Il regista Gianfranco Cabiddu ha scelto di ambientare il suo ultimo film La stoffa dei sogni nell’oasi naturalistica dell’Asinara, nota come "Santuario per i mammiferi marini", forse preservatasi per essere rimasta chiusa al pubblico dal 1885 al 1999. L'istituzione negli anni Sessanta del Carcere di massima sicurezza in cui vennero internati brigatisti e mafiosi come Raffaele Cutolo e Salvatore Riina, l’ha condotta, infatti, a un isolamento crescente che ne ha costretto i pochi abitanti all’abbandono definitivo. Tutti noi, oggi, vorremmo visitare, invece, le sue splendide spiagge odoranti di macchia, i suoi ampi spazi dove passeggiano gli asinelli bianchi, il suo mare incontaminato frequentato da rare specie di pesci e uccelli… Se non possiamo andarci materialmente, potremo almeno viaggiare attraverso le immagini che ci mostra il regista cagliaritano che abbiamo intervistato nella sua accogliente abitazione romana.
Perché hai scelto quest’isola nell’Isola, come set cinematografico per la tua ultima pellicola?
Sono state diverse le motivazioni che hanno guidato la mia scelta. La prima è che ho avuto la fortuna di visitare l’Asinara proprio appena è stata liberata dal carcere. Era sempre stata un’isola proibita, un pezzo di Sardegna dov’era vietato andare e che io ero sempre stato curioso di conoscere. Quando quest’isola è stata restituita alla mia Terra è come se ci fosse stato ridato un frammento mancante. La seconda è che dentro quest’isola è passata tutta la storia d’Europa, dai prigionieri austriaci a quelli delle guerre coloniali d’Africa, dalla mafia alla camorra, insomma, si tratta di un avamposto imprescindibile della storia italiana ed europea. Pur essendo un luogo di dolore, inoltre, quest’isola mi ha sempre affascinato perché è bella e terribile allo stesso tempo. Mi sembrava l’isola ideale sia per la vegetazione e per le specie animali, che le danno una connotazione favolistica, sia perché esprimeva alla perfezione il concetto di “isola isolata”, immaginata dal genio di Shakespeare. Ne La Tempesta, infatti, c’è una parte molto interessante dedicata al personaggio di Calibano, un mostro ripugnante che viene fatto schiavo da Prospero, il duca di Milano che approda nell’isola e rende succube la popolazione autoctona e la sua natura selvaggia, rappresentata per l’appunto da Calibano. Nessuno è innocente, infatti, ne La Tempesta: Calibano è figlio di una strega e quindi è già colpevole per nascita, ma nemmeno Prospero è esente da colpe, anzi, dietro il suo schiavizzare Calibano e nel sottomettere Ariele si cela la metafora del fenomeno del colonialismo. Calibano mi consentiva, inoltre, di raccontare un frammento di storia della Sardegna: l’usurpazione tipica del colonialismo appartiene a quest’isola, anche gli abitanti dell’Asinara sono stati evacuati dalla loro terra per lasciare spazio al carcere. Quindi potevo riflettere e far riflettere lo spettatore con le parole stesse di Shakespeare sul tema dell’esproprio fatto dallo Stato alla Sardegna per il carcere o per le basi militari o per qualunque altro uso. Shakespeare, da genio totale qual è, riesce a far parlare i personaggi esponendo verità universali come quando Calibano dice: «Quest’isola che tu mi hai preso è mia per parte di mia madre Sicorace… prima ero un selvaggio ma un selvaggio re, e adesso sono schiavo. Tu sei il mio usurpatore». L’unica cosa che Calibano ha imparato da Prospero è la lingua, che poi gli serve per esprimere la sua rabbia contro l’ingiustizia subita: «Mi hai insegnato a parlare la lingua tua, ma il solo profitto che ne ho fatto, è che ora so come maledirti con la tua stessa lingua. Ti stermini la peste rossa per avermi insegnata la tua lingua!». L’Asinara è stata un’occasione per toccare con leggerezza un tema importante per la mia terra: non è stata solo un’ambientazione come sfondo ma anche come storia. Mi sembra che questo sia il film più politico che ho fatto.
