Ho vissuto in Perù per 10 mesi, un arco di tempo che ritengo sufficiente per iniziare a cogliere i molteplici aspetti di un luogo e della sua gente. Il mio lavoro mi ha portata a vedere i confini della città di Arequipa, la sua desolante periferia, e a conoscere quei luoghi lontani dallo sguardo di un comune turista, luoghi fatti di polvere e di cani. Grazie al mio lavoro sono entrata in carceri ed in centri per minori abbandonati o vittime di violenza; ho incontrato bambini, ragazzi e donne che si trovano ai margini della società e che in realtà riflettono, al di là delle apparenze, le contraddizioni, le caratteristiche profonde, ma anche le paure di un modo di vivere, di una cultura e di una città. Ritengo sia necessario adottare un atteggiamento di apertura e disponibilità a farsi attraversare da queste storie per meglio intenderle e per avere una visione generale e credo più vera della realtà.

Sono arrivata ad Arequipa con l’idea di mettere in pratica, in diversi contesti, il metodo “The Self-Portrait Experience®” di Cristina Nuñez, sul quale ero stata precedentemente formata. Il metodo consiste in sessioni individuali di autoritratto in uno studio fotografico allestito per il workshop, ed in un lavoro di percezione delle immagini secondo criteri artistici specifici che aiutano a scegliere quelle che Nuñez definisce le “opere d’arte”. I criteri più importanti sono: molteplicità, temporalità e armonia di elementi formali. E’ previsto anche un lavoro di gruppo sulle immagini prodotte. Cristina Nuñez definisce il suo metodo come “un viaggio nella propria interiorità” ed afferma che “The Self-Portrait Experience® permette di sperimentare intensamente il processo creativo e di trasformare le emozioni difficili in arte. Essere liberi di esprimere le proprie emozioni difficili, vedersi e accettarsi in queste immagini è un processo che contribuisce ad aumentare l’autostima”.

Il mio è stato un percorso di crescita all’interno del quale mi sono sempre più messa in discussione, confrontandomi con realtà via via piú complesse. Ho iniziato a lavorare con i ragazzi di una casa famiglia, successivamente in due riformatori, per arrivare al carcere minorile ed, infine, al carcere femminile per adulti. Quest’ultima credo sia stata la tappa finale di un processo per me significativo ed importante.
Il carcere femminile di Socabaya di Arequipa accoglie più o meno 84 detenute. Si tratta di un ambiente estremamente complesso e molte volte violento per quanto riguarda le relazioni interpersonali, sia tra le detenute stesse che con il personale penitenziario. Le condizioni fisiche in cui vivono queste donne sono alquanto difficili; le recluse dormono in celle condivise e ciò non garantisce il rispetto di una condizione basica di privacy.

Sono entrata a Socabaya come psicologa proponendo un workshop sul metodo “The Self-Portrait Experience®” e con l’intento di raccogliere delle interviste sulle storie di vita di un gruppo di donne. Ricordo ancora il momento in cui la psicologa del carcere mi parlò dei reati che avevano commesso le sette detenute che avrebbero partecipato al workshop. Restai pietrificata. La metà si trovavano in carcere per l’uccisione del proprio figlio, due per omicidio e due per spaccio. In quel momento pensai che forse non ce l’avrei fatta, che forse mi stavo ponendo degli obiettivi troppo alti, ero da sola e non avevo mai lavorato in un carcere per adulti. Il workshop all’interno del carcere femminile di Socabaya si è rivelata una delle esperienze più belle ed intense che ho fatto ad Arequipa. Lo scambio è stato reciproco: io ho offerto la mia professionalità, la mia sensibilità e la conoscenza del metodo; le donne che ho incontrato mi hanno insegnato a “vederle” nella loro piú profonda umanità.

I risultati del workshop all’interno del carcere di Socabaya sono stati molto significativi. Queste donne hanno iniziato a vedere se stesse da un nuovo punto di vista, ad esprimere e riconoscere la moltitudine di emozioni che conservavano dentro, a leggere le immagini in profondità, a comprendere che la vera bellezza non è quella legata a canoni convenzionali, bensì quella che appartiene all’interiorità di ciascuno.
Tutte le donne si sono sorprese della molteplicità delle immagini, di come uno stesso autoritratto possa esprimere differenti emozioni e di come in una sessione di autoritratto possa venir fuori una moltitudine di sentimenti contrastanti. Durante le sessioni individuali sono emersi pentimento per i reati commessi, sentimento di colpa, perdono, rabbia, disperazione, dolore, misericordia, liberazione, tristezza, forza, determinazione, sollievo, collera, nostalgia, impotenza, fragilità e tenerezza.

