L’iconografia che ritrae i pellegrini che si mettono in cammino verso i luoghi del sacro li presenta sempre come viandanti dotati dell’essenziale: sulle spalle la “pellegrina”, appoggiati al baculum viatorium, il bastone ricurvo , in testa un cappello a larghe tese, una bisaccia e un contenitore per l’acqua; niente altro ad appesantire il corpo e lo spirito.
Chi affronta il viaggio deve essere leggero, libero di procedere senza gli orpelli che ci tengono legati ai bisogni indotti da una quotidianità che ci chiede continuamente di essere pronti ad affrontare ciò che accadrà, di dominare gli eventi, di non perdere mai le nostre certezze, di prevedere e controllare il futuro, mentre ci allontaniamo sempre più dalla capacità di vivere il momento presente nella pienezza del sentire, dell’esserci.
Il camminare a piedi dei pellegrini è un’esperienza di percezione, un ripulirsi da tutti i richiami che intasano la nostra mente e distolgono il cuore dal contatto con la verità: è percorso del silenzio, pur nel rumore assordante del quotidiano, è incontro là dove la parola si manifesta nella sua natura più profonda, poiché nasce dall’ascoltare e dal vedere in un contatto con i luoghi e con le presenze umane che si fa intimo, e l’intimità è etimologicamente il superlativo dell’interiorità: ci si conosce attraverso una essenzialità che libera da tutto ciò che ostacola e impedisce il sapere “da cuore a cuore”; allora l’anima si fa leggera, non più avvinghiata da schemi, calcoli, obblighi e certezze.
C’è un tentativo di superare l’abitudine a guardarsi dal rischio che limita la nostra capacità di accogliere il nuovo, il diverso, di battere la paura che chiude alla gioia dell’incontro, al contatto con ciò di cui non abbiamo esperienza consolidata o sicuro possesso.
Significa affidarsi all’accadere che schiude lo sguardo sulle nostre fragilità, ma che è anche la certezza di avanzare passo passo scrutando l’orizzonte, guardando il cielo, pronti ad accogliere il mutamento, ad incontrare l’ignoto, a condividere con generosità, a praticare la pazienza, ad attendere ed accogliere i segni per sostare o ripartire. E’ la forza della fiducia, una parola che sa rinnovarsi continuamente, che sempre rinasce perché si alimenta nella speranza, si accompagna all’attesa, è feconda, apre l’infinito spazio del cuore. E’ una parola bambina ma non infantile che dice di una spensieratezza dolce, paragonabile a quella che accompagnava il lasciarsi prendere per mano nella sicurezza del bene capace di portarci in capo al mondo.
Il viaggio del pellegrino è metafora appropriata per indicare il cammino che ciascuno intraprende ad ogni inizio d’anno, ma forse ad ogni inizio, ed è al tempo stesso rimando alla condizione di viandante che accomuna tutti gli esseri in quel mistero della vita che con il mistico condivide la radice etimologica quasi a sottolinearne la sacralità.
Per mettersi in cammino bisogna rendersi disponibili ad incontrarsi con un accadere che non è prevedibile, ma che esige di essere vissuto così come si presenta, in quell’ora, in quel luogo, in quella circostanza, unico e irripetibile: è questa la natura dell’evento, una parola ormai abusata della quale si è perduto il senso profondo, che attiene alla sfera del sacro, là dove tutti i legami vacillano e si mettono in gioco, dove le sicurezze dell’abitudine saltano.
L’unica certezza per chi affronta il viaggio è la continua trasformazione che si scontra con il bisogno radicato di stare aggrappati alle cose, a ciò che riteniamo ci appartenga, a ciò che vogliamo dominare. Mettersi in cammino comporta invece una separazione, non soltanto dai luoghi che ci sono familiari, ma anche dai nostri pensieri abituati ad avere solidi punti di riferimento.
E’ un agire che attiene alla figura della lontananza, ben diversa dalla distrazione, quell’atteggiamento che ci condanna ad una sorta di indifferenza, ad un modo di guardare che sfuma i contorni fino a rendere irriconoscibili le immagini che ci permetterebbero di entrare con le cose in un rapporto empatico, di vera condivisione. La lontananza è un distacco ovvero un ‘non attaccamento’, un affrancarsi da ciò che ostacola la pienezza del sentire, ha qualcosa a che fare con un esilio volontario dai luoghi della “pazza folla”.