La nave che approda sull’isola…: è forse figlia della perenne visione dell’umanità come esercito di burattini guidati dal destino? Che siano una compagnia di teatranti di basso livello o una masnada di pericolosi criminali?
La nave in realtà non approda nell’isola, ma vi naufraga, anche se si tratta di un naufragio che offre una nuova possibilità, una specie di nuovo approdo. I casi della vita ci portano ad affrontare situazioni nelle quali non ci imbatteremmo mai se fossero state programmate. Questo è anche il bello del nostro mestiere: ci costringe a toccare aspetti della realtà e della vita che magari ci sono anche distanti, ma se possediamo la curiosità e l’umiltà di avvicinarci ad essi senza un’idea preconcetta hanno il potere di aprirci mondi nuovi e più stimolanti. Talvolta ci può capitare di conoscere un altro volto di noi stessi che senza questo stimolo, avvenimento, incontro, magari avremmo tralasciato. Per me il cinema è però solo un punto di vista dello spettacolo: mi piace, mi attrae, ma io provengo dalla musica e sono fortemente interessato ad essa. Questo mi consente di avere un approccio forse diverso da altri registi: io ho un’attitudine simile a quella dei musicisti jazz di spaziare da un tema all’altro quasi senza un nesso logico servendomi di un fraseggio tipicamente musicale piuttosto che cinematografico.
Come ho scritto in una mia intervista: possiamo immaginare che la vita di ognuno di noi si svolga sul palcoscenico della realtà e la sua sceneggiatura sia interamente scritta nel personale destino di ciascuno… Quali sono i confini tra Realtà e Rappresentazione?
Questo è un po’ il tema del mio ultimo film: quello che succede nella vita reale assomiglia al copione teatrale che viene messo in scena, facendo sì che realtà e rappresentazione si mischino una all’altra. L’esigenza di recitare ha però ne La stoffa dei sogni una motivazione “di sopravvivenza”: i criminali partecipano alla rappresentazione teatrale anche per non essere scoperti, si fingono attori e interpretano una parte proprio per sostenere la loro finzione, il fatto cioè di essere un gruppo di camorristi imboscati in una compagnia di teatranti. Essi si sono mischiati agli attori dopo una tempesta che li trasportava nella stessa nave verso l’isola che doveva incarcerarli. Il Direttore del carcere per smascherarli li costringe a interpretare proprio La Tempesta: è convinto di saper riconoscere chi finge e chi invece è un vero attore attraverso il teatro. In realtà il teatro svela una verità che lui non aveva immaginato e che lo tocca profondamente senza fargli però discernere gli attori dai criminali. La cosa che mi affascina di più - e qui si respira la presenza di Eduardo - è il fatto di recitare sentendosi nei propri panni. Eduardo nella sua traduzione in napoletano della La Tempesta usa la lingua teatrale, che deve arrivare in maniera immediata, sia per chi interpreta una parte – che deve sentirsi dentro il proprio abito nelle parole che recita –, sia per chi ascolta. Lo spettacolo deve essere verosimile pur trattandosi di una finzione in quanto la rappresentazione spesso rivela più verità della vita reale.
Nel tuo primo lungometraggio da regista del 1988, Disamistade, al quale partecipano, tra gli altri, Massimo Dapporto e Maria Carta, hai trattato il tema della vendetta, della faida. La Tempesta, a cui liberamente ti ispiri in La stoffa dei sogni, individua nel perdono e non nella vendetta il motore del suo sviluppo. Come si è evoluto il tuo pensiero in merito al tema della colpa nel lasso di questi ventisei anni?
