Perché l'uomo deve mostrarsi nell'atto in cui gli è proprio il sentirsi tale.
(A. Nosside)
Non molto tempo fa, consultando svogliatamente la noiosa corrispondenza quotidiana, mi sono imbattuto in una mail inviatami da una cara amica che condivide la mia stessa passione per i viaggi e l'avventura. La notizia aveva attirato la mia attenzione perché come avviene con la posta elettronica, era corredata di foto e queste erano davvero straordinarie.
Le immagini, sbiadite e ingiallite come se giungessero da un passato remoto, ritraevano uomini in un biancore spettrale e cani e navi in un mare di ghiaccio e spiccavano sullo sfondo delle banalità informatiche con la forza e il fascino dell'epopea gloriosa a cui appartenevano e, per quanto sopito dal cicaleccio del web, il mio spirito si riebbe immediatamente e a quelle foto si commosse profondamente.
Poi lessi l'articolo e appresi che quelle immagini erano il frutto di un'eccezionale scoperta: nel dicembre 2013 un'organizzazione che si occupa di preservare i rifugi delle spedizioni antartiche dei primi del '900, la New Zeland's Antartic Heritage, trovò dei negativi in nitrato di cellulosa, raggrumati in un blocco di ghiaccio, nel rifugio eretto a Capo Evans, promontorio roccioso della baia di Erebus in Antartide, dalla spedizione Terra Nova di Robert Falcon Scott, l'esploratore inglese che perse la gara per la conquista del Polo Sud e che perì travolto da una tormenta sulla via del ritorno.
Esperti fotografi, reclutati dall'organizzazione, riuscirono a sviluppare i negativi e ciò che comparve lasciò tutti senza fiato: gli uomini ritratti nelle foto erano i membri del Ross Sea Party, l'equipaggio della rompighiaccio Aurora, nave di supporto alla celebre spedizione Endurance di sir Ernest Shackleton. Essi si trovarono abbandonati per un incidente sui ghiacci antartici con pochissimi viveri e senza equipaggiamento, vi rimasero quasi due anni, dal 17 maggio 1915 fino al 10 gennaio 1917, quando Shackleton stesso giunse a recuperare i sopravvissuti proprio al comando della stessa nave, la Aurora, che aveva rotto gli ormeggi durante una tempesta lasciandoli a terra.
I rullini sviluppati sono una straordinaria testimonianza dell'epoca d'oro delle spedizioni polari dove gli ultimi epigoni di quella specie di esploratori avventurieri che hanno alimentato i sogni di intere generazioni hanno dato prova del loro coraggio compiendo imprese eccezionali ai limiti delle possibilità umane. Dopo di loro, questa schiatta di eroi si è estinta semplicemente perché non ha più ragione di esistere essendo venuto meno lo scopo che forniva senso al loro sacrificio e che rendeva grandiose le loro imprese: non ci sono più esploratori come Shackleton o Falcon Scott perché non ci sono più terre selvagge e ignote da esplorare.
Per secoli, fin dai suoi giovani anni, lo spirito umano ha guardato l'ignoto con un desiderio bruciante e un'irrequieta, divorante, passione e nacque una stirpe di avventurieri che ha spinto il limite dell'inesplorato sempre più avanti, fino ad abbracciare tutto il globo; ora, questo limite si è ritirato oltre le stelle al di là della portata di ogni esploratore. Ma il mondo del passato, quello delle carte geografiche dagli ampi spazi vuoti, era gravido di promesse e di minaccia, di lusinghe e di incanti e innamorava di sé uomini inquieti, induriti esternamente dal gelo o dalla salsedine, ma con dentro un cuore spesso ingenuo, dall'illimitata fiducia nelle proprie capacità e un incrollabile fede nell'ineluttabilità del loro destino.
La terra era una splendida, seducente, spietata cortigiana che con spettacolare noncuranza elargiva a piene mani i propri favori a chi avesse l'ardire di conquistarli, ma con altrettanta noncuranza li ritirava uccidendo e disperdendo i propri amanti con un semplice battito di ciglia, senza alcun rimorso. Era meravigliosa e sleale, bellissima e infida, e uomini dal desiderio ardente di lei erano contenti di vivere per grazia sua e di morire per un suo capriccio. Giungevano all'appuntamento con la gloria o la rovina a cavallo, tra le gobbe di cammelli Battriani, dopo lunghe marce sulle proprie gambe o a bordo delle più stupefacenti creazioni dell'ingegno umano: navi prodigiose dalle bianche ali, perfetta sintesi di bellezza ed efficienza che, silenziosamente, nelle burrasche, erano ancora capaci di catturare la voce selvaggia ed esultante dell'anima del mondo che respira nella furia dei venti.
Ma la Terra di oggi è una bestia da soma, esausta e deturpata, percorsa in lungo e in largo da macchine fumose e rumorose, i cui cieli sono solcati da satelliti con occhi acuti e senza pudore che ne svelano gli angoli più remoti e sulle cui acque avvelenate fluttuano continenti di rifiuti. Il mondo ha perduto il suo fascino e il suo seducente mistero e gli onnipresenti "interessi materiali" esercitano la loro pressione con una forza tanto inarrestabile quanto oggettiva e impersonale, lasciandosi alle spalle una terra desolata a stento degna di essere abitata, ma che certo non merita più di essere esplorata. La tecnocrazia ha scollato gli uomini da quell'intimità con la natura da cui scaturiva ogni autentico amore per l'avventura, condannandoli a quella sterile frammentazione che caratterizza l'era attuale, così cinica e disincantata.
Questa perdita ci ha privato dei vasti, romantici territori della fantasia restituendoci in cambio un mondo triste come un sonno senza sogni. E' per questa ragione che è tanto più necessario tenere vivo il culto di figure come Shackleton, perché le imprese di cui sono stati capaci rappresentano la sintesi mitica di tutto ciò che abbiamo perduto e che è recuperabile solo attraverso un'operazione nostalgica di ricordo e divulgazione di esperienze straordinarie, non a tutti accessibili ma per tutti essenziali, rivendicando così per quegli eroi un valore e una memorabilità assoluti.