Quell'anno, quando la scuola finì e mi diedero la pagella, ero andata benissimo. Una dei più bravi della classe. Allora mio padre mi regalò una mountain bike giallo fluo, anche se io avevo già una bellissima Bmx rossa fiammante, così passavo i pomeriggi ad alternare bici, facendo il giro dell'angolo, a volte spingendomi un po' oltre, di nascosto, a scoprire, grande avventuriera, giardini abbandonati e case vuote, che mi davano il batticuore e mi infiammavano le guance.
Avevo i capelli molto corti, e la mia vicina di casa, che era pazza e parlava con gli scarafaggi, era convinta che fossi un maschietto, così mi cacciava quando la spiavo infilarsi le calze nonostante il caldo torrido. Avevo un'amichetta che si chiamava Katia, che tornava nel mio paese solo d'estate. Viveva in Germania ed aveva una grande bambola a grandezza naturale con la maglia delle BigBabol. Ma non amava venire in bici con me. Lei era la mia compagna delle serate passate in famiglia, con le sedie vicino casa che riempivano le strade, e le nonne che raccontavano le loro storie, mentre noi bambini facevamo pic nic di caramelle sugli scalini.
Nei miei pomeriggi ero sola, con le mie bici, ad immaginare percorsi tortuosi in quel quadrato che mi chiudeva il mondo, coi sandaletti di gomma e i completini maglietta e pantaloncini che mia madre comprava in serie al mercato. Mi svegliavo tardi al mattino, e facevo colazione col gelato o con il latte fresco, mentre i miei genitori erano giù, nel nostro negozio di alimentari, e mia sorella studiava anche se non ce n'era più bisogno. Io aspettavo il pranzo leggendo libri che rubavo dalle mensole. Di quell'anno ricordo Ronja. La figlia del brigante e Sir Crispino. Leggevo mangiando caramelle Tabu alla liquirizia, stesa pancia in giù sul mio lettino. Poi la mamma saliva dal negozio, ed iniziava a preparare il pranzo.
Ricordo il suono del mestolo di legno sul bordo della pentola, che ancora oggi, quando lo riascolto, prodotto da me, mi sembra un suono che mai mi è appartenuto, il suono di mia madre che fa le cose più buone del mondo. Andavo in cucina e sentivo la sigla di Cuore selvaggio, che piaceva molto a me e a mia sorella. Un giorno lei la trascrisse su un quaderno, ed io la leggevo e rileggevo di continuo. La parte finale mi tramortiva sempre, in una vertigine di proiezioni future, in cui io chissà quale ferite avrei subito, e chissà quale amore avrei guardato, in quel verso così consapevole e maturo, pensavo allora, da lasciarmi inetta di fronte a ciò che non sapevo ancora.
Oggi pretendo dalla vita
Che mi paghi con te
Che mi insegni a capire il dolor
Perché è stato anche troppo il castigo
Non averti conosciuta
E scordar che sono stato un pezzente dell’amor
Mi chiedevo quale “te” avrei preteso dalla vita. Mi chiedevo come avrei imparato a capire il dolore, mi chiedevo cos'era, poi, questo dolore da imparare, cosa mi sarei dovuta aspettare. Poi smettevo di farmi domande, salivo sulla bici e andavo. Raccoglievo i rametti coi fiori gialli, che a masticarli sembrava di mangiare aceto, e correvo, correvo, con la mia bici o gialla o rossa, fino a quando ero un fiore io, sbocciato di rugiada, a risucchiare l'acqua della mia libertà dai miei sandali di gomma sui pedali, immaginando cattedrali e mari e dinosauri e fossati di castelli sotto e intorno le mie ruote. Io in tensione altissima e mai paga di infanzia, col cuore che reggeva ancora tutto, con le croste sulle ginocchia e i polsi sottili di pettirosso. Correvo, correvo, correvo. Coi polmoni nuovi e i bronchi complici, con la spina dorsale che mi faceva arco.
Oggi i bambini per strada dicevano: è finita la scuola.
Io ho una bicicletta rossa e nera. Ma non l'ho presa.
Non sono stata brava a scuola.
Ho pranzato da sola, con quel suono di mestolo di mamma.
Ho imparato il dolore, e dalla vita pretendo un “te” che non ritorna.
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