Per quanto mi riguarda, più che il perdono mi interessa la compassione come la intendono in oriente, cioè capire anche le ragioni degli altri e non avere più una reazione emotiva e di frustrazione rispetto alla possibilità di costruire qualcosa su se stessi. Il protagonista del film Disamistade è un uomo in bilico tra due culture: lui ha studiato e vorrebbe sottrarsi dall’obbligo della vendetta ma è in qualche modo costretto dall’ambiente circostante, dalla madre, dal dover essere, a fare i conti con la sua cultura. In realtà il film non è sulla vendetta ma sul dubbio che quella sia la strada da percorrere: mentre la madre – magistralmente interpretata da Maria Carta – è dentro quel tipo di cultura, il protagonista della storia è, invece, a mezza strada, combattuto tra l’appartenenza a quel mondo e la volontà di liberarsene, diviso tra la personalità della madre che lo mantiene dentro e quella della fidanzata che invece lo vuole portare fuori. La vera sfida è tra la fidanzata e la madre. Le protagoniste effettive del film, infatti, sono le donne: solo la fidanzata è in grado di liberarsi da quel modo di essere. È un film anche sulla speranza che le donne incarnano per la capacità di mettere pace, di guardare avanti, mentre gli uomini rimangono troppo spesso ancorati all’offesa. In verità il protagonista non ha gli strumenti per voltare pagina ma nemmeno per stare dentro quel tipo di cultura, lui è la vera metafora di una Sardegna in bilico: il mare intorno all’isola non è usato come una possibilità di scambio, di cambiamento, di viaggio, ma come una protezione dal mondo “grande e terribile”, per isolare. Noi emigrati spesso abbiamo difficoltà di essere accettati, la stessa Maria Carta è stata molto isolata. Si vorrebbe portare dentro l’isola l’esperienza acquisita, ma l’ambiente rimane barricato. La possibilità della Sardegna è enorme per quanto riguarda per esempio il cinema e non solo: l’ambientazione, il tipo e la varietà di immagini a disposizione – l’ambiente per me è un personaggio che interagisce attivamente con la storia per il tipo di ritmi che trasmette solo attraverso la sua presenza -. La Sardegna mi ha sempre aiutato con i suoi luoghi a definire meglio il carattere di personaggi universali influenzandoli con la sua essenza, anche laddove la Sardegna non è realmente protagonista.
Shakespeare aveva adottato in questa sua commedia (La Tempesta) una scelta antitetica rispetto alle carneficine messe in atto nei suoi testi più celebri, passando cioè dalla vendetta al perdono: come è cambiato, dal canto tuo, l’atteggiamento della società sarda nei confronti della colpa?
La modernità è diffusa e ha superato questo tipo di problematica almeno dal punto di vista filosofico-ideologico, ma ci sono ancora delle sacche di popolazione che resistono alla modernizzazione forse anche per una carenza di strumenti culturali. I valori sono cambiati e non poggiano più sulle fondamenta della cultura “della vendetta”, ma nemmeno la modernizzazione riesce a fornire chiaramente nuovi valori su cui investire, per cui la popolazione meno scolarizzata è ancora vittima di fraintendimenti che resistono ai cambiamenti. Pur tuttavia trovo che la Sardegna sia enormemente migliorata in merito a questo tema anche perché moltissimi ragazzi sardi studiano fuori, viaggiano, si trasformano. Secondo me bisognerebbe avere fiducia nelle nuove generazioni: mi sono reso conto che alcuni giovani studenti sardi riescono a fare una sintesi tra i valori culturali arcaici e quello che resta come possibilità moderna di essere sardi senza tutto quel peso di autocontrollo che ha penalizzato le generazioni precedenti: loro sono più vivaci, più aperti, per niente folcloristici…
Possiamo sempre sognare, essere artisti, creare il nostro sogno… Di che stoffa è fatto il “Tuo Sogno”?
