A sei o sette miglia da Battaglia, in una stretta e fertile valle dei Colli Euganei, si trova uno dei più bei giardini di delizia d’Italia.
Così Edith Warthon, nel 1905, ancora non nota in Europa come scrittrice, esordisce in uno dei suoi primi testi che poi la renderà celebre per l’acutezza dello spirito di osservazione e il sapiente sguardo di viaggiatrice e connoisseur dell’Europa di inizio secolo: Italian Villas and their Gardens. Mi affido spesso al suo inconfondibile spirito di cultrice del giardino storico italiano che pur così leggero e a volte apparentemente distratto coglie, con leggiadra disinvoltura, il significato più profondo dell’opera. Sì, di opera d’arte si deve parlare quando ci si avvicina a Val San Zibio, Valle di Sant’Eusebio, un tempo valle da pesca estesa a tutto il territorio circostante di pianura, piccola e miracolosamente intatta, in quell’angolo di colline che il poeta P.B. Shelley diceva “isole senza mar”. Ancor meglio sarebbe tuffarsi a capofitto senza aver nulla letto di quel giardino che trecentocinquanta anni fa costituiva già un episodio straordinario di storia dell’architettura e del paesaggio per tutta l’Europa. L’esperienza infatti della visita dopo una opportuna documentazione toglierebbe quella magia e quella fascinazione da cui si è colti qualora si abbia la fortuna di esservi lì condotti da un amico o un amica, che fortuitamente abbia avuto così a cuore la vostra sensibilità.
Sto parlando del giardino barocco italiano più noto nel mondo per aver mantenuto il suo disegno originale che sottende un programma iconografico straordinario di matrice umanistica. La celebrazione della magnificenza divina sembra anche frutto di un voto fatto da un nobile patrizio veneziano: Zuane Francesco Barbarigo, senatore della Repubblica di Venezia e fervente cattolico, perché salvasse la sua famiglia dalla peste scoppiata a Venezia. 1631, annus horribilis per Giovanni Francesco Barbarigo, muore di peste la consorte Lucrezia Lion. Nel 1630 a Venezia e nel resto d'Europa imperversa la Peste nera, una delle epidemie mortali più virulente dell'intero millennio, il morbo ampiamente descritto dal Manzoni nei Promessi sposi. I figli Antonio e Gregorio Barbarigo contribuiranno a compiere il faraonico progetto realizzato su 10 ettari tra gli ameni Colli Euganei, un eden pacificato, una villa di delizia tipica del patriziato veneziano.
I Barbarigo, antica casata, posseggono migliaia di campi padovani e iniziano come altri patrizi l’opera di bonifica delle terre della bassa pianura per trarne lauti profitti che andranno a compensare la ridotta attività dei commerci con l’oriente su cui avevano costruito buona parte del patrimonio già partire dal Cinquecento. Il ramo più prestigioso dei Barbarigo, che annoverò dogi, ambasciatori e ammiragli, perderà due navi nel 1645, incendiate poco prima della guerra di Candia, che vide la Serenissima perdere i suoi domini sul mar Mediterraneo. Si sposteranno quindi alla santa agricoltura gli interessi dei due fratelli Barbarigo, che ereditano da diversi rami familiari un patrimonio sempre più ingente. Gregorio viene sostenuto nella carriera ecclesiastica e diventerà Cardinale sotto Papa Innocenzo XI, negoziando durante la crisi tra Venezia e la Santa Sede. Non rinuncia però alle sue puntate nella dimora agreste dei Colli Euganei che viene realizzata nell’ultimo trentennio del Seicento proprio negli anni della sua massima carriera episcopale tra Bergamo e Padova. Il fratello Antonio, anch’egli eccellente nella carriera come politico, seguirà con interesse tutta la costruzione del giardino che prende forma proprio negli anni in cui André Le Nôtre in Francia realizza la reggia di Versailles e il Parco di Vaux le Vicomte.
Tutto il giardino di Valsanzibio costituisce un inno alla magnificenza della natura e del creato ma è al tempo stesso un percorso salvifico, voluto dal beato e poi Santo Gregorio che inizia dal Portale o Padiglione di Diana, monumentale ingresso al giardino. Il progetto è un opera ricca di riferimenti simbolici e allegorici e particolarmente legati al neoplatonismo proprio dell’Accademia di Marsilio Ficino. Il percorso salvifico è un transito spirituale che induce dall’ignoranza alla rivelazione, dall’errore alla conoscenza della verità. L’inno alla natura è onnipresente, a partire dal suo ingresso trionfate, un portale immenso, un frons scaenae costituito da un grande arco sopra il quale un frontone porta in alto la statua della dea Diana, “signora degli animali” che protegge boschi e fiumi con la sua faretra, circondata da due docili cani, e sotto di lei Atteone e Endimione, il suo amato pastore. Tutto è commisurato all’intento dell’ideatore del progetto, che pone l’acqua – fons vitae – quale elemento principe che guida tutta la simbologia e il programma iconografico.
