, invece, esprimiamo un’eccessiva razionalità e tendiamo a controllare e a dominare la Natura, principalmente a fini utilitaristici. L’architettura delle nostre città, ad esempio, fondata sulla standardizzazione e l’ossessiva ripetizione di forme e simmetrie geometriche, è la testimonianza di una cultura influenzata, in maniera determinante, dal pensiero logico e razionale, frutto della dominanza dell’emisfero sinistro. Lo spazio della memoria è come un sottile cordone ombellicale che unisce gli uomini ai luoghi. Tutte le forme, sia quelle naturali che artificiali, sono veicoli di una memoria passata e recente che trascende i limiti dello spazio e del tempo. Sentire e vivere un luogo significa essere pienamente radicati, fisicamente, mentalmente ed emotivamente, a un determinato spazio.
In questi termini l’architettura rappresenta uno strumento dotato di grandi potenzialità, infatti, quando entra in sintonia con le leggi armoniche della natura, riuscendo a conciliare li bisogni sia individuali che universali (esigenze climatiche e ambientali, proporzioni geometriche, armonia delle forme e degli spazi, tipologie dei materiali costruttivi, , ecc.), diventa uno strumento di vita, un “nutrimento estetico” che porta gioia ed energia. Al contrario, una cattiva architettura, rigida e spersonalizzata, che trova la sua espressione nell’abuso e nello sfruttamento dell’ambiente, e nella “brutalità” degli edifici, rappresenta la negazione della libertà del corpo e del libero fluire delle emozioni. Anche l’apparente disordine della Natura può diventare uno spunto progettuale stimolante e innovativo: elementi naturali come sabbia, terra pietre e soprattutto piante autoctone, possono diventare parti integranti di un progetto architettonico (realizzando porzioni di ambiente naturale dotate di vita autonoma), svolgendo il ruolo di elementi di rottura rispetto all’immagine unitaria della costruzione e di unione rispetto allo spazio esterno.
Gli architetti che amano la provocazione possono oltrepassare i margini del caos, dove ogni piccola variazione, ogni elemento aggiuntivo, può scatenare un’improvvisa e inattesa modificazione di tutto il sistema verso una costruttiva fusione di armonia e disordine. Ad esempio, se la spinta primaria che intacca una costruzione è l’usura e la decadenza (entropia racchiusa nella coesione della materia), risultano efficaci scelte progettuali basate sull’utilizzo di materiali altamente tecnologici (fibre di vetro, di carbonio, di poliammide, di aramide, tessuti in fibra di acciaio, ecc.).
Al tema dell’entropia è possibile rispondere anche in maniera originale: considerando questa forza un interessante elemento progettuale ed estetico, è possibile anticipare il decorso temporale di un edificio rappresentandolo nel suo “divenire” completo, magari con ristrette porzioni già degradate. Esiste anche la cosiddetta “architettura vitale” dove non è prevista nessuna separazione tra il progettista e i fruitori dello spazio abitativo (in termini quantistici è un po’ come il legame tra osservatore e osservato): il progetto, che prende avvio da una proposta iniziale, viene considerato un sistema aperto, pronto ad ogni eventuale mutamento, in risposta alla storia, alle osservazioni e alle esigenze delle persone che abiteranno l’edificio.
Qualche progettista si spinge ancora più in là, verso l’annullamento dell’architettura, dove la natura prevale sul cemento, ideando costruzioni ipogee, completamente ricoperte dall’ambiente naturale. Altre scelte possono riguardare la semplificazione della forma e dei materiali, ad esempio focalizzando l’attenzione sulla trasparenza dell’edificio (grandi superfici a vetro e materiali strutturali leggeri) e quindi sulla presenza visibile degli occupanti e dei loro movimenti vitali.
Qualcuno preferisce la cosiddetta “transarchitettura”, orientata verso le nuove frontiere della tecnologia e delle neuroscienze, dove lo spazio materiale si amalgama a quello virtuale: la normale percezione visiva e uditiva viene allargata con l’ausilio di ritrovati elettronici, come computer, telecamere, schermi ed effetti tridimensionali.
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