Ho avuto la fortuna di incontrare dei maestri di vita, persone con un approccio artigianale al mestiere che facevano, grandi uomini che mi hanno insegnato come arrivare al nocciolo delle cose. Ho avuto anche la possibilità di apprendere tutte le tecniche. Prima il mestiere del cinema era difficile e duro, oltre che imparare la tecnica affiancando professionisti esperti, si apprendeva un atteggiamento, si maturava lentamente attraverso la conoscenza della tradizione prima di scoprire le personali attitudini. Nei cinque anni che ho lavorato con Eduardo ero totalmente inconsapevole, non stavo con Eduardo perché ciò mi portava un merito, una carriera, io ero lì concentrato solo sul presente come i gatti che stanno senza pensare a cosa succede domani, senza voler essere altrove. Eduardo non faceva lezioni, lui faceva quel mestiere e io guardavo, ero lì senza sapere che questo mi avrebbe portato da un’altra parte, avevo la pazienza di essere semplicemente lì senza pretese e progetti. Oggi gli strumenti tecnici a disposizione dei giovani sono tali che spesso tutta questa parte di dura gavetta è saltata: facilmente si può prendere la telecamera e fare un film e spesso si sta in un luogo perché si vuole “arrivare” da un’altra parte. Inoltre c’è la totale assenza di maestri da cui imparare: la tradizione, quello che è stato fatto prima di noi, ci fa fare un passo più lungo perché abbiamo alle spalle qualcosa che ci sostiene, mentre, a fare tabula rasa del passato tutto può apparire nuovo e affascinante, ma si rischia di entrare in un deserto da cui poi è difficile uscire.
Approdato al teatro per destino e al cinema quasi per caso, come hai fatto ad atterrare nel ruolo di regista partendo dagli studi da etnomusicologo e dal mestiere di tecnico del suono?
La mia biografia per parlare sempre ai giovani, la definirei bizzarra. Sono stato curioso e anche screanzato, ho sempre perseguito - inconsciamente e non - una specie di avversione alla carriera. Ho iniziato dalla musica, i miei primi lavori sono stati da etnomusicologo: feci la tesi sull’uso della musica nei rituali di trance in India. Ho lavorato per molto tempo su questi rituali di possessione indiani con un gruppo del CNR che documentava i primi spettacoli di trance codificati in gesto reiterato: l’origine del teatro. Con l’università di Roma ho fatto una serie di documentari dove ho curato tutta la parte del suono e delle musiche sul teatro del ‘900. Montando la parte sonora con la moviola per sincronizzare le musiche sono riuscito a comprendere anche la parte visiva. All’università come assistente alla cattedra di Storia dello spettacolo quindi ho seguito un progetto che ha coinvolto tanti gruppi teatrali: si prestava il teatro ateneo per le loro prove a patto che potessimo riprenderli. Il teatro era messo a disposizione, non era agibile per gli spettacoli ma solo per la fase preparatoria della messa in scena. Io ho curato tutte le riprese delle prove che duravano circa due mesi: lì ho incontrato Carmelo Bene, Gassman, Eduardo, Martha Graham, Peter Brook, Grotowsky, ecc. Da quella esperienza ho iniziato dunque a occuparmi di teatro. Successivamente, siccome non arrivavano i concorsi all’università - ero assistente precario a contratto - e mi era nato un figlio, ho iniziato a lavorare al cinema come tecnico del suono. Ho fatto una trentina di film in quella veste, film belli e brutti. Allora diversamente da oggi c’era una grande artigianalità dei film e, anche se oltre che aver girato con Comencini e Monicelli ho fatto anche film leggeri con Paolo Villaggio, Cochi Ponzoni, Montesano, Jerry Calà, mi sono trovato sempre con le stesse squadre di tecnici, vale a dire che la macchina del set era sempre costituita dai migliori tecnici del settore indipendentemente dalla qualità del film. Dopo il primo film Disamistade, infatti, ho fatto altri due film come tecnico del suono, non era mica certo che il mio mestiere fosse ancora quello di regista.
Quanto è importante la musica nei tuoi film? È il suono che ti guida la mano sulla macchina da presa o l’immagine che ti orienta l’orecchio sul pentagramma delle note?
