Che rapporto intercorre fra pensiero debole e canzonetta, pop e riflessione filosofica, speculazione e canto? Da sempre musica e pensiero si sono incontrati e confrontati: basta citare Pitagora, Platone, Schopenhauer e Nietzsche per evocare straordinarie teorie e suggestioni nate dalla commistione delle note con l’indagine teoretica. E oggi la pop filosofia si incarica di restituire consistenza a tale rapporto, indagando, come sottolinea Maurizio Ferraris, il carattere iconico e quindi archetipico, esemplare, dei musicisti di estrazione popular, da Vasco alla Nannini, da Zucchero a Ligabue, da Jovanotti a De Gregori.
Claudio Sottocornola, ordinario di Filosofia e docente di Storia della canzone e dello spettacolo alla Terza Università di Bergamo, da sempre utilizza la canzone popolare come strumento di indagine antropologica sul contemporaneo, e lo fa nella duplice veste di analista e di interprete, attraverso affollate lezioni concerto in cui coinvolge gli stessi studenti nella dimensione performativa di canto, danza, esecuzione strumentale. Un esempio di ciò è costituito da Una notte in Italia (CLD Productions), oltre sei ore di live che spaziano dalla canzone d’autore all’immagine della donna, chiavetta Usb con molti contenuti speciali, recentemente pubblicata dal “filosofo del pop”, che documenta la sua attività fra didattica e performance a contatto col pubblico più vario, che ha per tema l’identità italiana in vista di Expo.
Abbiamo avvicinato Sottocornola per chiedergli un commento al sessantacinquesimo Festival di Sanremo, rassegna per eccellenza del popular in Italia, di cui il filosofo del pop è un attento e originale interprete, cercando di coglierne i più svariati input, che spaziano dalla storia della manifestazione alla valutazione della nuova conduzione artistica.
Prof. Sottocornola, quali sono gli aspetti che ritiene più interessanti di questa edizione 2015?
La direzione di Carlo Conti, conduttore nazionalpopolare per definizione, è un’ottima opportunità. Già ne I migliori anni, ma anche in Tale e quale show, Conti ha dimostrato di saper gestire il varietà musicale con un occhio alla grande tradizione di Studio 1 o Canzonissima, naturalmente adattata ai tempi, e un altro all’audience e ai suoi diktat, con risultati apprezzabili. Così si rivela vincente l’idea di ospitare big come Tiziano Ferro o Gianna Nannini, ma anche la trovata di aprire il Festival con una specie di “Ritorno al futuro” impersonato dalla ritrovata coppia Albano-Romina Power. Questo sembra far leva sull’inconscio collettivo degli italiani, oggi preda di una crisi di identità, non solo economica, che forse va cercando nella memoria collettiva valori aggreganti e tempi migliori, come erano quelli in cui la celebre coppia narrava fra musica e gossip la propria love story…
Ma si può ancora parlare di “canzone italiana” come modalità condivisa?
Non credo. Oggi sembrano lontane anni luce, per esempio, le canzoni simbolo degli anni ’60 o il grande repertorio d’autore, e questo perché le canzoni non riflettono più sentimenti collettivi, come ai tempi del boom economico o della contestazione, semplicemente perché non ci sono più sentimenti collettivi, ma privati egoismi. Al massimo, in queste condizioni storico-sociali, possono nascere squisiti cammei, liriche dall’eleganza ellenistica, ma non certo dotate di un’indiscutibile vocazione popular. Più spesso e più realisticamente poi, si finisce per muoversi fra omologazione commerciale e decostruzione intellettualistica, atteggiamenti che non produrranno mai un brano come Volare.
Che ne pensa del cast musicale di quest’anno?