Del resto il pellegrino è uno straniero per intima etimologia: l’avverbio latino peregre ‘al di là (per) del campo (ager)’, fuori dal territorio, dalla città lo pone nella condizione di forestiero, nudo di protezioni sociali, nudo di sicurezze culturali e di ruolo, esposto al confronto con la differenza, bisognoso di ospitalità.
E’ una scelta che richiede coraggio, un sentimento ben diverso dall’audacia di chi mette a repentaglio la vita degli altri facendo sfoggio di un eroismo che è disposto a rischiare la propria vita per una causa che esige distruzione e annientamento. E’ la decisione di togliere la maschera che assegna a ciascuno una parte attraverso la quale essere sempre identificabili, interpreti fedeli e prevedibili.
Senza la maschera la direzione dello sguardo e della voce cambia, non solo quella dell’attore che la porta sul volto, ma anche quella dello spettatore: è un altro modo di vedersi e di essere visti, talora non ci si riconosce. In questo svelamento, nel senso letterale del termine, l’individuo è allo scoperto e incontra gli altri attraverso se stesso reso più fragile da una sorta di nudità che, come tutte le nudità seguite alla “cacciata” non è disgiunta da un disagio, da un pudore che può divenire vergogna e aprire così la mente alla consapevolezza di che cosa significhino la dignità e il rispetto per l’individuo qualunque sia la sua condizione.
Questa nudità è una forma di comunicazione, è principio, incontro e segno, è testimonianza perché induce a guardare le cose, i desideri, le attese da un altro punto di vista. E’ un’esperienza del corpo ma anche dello spirito e quello del pellegrino è un viaggio dello spirito che si compie attraverso il corpo, proprio come il viaggio della vita che insegue il desiderio eterno di felicità attraverso un corpo sempre esposto alle intemperie e alla mutevolezza della sorte.
La persona nella sua interezza si mette in gioco e c’è una sorta di ricomposizione del dualismo sempre sofferto tra materia e spirito, che, per affrontare il percorso con equilibrio e pienezza, devono essere una cosa dentro l’altra senza scontro, senza lotta. Occorre l’energia, quella fisica affinché il respiro, il “fiato vivente e incarnato”, si manifesti per procedere nel cammino, perché si esprima quasi come un evolversi, un dipanarsi della materia stessa.
Per il viandante, il corpo, la salute del corpo è un bene prezioso e deve quindi prendersene cura, farsene carico come della propria anima, nutrirlo, dargli riposo e ristoro, dargli acqua e cibo così da metterlo in condizione di accogliere con gioia piena ogni partenza per una nuova tappa del cammino, per sentir scorrere dentro di sé la forza vitale che altro non è se non l’essere parte del tutto.
Non un corpo soggiogato e aggredito dal culto dell’esteriorità, un disturbo ormai pandemico dei tempi moderni, bensì un corpo che è sacrario del cuore che deve essere “curato” come luogo di bellezza, che respira il respiro dell’universo, che riscopre la scintilla originaria che sta dentro ogni creatura e ne suggella l’appartenenza all’ordine cosmico.
E torniamo a parlare di estetica come ‘percezione attraverso i sensi’: così l’avevano pensata i Greci.
La dimensione del sacro è fortemente sensoriale tanto che la santità si manifesta attraverso forme di corporalità iconicamente rappresentate nelle intense figure dell’estasi che rendono luminoso lo sguardo nella gioia della visione, così come nelle struggenti architetture dei compianti che mostrano volti scomposti dal dolore e corpi piegati e affranti.
Tutti i sensi sono preziosi per chi viaggia. L’esperienza del continuo mutamento diviene la fonte del sapere, luce e buio tornano ad essere punti di riferimento nella scansione del tempo e c’è una sicurezza di precarietà che spaventa e al tempo stesso induce all’attenzione e all’ascolto. Le percezioni si affinano per accogliere i segnali: l’udito è accarezzato dal vento, “la voce udibile della natura”, intuisce il suono dell’acqua, sente i rintocchi delle campane indizio di un paese vicino; l’olfatto annusa l’aria che prelude alla pioggia.
Si torna ad essere frammenti del Tutto.
L’uomo che cammina, dicono i filosofi, è “ immagine vivente della grande triade TIEN-TI-JEN Cielo-Terra-Uomo”, arco teso fra due mondi, e, mentre accolgo questa visione come annuncio di una possibile, ritrovata consonanza che nutra la nostra umanità, ho preparato un leggero bagaglio di parole da indossare durante questo anno di viaggio, e con fiducia le condivido:
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