Un momento memorabile nella storia della popular music, questo rappresenta Songs In The Key Of Life per la discografia mondiale: un album impossibile da catalogare in un genere, anche se per comodità si farà riferimento al soul e all’r&b di cui Wonder, fin dal suo esordio di enfant prodige, è sempre stato considerato uno degli astri più rilucenti.
La potenza di questo lavoro è dimostrata dal fatto di aver raccolto schiere di fan da ogni dove e di aver influenzato musicisti distantissimi fra loro; a tutt’oggi inoltre il disco continua ad essere ripreso sotto forma di campionamento o citazione nelle più moderne forme di evoluzione del “black sound” (uno su tutti, Coolio e la sua Gangsta’s Paradise, remake hip-hop di Pastime Paradise). Un monumento su vinile insomma. SITKOL è il 18° LP di Stevie Wonder e il 5° della “maturità”, ossia quel periodo inaugurato dalla maggiore età del cantante (i 21 anni) e soprattutto dal nuovo contratto discografico, con il quale otterrà un’autonomia artistica pressoché totale sulle pubblicazioni a venire (grafica compresa). Eppure fino a qualche tempo prima dell’uscita di SITKOL non si sapeva bene come sarebbe proseguito il cammino di colui che, capolavoro dopo capolavoro, era stato soprannominato “il Mozart nero”.
Nel 1975 il futuro di Wonder lasciava infatti aperte varie possibilità, fra cui anche quella di lasciare carriera e successo per trasferirsi in Africa (nel Ghana) ad aiutare i bambini portatori di handicap. I fan si erano appena ripresi dallo spavento per l’incidente stradale che nell’estate del 1973 aveva mandato in coma il cantante che di colpo dovevano fare i conti con un’altra situazione difficile: certo, la notizia di per sé rende grande onore a Wonder, il quale dimostra di avere pure una grande umanità, però se le cose fossero andate a questo modo sarebbe mancato quel picco inarrivabile all’interno della sua discografia che è SITKOL. La cosa piano piano dunque rientrò, e Stevie Wonder, corteggiato nel frattempo da diverse etichette, stipulò sempre con la Tamla Motown un contratto per 7 album in 7 anni e una cifra da capogiro pari a 37 milioni di dollari, praticamente la somma più alta mai stanziata fino ad allora nel mercato della musica.
È da precisare che Stevie Wonder aveva attinto per i 4 album precedenti a un canzoniere di altissima qualità che era andato assiepando negli anni, in attesa di un contratto vantaggioso che gli rendesse giustizia come artista. Bene, quel prezioso tesoro si era ormai esaurito e il progetto di un doppio album (sconsigliato da tutti) che era stato presentato alla Motown doveva avvalersi di materiale esclusivo da tirare su dal nulla. Certamente un motivo di ansia per il musicista ma con tutta probabilità anche il segreto di un lavoro tanto perfetto, dove tutti gli elementi musicali, gli interessi sviluppati nel corso degli anni e le esperienze di vita si sono amalgamati con estrema naturalezza.
Una volta dato sfogo alla vena creativa si è passati dal non avere abbastanza materiale al non avere sufficiente spazio per contenerlo, per cui al doppio album, pubblicato il 28 settembre 1976, è stato aggiunto un EP 7” contenente 4 brani tutt’altro che di contorno. Si racconta che durante le session di registrazione, Wonder rimanesse in studio anche due giorni di seguito, senza dormire né mangiare, completamente assorbito dalla sua nuova opera (la quale fra l’altro è stata più volte rimandata a causa del suo estremo perfezionismo). Fra suggestioni afro, armonie jazz, ritmi funk, incursioni nella progressive, memorabili pop ballad, colori rock e il migliore rhythm and blues in circolazione, non esiste un brano che sia sottotono: il disco consta di 21 tracce indispensabili.
Tuttavia non si possono non citare alcuni episodi che sono arrivati a farsi conoscere dai più: parliamo della notissima Isn’t She Lovely (dedicata alla figlioletta Aisha Morris, di cui si odono risate e capricci catturati durante il bagnetto), di Sir Duke (splendido omaggio a Duke Ellington il cui modo di trattare l’orchestra viene citato da una corposa sezione di fiati), della hit I Wish (che scorre via fluida nonostante disegni ritmici complicatissimi), di As, di Another Star e dell’impegno sociale di Have A Talk With God, Village Ghetto Land, Black Man e Pastime Paradise. In Saturn (primo brano del 7” aggiuntivo) sembra di poter presagire la futura collaborazione con Paul McCartney. In SITKOL hanno suonato 130 musicisti anche se la parte del leone la fa Stevie Wonder, polistrumentista e impeccabile direttore dei lavori.
Fra i numerosi credits figurano anche Herbie Hancock e George Benson. Curiosa poi la lunga sfilza di ringraziamenti che Stevie Wonder vuole stilare per ricambiare la gentilezza (parola sua) di amici e colleghi e che conferma l’aura speciale di questo capolavoro: nella lunghissima lista si leggono i nomi di David Bowie, Van Morrison, Frank Zappa, Carole King e James Taylor, fra gli altri. Un disco che è come un caleidoscopio e che ad ogni ascolto disegna nuove emozioni. Bellissima musica Stevie Wonder continuerà a scriverne, ma l’alchimia presente in queste 21 tracce resterà qualcosa di irripetibile.