Si poteva osare molto di più. E invece, anche un fuoriclasse televisivo come Conti ha puntato su un compromesso per coinvolgere, in modo un po’ ruffiano, una platea di giovani che si presume già addomesticata al televoto dai talent. Ecco allora l’inflazione di personaggi promossi da Amici, come Annalisa, i Dear Jack e Moreno, o da XFactor, come Chiara e Lorenzo Fragola, per non parlare del fenomeno Il Volo, che promuove i tre ex ragazzi prodigio di Ti lascio una canzone. Se a questi aggiungiamo Bianca Atzei e Nesli, comunque sconosciuti al grande pubblico, e le presenze televisive di Biggio e Mandelli (da I soliti idioti) o di Mauro Coruzzi (alias Platinette) con Grazia di Michele (rispettivamente giudice e istruttore di Amici, anche se quest’ultima è collaudata cantautrice), ci accorgiamo di come le presenze segnalate dipendano da motivazioni più televisive e commerciali che di stretta qualità musicale. La cosa è evidente anche nei testi, e nelle, ahimè, ritrovate rime cuore-fiore-amore (almeno per gusto e stile), la cui banalità speriamo sia almeno riscattata da qualche inciso, dalla melodia o dall’orchestrazione, come potrebbe accadere per Il Volo.
Chi salva invece fra i partecipanti?
Irene Grandi è una presenza matura e dotata di personalità artistica riconoscibile, anche dal tema del brano, Un vento senza nome, che è poi la libertà; Malika Ayane firma con Pacifico Adesso e qui, un brano sofisticato e adatto al suo timbro vocale; Gianluca Grignani ci prova con Sogni infranti, che almeno tenta il confronto con la problematicità dei tempi, mentre Raf confeziona, pur con qualche ovvietà, un brano decisamente sanremese. Sono incuriosito da Nek con Fatti avanti amore, dalle sonorità dance-rock e dal testo che evoca in modo popular tematiche antropologiche interessanti (l’essere umano è strutturalmente fatto per la relazione) e da Nina Zilli che, al di là del brano, rappresenta uno stile vocale e un’immagine che evoca con ironica nostalgia i favolosi sixties.
Qual è il suo Sanremo ideale? E chi avrebbe voluto in rassegna?
Bisogna sgombrare il campo dagli equivoci. Sanremo non può essere solo la vetrina della musica teenageriale, che in realtà si rivolge per lo più a ben altre agenzie. Il Festival è luogo dell’identità e dell’internazionalità della nostra musica (gli stranieri, americani in testa, cercano nella nostra canzone ciò che è specificamente italiano): ecco perché lo vedrei come una grande rassegna (analoga ai Festival del cinema di Cannes o Venezia), ove sfila il meglio della nostra identità musicale, non necessariamente in gara. In questo senso, la serata dedicata alle cover mi sembra una delle cose più interessanti dell’attuale Festival. Perché poi non ospitare mostri sacri come Patty Pravo, la Pavone, la Berté, Ruggeri, la Oxa, o la stessa Vanoni? E non riportare i grandi cantautori al Festival? Magari proponendo serate diversificate, alternando ai senior e alla canzone d’autore i più giovani, reclutati però – cosa che non sempre accade fra le nuove proposte – con criteri davvero meritocratici e rappresentativi della straordinaria vitalità che offre il territorio. A questo aggiungerei il ripescaggio del meccanismo anni ’60, in cui le canzoni venivano proposte da due interpreti – quindi con diversi arrangiamenti e stili vocali –, di cui spesso uno era un big straniero che cantava in italiano (allora arrivavano nomi come quelli di Louis Armstrong, Dionne Warwick. Shirley Bassey, Wilson Pickett, Gene Pitney, ecc.). Certo, organizzare un Festival del genere esige una certa autonomia dai condizionamenti legati a case discografiche e dati auditel. Ma potrebbe rivelarsi alla fine una mossa vincente.
Quali sono stati i suoi Sanremo preferiti?
