In pieno Medioevo la medicina femminile presentava una ricca e composita realtà, prendendo forza dalla risonanza di saperi tramandati dai secoli passati, che avevano visto le donne pienamente attive nel campo della cura. Esse avevano praticato la professione come sacerdotesse dei templi dedicati ai culti salutari, o erano state semplicemente ostetriche, ginecologhe e puericultrici al servizio di altre donne all’interno della comunità. Spesso, più genericamente, avevano operato nel cerchio ristretto della famiglia, dove avevano delega totale nella cura dei malati, dei bambini e dei vecchi, e dove applicavano con intuito e dovizia una dottrina non appresa dai libri bensì dall’osservazione, dalla pratica empirica e dalle molteplici nozioni tramandate dalle antenate attraverso le generazioni.
La conoscenza delle virtù curative delle erbe era la forza del loro sapere: si dedicavano alla raccolta e alla conservazione, ed erano in grado di combinarle con sapienza nel confezionamento di pomate, cataplasmi, decotti e pastiglie. La confidenza con la vis terapeutica degli elementi naturali nascondeva tuttavia agli occhi dei profani risvolti oscuri e arcani: una convinzione che era parte integrante dell’immaginario legato al sapere delle antiche guaritrici, che sapevano compiere una medicina magica tale da provocare l’aborto, aiutare il concepimento o, al contrario, impedire che esso avvenisse. Era questa l’impronta temibile della medicina delle donne, che riproponeva l’arcaica coincidenza tra la pratica femminile e le arti oscure della stregoneria e della negromanzia.
Al di là dei comuni pregiudizi sull’epoca medievale, al volgere del millennio le donne agivano nella professione medica con maggiore libertà e autonomia di quanto possiamo immaginare, e certamente in misura maggiore che in tempi a noi più vicini. Accanto alla nutrita schiera anonima delle medichesse che hanno praticato nel silenzio della storia nelle città, nelle campagne e nei monasteri, alcune personalità straordinarie sono emerse in virtù del contributo importantissimo dato allo sviluppo stesso della disciplina medica. E proprio poco dopo l’anno Mille, discrimine ideale tra ciò che è antico e la soglia di una nuova visione del mondo e dell’uomo, si collocano due figure di grande rilievo, quelle di Trotula de Ruggiero e di Ildegarda di Bingen. Due donne diverse in tutto: per temperamento, per biografia e storia personale, per collocazione culturale e geografica, per la stessa visione filosofica della medicina e dell’essere umano. Una visione laica e una mistica. Due donne tra loro contemporanee che ai nostri occhi sembrano appartenere a mondi lontanissimi. Proprio da questa antitesi emerge tuttavia per noi un’opportunità eccezionale di esplorare la variegata espressione di un universo concettuale tutto al femminile.
Trotula de Ruggiero ebbe il privilegio di vivere e operare tra le mura della città di Salerno, a quei tempi uno dei centri più vivaci in Europa, per una felice combinazione di dinamismo commerciale e circolazione di idee e cultura, uniti in una visione laica e quasi preumanistica. La città godeva del titolo di hipppocratica civitas grazie alla presenza di una delle scuole mediche più prestigiose del tempo, la celebre Schola Medica Salernitana, all’interno della quale fiorivano studi che traevano giovamento dall’incontro tra le principali tradizioni sviluppatesi nel bacino del Mediterraneo, quelle araba, ebraica, greco-romana e bizantina. Una scuola libera e laica, aperta anche alle donne, che potevano non solo accedere ai corsi ma insegnare come magistrae. Trotula fu una di queste, l'autorevole capostipite di una significativa lista di presenze femminili che dal XII alle soglie del XIV secolo si avvicendarono nell’insegnamento e nella pratica della medicina all’interno della Scuola, divenendo note come mulieres salernitanae.
I riferimenti attribuiti dalla tradizione alla biografia di Trotula ci dicono che fu moglie di un medico illustre, Giovanni Plateario, e madre a sua volta di medici, e che dunque visse respirando a pieno l’amore per il sapere scientifico, che traspose nei suoi insegnamenti e nella stesura di un corpus di opere che costituirono per i secoli successivi un riferimento fondamentale per la medicina femminile, e che furono tradotte nelle principali lingue volgari, godendo di un’ampia diffusione in tutto il continente. Conosciamo questi trattati con i titoli di “Libro sulle malattie delle donne”, “I trattamenti per le donne” e “La cosmetica delle donne”.