La musica per me è molto importante, ma certo nel cinema in genere è l’immagine che stimola il suono e non viceversa. Pensare musicalmente mi viene naturale, ma cerco sempre di connettere il racconto al discorso della verosimiglianza. Io uso un linguaggio popolare e cerco di parlare allo spettatore qualunque, che può essere mia nonna, un ragazzo di 16 anni, un professore universitario o la donna che lavora al mercato, allora mi preoccupo di organizzare la materia per far giungere il messaggio a vari livelli: la musica mi aiuta molto in questo, è in grado di sottolineare un’emozione, un avvenimento, l’ingresso di un personaggio, mi consente di spaziare ponendosi al servizio delle immagini...
Nulla è avvenuto per caso nella tua vita, nemmeno quel lavoro all’Istituto Luce sui vecchi filmati sulla Sardegna… Come nasce l’idea del documentario del 2004 Passaggi di tempo - Il viaggio di Sonos e Memoria?
O forse nella mia vita tutto è avvenuto per caso… Passaggi di tempo è il racconto a posteriori di qualcosa che è successo nei dieci anni prima. Avevo visto che nei film muti dell’Istituto Luce la gente sarda era usata come comparsa. Da questo mi è nata l’idea di portare in primo piano quello che stava sullo sfondo, di raccontare per frammenti una specie di giornata, il viaggio attraverso i mestieri della Sardegna e le facce di donne. Mi aveva colpito particolarmente l’innocenza del loro sguardo di fronte alla macchina da presa, probabilmente all’epoca non c’era alcuna consapevolezza di cosa volesse dire avere di fronte una macchina da presa. Ho voluto fare un omaggio musicale alla Sardegna, non è un documento storico ma solo un film di contenuto emozionale inquadrando costumi e visi che oggi non esistono più. Mi è sembrato fondamentale far accompagnare le immagini dalla musica, sia da quella più tradizionale come le launeddas di Luigi Lai e il Coro di Santulussurgiu, sia da quella più moderna come il jazz di Paolo Fresu e Antonello Salis. Se loro potevano suonare insieme, cioè la musica tradizionale convivere con quella moderna, allora anche quelle immagini della tradizione potevano convivere con la modernità. Quel progetto ha avuto un seguito molto interessante ma che non ha trovato riscontro nel mondo culturale sardo: ho chiamato una serie di scrittori sardi per lavorare sulle immagini , con lo stesso procedimento usato dai musicisti, cioè scrivere delle storie di loro fantasia sui luoghi, le azioni e i volti di quei filmati, storie che non dovevano essere necessariamente ambientate in quegli anni. Così Passaggi di tempo è anche arrivato in libreria nella versione dvd assieme a un interessante volumetto, Contos, con brevi racconti scritti ad hoc da autori sardi (Abate, Angioni, Capitta, Carta, Fois, Giacobbe, Mannuzzu, Marrocu, Murgia, Todde e Tognolini). Mi sembrava una sintesi interessante per la cultura sarda quella fatta da questi musicisti e scrittori in rapporto alla tradizione ma non è stata compresa a pieno, però rimane lì. Come diceva Eduardo il cinema produce qualcosa di fissato che resta lì, forse non servirà a nulla o forse improvvisamente verrà rispolverato col tempo…
Fino a quel momento Paolo Fresu non aveva mai pensato di fare altro che jazz, come lo hai coinvolto in questo viaggio nella memoria del suono?
L’ho coinvolto perché Paolo è sardo, possiede un alto grado di sardità, ed è un musicista sensibile e magnifico: si chiedeva a tutti i musicisti di essere se stessi e di avere una reazione davanti a quelle immagini. Lui ha avuto una reazione suonando sempre la sua musica, ma forse per la prima volta ha suonato con degli altri sardi un sentimento, più che delle note, di Sardegna. La convivenza di tutte queste realtà musicali diverse ci ha fatto fare un passo in più, sia Paolo che Antonello Salis hanno nella loro musica una radice legata a tutti questi suoni ancestrali. Antonello non ha mai studiato la musica sarda ma la conosceva fin da piccolo e quindi in qualche modo se la sentiva dentro. Nel film si vedono ragazzi che danzano senza costume perché ballare è una grande gioia.