Tritoni, Nereidi, fiumi simboleggiati da grandi statue a guardiani della prima peschiera che suggella il primo passaggio lungo l’asse centrale del giardino, si alternano alle figure mitologiche che indicano i venti come Zeffiro, Eolo, e ancora zampillanti spruzzi uscenti da putti paffuti dalle fattezze tiepolesche. Al giardino si accedeva dall’acqua, il canale che permetteva di connettersi alla lontana Venezia, e lungo il cardo dopo aver salito la scalinata di ingresso si ammirano alti muri di bosso potati come muri, stretti e lunghi un centinaio di metri, che fanno ricordare le piccole calli e le sconte, le vie più brevi della città. L’olimpo in villa è qui ben rappresentato, 70 le statue di Enrico Marengo che popolano tutti gli episodi più salienti del giardino simmetricamente diviso in stanze alla maniera cinquecentesca: i giganti Polifemo e Tifeo, Ope con Giove fanciullo, il tempo, le arti liberali e le virtù che servono ad accompagnare l’ospite nel percorso iniziatico che attraverso il giardino e i sette scalini, tanti quanto i pianeti, dove sono incisi emblematici versi, culmina nella terrazza antistante la residenza dominicale; qui arte e natura si uniscono in armonioso equilibrio illustrato dal gruppo di sedici statue tra cui Genio e Solitudine, Abbondanza e Diletto, Allegrezza e Ozio, Salubrità e Fecondità, Flora e Agricoltura.
Il giardino, il cui disegno originario è fortunatamente visibile in un dipinto a olio che ne descrive tutto l’assetto, è un tracciato apparentemente semplice: un rettangolo di 320 x 240 metri così perfettamente articolato in una rete viaria a scacchiera, ventiquattro compartimenti, ricca di tali e tanti ornamenti, giardini segreti, viali, grotte, anfratti, percorsi nascosti da creare un piacevole spaesamento iniziale, per poi condurci all’apoteosi della visione di un asse prospettico che va da declivio ai piedi del colle che lo sovrasta e lo abbraccia in un ameno scenario teatrale. L’equilibro perfetto tra manufatti e natura, tipico del giardino del Rinascimento, qui lascia sporadico spazio alla moda che di lì a poco avrebbe invaso tutta Europa, con lo stile paesaggistico in cui lo stacco tra giardino geometrico e natura circostante è meno evidenziato; nel giardino barocco il paesaggio funge da proseguimento naturale anche se qui non si può parlare di giardino alla francese poiché le prospettive infinite verso il paesaggio non sono volute, bensì tutto è ancora racchiuso in un universo a misura umana.
Quattro i capitoli da non perdere in questo eden rinnovato dalla cura e dall’attenzione della proprietà Pizzoni Ardemani, qui dal 1929: il magnifico labirinto, tra i pochissimi italiani giunti a noi, con le antiche piante di bosso che potate accuratamente permettono ancora di far perdere l’incauto visitatore che sicuro di trovare la retta via scegliendo la via più breve è costretto a seguire quella più lunga e meditata; il monumento al tempo che ci induce a riflettere sulla caducità delle cose. La Statua di Cronos, con il corpo curvo sotto il peso degli anni, ha lo sguardo rivolto al tramonto, e le ali a voler dire ‘Volan col Tempo l’hore e fuggon gli anni’. Il romitorio, o grotta dell’eremita, è l’allegorica meta dove meditare dopo essersi liberati del peso delle cose terrene.
Imbocco così il viale e trovo andando verso la Villa, l’Isola dei Conigli, la Garenna, unica superstite nei pochi giardini d’epoca ancora esistenti, a simboleggiare l’immanenza, cioè, la condizione comune degli esseri viventi limitati dal corpo stretto fra i confini dello spazio e del tempo. Concludo la mia estatica fuga nel passato in un sorprendente passaggio tra due panchine marmoree da cui escono zampillanti giochi d’acqua, e mi giungono alla mente vesti di seta di eleganti dame ospiti di quel giardino seicentesco: penso che sarebbe un bel luogo per un film di Green come Barry Lyndon. Vedo di fronte a me una sobria veneziana dimora, che sta lassù oltre una ampia scalinata di sette scalini, in un grande terrazzo verde con la "Fontana dell'Estasi o delle Rivelazioni". Un parterre di fiori e frutti guidati ad arco, le profumate zagare si insinuano tra sculture a piramide e a cubi verdissimi… ancora oggi qui dopo 350 anni, come volle Zuane nel suo elenco manoscritto del ‘600, giacinti, rose, gelsomini, viole doppie, tulipani, gigli, anemoni, noselle…
Curioso viator che in questa parte
Giungi e credi mirar vaghezze rare
Quanto di bel, quanto di buon qui appare
Tutto deesi a Natura e nulla ad Arte
Qui il Sol splendenti i raggi suoi comparte
Venere qui più bella esce dal mare
Sue sembianze la Luna ha qui più chiare
Qui non giunge a turbar furor di Marte
Saturno quivi i parti suoi non rode
Qui Giove giova et ha sereno il viso
Quivi perde Mercurio ogni sua frode
Qui non ha loco il Pianto, ha sede il Riso
Della Corte il fulmine qui non s’ode
Ivi è l’Inferno e qui il Paradiso