Gli scritti di Trotula affrontano un grande numero di tematiche legate all’apparato riproduttivo femminile, secondo uno schema riproposto in modo tipico nella letteratura precedente: le disfunzioni e le anomalie del mestruo, le patologie uterine, le difficoltà nel concepimento, la sterilità maschile e femminile, la contraccezione. Non mancano le indicazioni relative a gravidanza e parto, per concludere con le nozioni fondamentali di puericultura necessarie per affrontare l’immediato post partum. I temi della salute della donna erano dunque il centro dell’interesse di questa medichessa, dalla cui esperienza emergono le peculiarità sfaccettate della medicina al femminile, fatta di un sapere composito che accanto alle teorie della medicina ippocratica e galenica pone i dettami di un sapere empirico, da sempre vicino all’esperienza muliebre, espresso nell’elencazione di ricette e suggerimenti pratici. Il tema della cosmesi era parte integrante questa sapienza, un elemento caratteristico che si collega direttamente alla memoria dei testi medici femminili classici e bizantini. La farmacopea delle mulieres salernitanae era accessibile a qualunque nobildonna e prevedeva, oltre al reperimento delle erbe e delle altre materie prime, una preparazione casalinga dei rimedi. Il trattatello cosmetico offre uno spaccato dell’atmosfera culturale espressa dall’ambiente salernitano, aperto a un sincretismo che non esita ad accorpare la tradizione locale agli usi esotici delle donne saracene, nel nome di un’arte cosmetica tutt’altro che timida nel rendersi disponibile alla novità e al rinnovamento.
Di tutt’altra tempra e sensibilità fu l’altra grande medichessa dell’anno Mille: santa Ildegarda di Bingen. Allo spirito laico ed emancipato di Trotula Ildegarda oppone un afflato mistico che ha saputo combinare curiosità botanica, attitudine scientifica e grande versatilità culturale ad una visione filosofica della salute dell’uomo, che è stata in tempi recenti riscoperta alla luce della grande attualità di un approccio che possiamo definire integrale ed ecologico. Il suo contributo è maturato all’interno del tempo e dello spazio dilatato del ritiro monastico, uno spazio straordinario per l’accesso inusuale concesso alle donne alla cultura dei libri e della parola.
Ildegarda fu soprattutto una grande mistica, e il suo interesse per la medicina è stato parte vivissima di una ricerca estenuante del ruolo dell’uomo all’interno del creato. La sua produzione scritta è vasta ed eterogenea, divisa tra teologia, medicina e composizione musicale, ma accomunata da un’unità di ispirazione che porta i segni di una visione del mondo di grande impatto filosofico. Il suo corpus naturalistico comprendeva la “Physica” (o “Libro delle medicine semplici”), che si proponeva di presentare secondo uno schema enciclopedico il mondo della natura come meravigliosa risorsa terapeutica al servizio dell’uomo, e il “Causae et Curae”, ricettario dal taglio più prescrittivo. In entrambi l’essere umano è il terreno di indagine privilegiato, riverbero perfetto e specchio delle leggi del cosmo.
Ogni aspetto della natura è collegato secondo una prospettiva organicistica che oggi è tornata di grande attualità, e che fa di Ildegarda una precoce fautrice dell’approccio olistico alla salute, ridefinita su rapporti di sintonia tra la componente fisica, psichica e spirituale. La malattia, in quest'ottica psicosomatica, si origina dalla rottura di un equilibrio, e la sua causa va cercata nella psiche, nelle emozioni, in quel malessere del vivere che consuma l'energia vitale. Con stupore tra le pagine della santa incontriamo la depressione, male che erroneamente attribuiamo alla società contemporanea, vista con gli occhi di una donna del XII secolo. Una donna che ci ha anche regalato una personalissima riflessione sulla salute e sulla sessualità femminile, presente in tutta la sua opera attraverso una simbologia che ruota intorno alle figure di Eva e di Maria come i due poli dell’immaginario cristiano del femminile.
Trotula e Ildegarda rappresentano ai nostri occhi due visioni forse antitetiche della medicina delle donne. L’una, la medichessa laica, empirica, sembra portare la bandiera di un’emancipazione femminile più moderna e integrata nel mondo scientifico; l’altra è la ricercatrice ispirata, che studia la natura nelle stanze chiuse del suo ritiro dal mondo, nel microcosmo dell’orto claustrale. Ma è anche la mistica, la pizia cristiana, la donna toccata dal dono profetico, tanto più vicina a quell'antico archetipo della guaritrice in cui la conoscenza botanica era solo ciò che emergeva in superficie di una capacità di risanare arcana e irrazionale. La coesistenza dei due approcci può in realtà rappresentare uno spunto formidabile per indagare, proprio attraverso le contraddizioni, le diverse sfaccettature dell’antica attitudine femminile alla cura, un campo vasto in cui in ogni tempo le donne non hanno risparmiato le loro migliori doti.
In collaborazione con: www.abocamuseum.it