Questo progetto ha girato tantissimo nel mondo: Mosca, Singapore, Parigi, New York, Londra, Germania, Brasile, Argentina, ecc. Poiché nelle immagini erano impressi gesti che accomunano tante culture, paradossalmente c’era la reazione di ballare il ballo sardo con il loro passo tradizionale, come è successo in Irlanda, e dovunque. Insomma la cultura sarda poteva quindi parlare al mondo intero… Io seguo il Festival Jazz di Berchidda da vent’anni guidando una troupe di giovani con la quale curo la documentazione degli spettacoli, filmando tutti i concerti. È un atteggiamento, un modo di stare insieme; con Paolo, poi siamo anche compari, sono stato il suo testimone di nozze…
Cosa hai imparato da Paolo Fresu, Elena Ledda, Luigi Lai e tutti gli altri musicisti sardi che hanno offerto la loro arte alle tue immagini? Cosa hai insegnato loro?
È stato un incontro abbastanza naturale da ex musicista, ma sicuramente ho imparato la leggerezza. Suonare è una cosa che può cambiare ogni sera oltre che interagire con un pubblico sempre diverso, rispetto al cinema regala un’emozione più immediata che è quella del palcoscenico. Invidio i musicisti, dunque, perché ogni serata è diversa dall’altra. Nella prima di un film c’è molta ansia, ma dopo che hai fatto il film non puoi ritoccare più niente, mentre sul palco di un concerto la sera dopo puoi cambiare tutto. Grazie a questi musicisti sono risalito sul palco come quando da ragazzo suonavo a Bologna, è un tipo di emozione impagabile. Questi concerti che facciamo insieme da circa vent’anni – l’ultimo è stato per i cinquant’anni di Paolo – mi consentono di osservare la crescita dei musicisti arricchiti dalle reciproche contaminazioni. Lo spettacolo musicale si eleva di qualità e le immagini acquistano una nuova consapevolezza. C’è sempre la porta aperta perché succeda qualcosa. Mi piacerebbe portarlo di nuovo a Torino e dedicarlo al mio amico Sergio Atzeni per il ventennale della sua morte, nella città che lo aveva accolto. La prima di Sonos e memoria fu fatta a Venezia e nemmeno un’ora prima dell’inizio ci annunciarono la morte di Sergio, ecco perché ci tengo a fargli omaggio di questo spettacolo.
Tu hai avuto la fortuna di lavorare con Eduardo De Filippo. Come ha cambiato la tua vita quest’incontro?
In peggio senza dubbio rispetto a come è cambiato il mondo. Lui era una persona seria, rigorosa, con un’attenzione al dettaglio e una pretesa di precisione che ti trasmetteva e che non si trova facilmente nella situazione attuale. Se sei abituato a lavorare in quel modo, dopo ti trovi a disagio. Ho assorbito la curiosità enorme che lo caratterizzava. Era capace di parlare per ore con una donna delle pulizie e dedicare invece pochi minuti se arrivava in teatro un uomo politico, fosse anche un ministro. La donna gli trasmetteva la vita vera e lui era interessato a quello. Mi ha insegnato la puntualità che da buon cagliaritano non possedevo facendomi notare che era una questione di rispetto… Ora, avendo rinunciato a spostarmi in macchina a Roma da 5/6 anni esco un po’ prima e sono estremamente puntuale…
Con quale prospettiva hai osservato i set cinematografici in cui hai lavorato come fonico?