Quelli dei primi anni ’60, ascoltati da bambino alla radio. Avevo quattro-cinque anni, quando ricordo lo stupore alla voce calda e pastosa di Paul Anka, che intonava in un improbabile italiano Ogni volta, inno dell’emigrante, o una allora promettente Annarita Spinaci cantare Quando dico che ti amo di Tony Renis, il tentativo di immaginare volto e gesti di una esotica Shirley Bassey, che proponeva La vita, poi suo hit nella versione inglese This is my life, e chiuderei con una Mary Hopkin con Lontano dagli occhi o il francese Antoine con la spensierata ma dirompente Pietre, per non parlare di una Gabriella Ferri in stato di grazia, con il brano soul Se tu ragazzo mio. Certo, negli anni ’80 c’è una specie di rinascita, che vede la partecipazione dei futuri big, da Vasco a Zucchero, dalla Mannoia a Ramazzotti, da Jovanotti a Biagio Antonacci, ma nulla di paragonabile a quello “stato nascente” che furono i Festival degli anni ’60 o, anche, degli anni ’50, quelli della Pizzi e di Tajoli, Villa e Teddy Reno, Carla Boni e Flo Sandon’s, intimisti e crepuscolari, ma retrospettivamente affini al clima di malinconia e disorientamento dei nostri giorni.
Che cosa può insegnare la canzonetta alla filosofia?
Condivido la passione di Pasolini per la cultura popular, intesa come più autentica e rivelativa di tanti paludamenti accademici, e ritengo quindi la canzone pop, rock e d’autore una espressione significativa del proprio tempo, mentre colgo in cantanti, autori, interpreti e icone del pop in genere, la capacità, inconscia o consapevole che sia, di rappresentare l’uomo contemporaneo, secondo il concetto greco di “maschera”, quella che veniva indossata dall’attore tragico per amplificare la propria voce, ma anche caratterizzare il tipo umano rappresentato. Così considero l’indagine antropologica del pop un modo per investigare il proprio tempo, anche quando si tratta di quel grande circo che è il Festival. Aggiungo che il concetto di interpretazione, capace di mediare fra istanze e sentimenti contrastanti facendone una sintesi estetica, è una modalità espressiva che può insegnare al pensiero razionale e dicotomico, portato a dividere e separare, il valore della mediazione e integrazione dei contrari.
La sua esperienza di critico-interprete, così anomala nel panorama musicale contemporaneo, che cosa le ha insegnato?
Che si può fare e pensare musica in modo alternativo e controculturale. Molti associano il fare musica ai temi del consumo, del successo, della popolarità mediatica, tutti aspetti ininfluenti rispetto alla qualità della proposta stessa. Inoltre è diffusa, anche fra gli addetti ai lavori, la ricerca del consenso e del gradimento a tutti i costi, in un contesto di mero intrattenimento e svago. Io ho avuto la fortuna di occuparmi per anni di critica musicale con interviste e recensioni ai maggiori esponenti dello spettacolo italiano, e solo successivamente ho deciso di “passare dall’altra parte del vetro” per cimentarmi nella interpretazione di brani storici della canzone italiana, realizzando cd e dvd di studi performativi sul pop. In ultimo ho deciso di condividere questo attraverso pubbliche lezioni concerto sul territorio, che ho raccolto nel cofanetto in cinque Dvd Working Class, e ora su supporto Usb Una notte in Italia, con molti contenuti didattici e di approfondimento, gradualmente diffuse anche in rete attraverso il Canale CLDclaudeproductions di Youtube e il mio sito [1]. Ho sviluppato quindi un ambizioso progetto in cui l’interpretazione di brani simbolo della canzone pop, rock e d’autore italiana diventa momento di interpretazione del contemporaneo, ma anche occasione di formazione per il pubblico più vario, e questo ritengo sia il mio contributo a un diverso modo di concepire la proposta e fruizione di musica, all’insegna di una educazione estetica che può diventare anche occasione di crescita personale e sociale.