Avevo molta curiosità per i pensieri e il lavoro dei tecnici dei vari reparti. La postazione del fonico, poi, è un punto di vista privilegiato che, fuori dalla rumba del film, ti consente di esaminare il set dall’esterno, osservando attentamente tutto quello che interagisce con esso. Questa esperienza, infatti, mi è stata utile, ho imparato a conoscere bene il lavoro di ogni reparto e ciò mi consente di stringere i tempi come richiede il mercato di oggi: ho girato l’ultimo film in cinque settimane, che è oggi diventata purtroppo la durata standard di produzione di un film contrariamente a quanto accadeva nel cinema tradizionale che aveva bisogno di mesi di lavorazione. Ormai i tempi del cinema si confondono con quelli infernali della televisione. Oggi, occorre avere una certa manualità e “molto mestiere” per mantenere il linguaggio del cinema e distinguersi dalla televisione…
Quale evento, personaggio o situazione ha fatto nascere in te la voglia di essere regista, cioè di sciogliere i fili della tua immaginazione e ricomporli con un pizzico di follia?
Non c’è un personaggio in particolare che mi ha spinto a fare il regista. Disamistade, il mio primo film, è nato per l’esigenza di raccontare quel mondo. Io avevo anche una fascinazione per la Sardegna arcaica che mi consentiva di guardare la mia terra come un luogo di frontiera. Avevo, inoltre, la voglia di raccontare cose diverse dal solito anche lontane da me, ma che mi avvicinavano ad aspetti della mia terra che avevo bisogno di approfondire… In quel film poi ho usato i cavalli che sono degli animali che amo tantissimo… Sono di origine sedilese quindi i cavalli li ho nel DNA.
Una giovanile amicizia con lo scrittore Sergio Atzeni fa nascere molti anni dopo una collaborazione… E nel 1997 esce nelle sale Il figlio di Bakunin. Perché hai scelto proprio questo libro?
Stavamo facendo una cosa nuova legata a dei gruppi musicali della zona di Cagliari. Era ambientato nella zona di Is Mirrionis che era uno dei quartieri meno abbienti della città ma più ricchi di complessini musicali rock anche perché i garage dove provare costavano niente, c’era poi un aspetto di questa borgata che volevamo indagare: una sorta di promiscuità pasoliniana. Quando lui è morto sono stato combattuto se andare avanti da solo su quest’idea o se cambiare tema. Era già molto che mi ronzava in testa la questione delle miniere perché non era mai stata raccontata: le miniere, l’arrivo della luce, un’idea di Sardegna operaia… Mi piaceva descrivere un frammento della storia d’Italia, l’arrivo del fascismo, le miniere, con questo eroe moderno come Tullio Saba, in un ambiente particolare come la Sardegna: del resto è quello che ha convinto Tornatore a produrre il film. Insomma ero affascinato dalla storia della Sardegna mineraria e questo libro aveva un racconto già strutturato di quell’epoca e di quel clima…
Ti è piaciuto di più affrontare il tema del fascismo, del lavoro nelle miniere o dell’antieroe ribelle che riesce a orientare le masse?
Tutte e tre le cose. L’antieroe ribelle che racconta Sergio, al limite del personaggio di una favola, con il basco alla Che Guevara era comunque verosimile in quanto ancorato alla verità storica. Sergio, oltre che avere in mente Il Che, in quel libro rende favolisticamente omaggio a suo padre che aveva fatto quel tipo di percorso: era un attivista del PCI, è stato minatore, ed era di Guspini, un paese della Sardegna situato accanto alla Miniera di Montevecchio…
Perché nell’animo dei sardi serpeggia sovente il germe dell’anarchia?
Evidentemente siamo un po’ individualisti, un po’ solitari, abituati spesso a contare ognuno sulle proprie forze, anche in maniera arcaica. Paradossalmente questo atteggiamento è più sensibile dentro l’isola che fuori dall’isola, fuori dall’isola siamo meglio che dentro l’isola… C’è sicuramente un senso spiccato della giustizia e quindi della libertà, però dobbiamo anche renderci conto che non siamo speciali in questo perché è un sentimento, quello della libertà, che hanno tutti. La Sardegna non è migliore delle altre regioni d’Italia nemmeno rispetto agli atteggiamenti mafiosi, agiscono sottotraccia ma sono presenti anche da noi …
Come hai modificato la figura del protagonista del film Tullio Saba per tradurre il libro nel linguaggio cinematografico?
Nel libro i personaggi sono già articolati, Atzeni ha la grande capacità di descrivere il personaggio in poche righe lasciando subito intendere proprio nella scrittura da dove proviene, da quale estrazione sociale. Il romanzo usa il metodo dell’indagine e ciò presupponeva che il film fosse articolato attraverso le interviste recuperando la modalità del racconto orale, delle persone che parlavano di qualcun altro. Nel racconto orale di tipo fantastico, però, il passato è evocato, quindi per tradurlo in linguaggio cinematografico ho fatto in modo che il testimone che racconta una storia abbia la storia stessa che si srotola a lato, cioè i personaggi evocano qualcosa che è ancora viva dentro di loro e quindi è come se avvenisse mentre loro stessi la raccontano. Non è qualcosa completamente distaccata dalla loro vita. Questo è stato uno degli elementi del linguaggio utilizzato, nel libro paradossalmente tutti parlano di Tullio Saba, ma il protagonista ovviamente non può parlare. Nel cinema, per tornare al discorso popolare, un eroe non si può non farlo vedere, e io ho scelto il rischio di mostrarlo. Anche se molti raccontano di lui ma lui parla molto poco nel film, le azioni che compie in qualche modo lo evocano secondo la verità degli altri… Questo è stato un tassello molto importante, un altro tassello è quello della lingua, io ho sviluppato alcuni personaggi, idee, situazioni che non esistono nel libro ma che stavano già dentro tra le righe del libro e nell’idea di Sergio. Per esempio, durante il processo, ho ampliato la parte della strega facendola parlare direttamente in sardo e facendola poi tradurre per il giudice che non capiva quello che lei diceva. Come a sottolineare una separazione netta della giustizia popolare da quella ufficiale dello Stato. Molte cose che ho aggiunto erano già dentro la scrittura di Atzeni, come per esempio l’avvento del fascismo. Ci sono delle sequenze che mi servono per far comprendere cinematograficamente come il fascismo abbia modificato la situazione delle miniere e la musica mi aiuta a esaltare queste scene. Il protagonista, poi, è sempre giovane e bello perché “gli eroi” come sostiene anche Guccini ne La locomotiva “sono sempre giovani e belli”… quindi non invecchiano…
Come si ribellerebbe oggi Tullio Saba alla massificazione della globalizzazione?
Probabilmente sforzandosi di fare bene le cose, il proprio mestiere, cercando di non perdersi, credo che questa sia l’unica salvezza, di non inseguire chimere che non ti appartengono e che non danno certezza…
La cosa che a parer mio emerge da questa intervista è che Gianfranco Cabiddu è egli stesso il personaggio di una storia, di un libro, di un film, un uomo che si è lasciato andare a incontri apparentemente casuali per esplorare fino in fondo le proprie potenzialità. Spesso siamo ingabbiati in una serie di vincoli che ci impediscono di far spaziare la nostra fantasia, forse per la fissazione verso un obiettivo, per una mira verso la carriera, o semplicemente per avere l’anima ciecamente coperta da una sovrastruttura culturale. Eppure se siamo capaci di guardare oltre il mare isolato di cui parla lo stesso Cabiddu, abbiamo il potere di far accadere le cose. Credo che sia questo atteggiamento di apertura e umiltà ad avere favorito l’incontro del nostro regista con persone speciali come Eduardo, Scarpelli, Tornatore, Fresu, Atzeni, ecc…, ma è certo il suo talento che invece è riuscito a trattenere questi grandi uomini nella sua vita. Del resto la macchina da presa fissa attimi che poi diventano universali. Bisogna solo essere pronti… e poi saper aspettare…
Si ringrazia il regista Gianfranco Cabiddu per le immagini messe a disposizione per la pubblicazione.