All’interno del workshop ho svolto anche delle interviste semi-strutturate sulle loro storie di vita e sulla loro percezione del futuro. Lo scopo di tale scelta metodologica è stato sia di ottenere una cornice per una comprensione più completa del lavoro con gli autoritratti, sia di avvicinarmi maggiormente alla realtà di queste donne. I contenuti delle interviste mi hanno aiutata ancor più a “vederle” indipendentemente dal reato commesso. Sono donne che hanno bisogno di ricostruirsi, di risentirsi degne di amore e di essere rinforzate; ma per fare questo credo sia necessario partire da molto più lontano e far luce sul loro passato. Ecco la storia di una di loro.

Georgina ha 35 anni. Si trova in carcere per droga e per essere complice di un omicidio. Apparteneva ad una conosciuta banda di donne, “las peperas”, che seducevano uomini e ragazzi, li drogavano o avvelenavano di nascosto per poi rubargli i loro averi. Durante il suo ultimo “colpo”, un ragazzo è morto a causa di una dose eccessiva di veleno. Le avevano dato 25 anni di pena che successivamente le hanno dimezzato; ne ha già scontati piú di sette.

Questa è una parte della sua storia di vita: “Mio padre è morto quando io avevo 3 anni. Quando ero piccola mia madre si dedicava a lavorare e non ci dava affetto. Adesso che sono una donna, mi rendo conto che quell’affetto ci è mancato, un “ti voglio bene”, un abbraccio. Mia madre mai ci ha chiesto “Che hai?”, “Stai male?”, “Che ti manca?”, si dedicava solo al lavoro, vendeva frutta, non si prendeva cura di noi. Non abbiamo ricevuto quell’amore che dovrebbero ricevere dei figli. Per questo, sono cresciuta cosí. Ho tre figli, un figlio di 19 anni, una di 14 e uno di 7. Ho avuto mio figlio quando avevo 15 anni. L’uomo con cui stavo era più grande di me di 10 anni, e adesso penso che allora ho confuso l’affetto di un padre con quello di un marito. Il mio cuore non sapeva che significava amare, semplicemente io avevo bisogno di quell’affetto che a casa mia mancava. Così, sono cresciuta. Quindi ai 17 anni ho iniziato a “uscire per strada”, a cercare la via piú facile, ad unirmi con certe pesone, mi portarono a delinquere, mi insegnarono a rubare, iniziavo a far soldi velocemente. Mi dicevo “più facile, più veloce” peró naturalmente non mi rendevo conto che un giorno sarei arrivata in questo luogo. Non pensavo alle conseguenze, non misuravo le conseguenze. Alla fine, credo che la mia vita è stata un disastro.

Da molto piccola ho sofferto, a 3 anni mio padre mi ha lasciata, quando avevo 7 anni sono stata violentata da un vicino di casa. Non ho mai avvisato mia madre, mai gliel’ho detto perchè ero una bambina, avevo 7 anni e lui mi minacciava, mi diceva che se avessi detto qualcosa a mia madre, lui mi avrebbe portata lontano, che mia madre non mi avrebbe creduta e mi avrebbe picchiata. Questo si che mi è rimasto impresso. Pensavo che mi avrebbe portata davvero lontano. Lui lo faceva costantemente, mi aspettava fuori dalla scuola e mi portava con lui. Mi ricordo che quando ho compiuto 12 anni, lui continuava a molestarmi, voleva continuare ad abusare di me, però io gli dissi che se lo avesse fatto un’altra volta, lo avrei denunciato alla polizia. Lui si spaventò e non mi molestò piú. Però tutta questa storia è rimasta dentro di me. Già vivevo amareggiata, con rancore, con rabbia, già non credevo in nessuno, non credevo negli uomini. Così sono cresciuta. Non mi sono mai decisa a raccontare questa storia, me la sono sempre conservata dentro. A volte avrei voluto denunciarlo però pensavo che non mi avrebbero creduta. Attualmente, fino al giorno d’oggi, non l’ho mai raccontato a mia madre. Fino ad oggi mia madre non lo sa, non sa ciò che mi è successo. Penso che adesso che è anziana potrebbe soffrire troppo. Lei già si sente male per non essersi presa cura di noi, per non averci dato affetto...essere una madre, ciò che significa essere una madre. Lei stessa mi dice: “Tu sei qua per colpa mia, perchè io non ti ho saputa crescere, non ti ho saputo dare un esempio”.

La sua prima sessione di autoritratto è stata per entrambe molto importante. Quando, dopo essersi scattata i suoi primi autoritratti, mi ha chiamata nello studio, mi è sembrata una persona stremata, era evidente che aveva pianto ed aveva vissuto un momento molto forte. Ci siamo sedute e ancor prima di osservare le foto nel portatile, mi ha parlato con commozione di quello che le era successo durante la sessione: “Finalmente ho pianto, finalmente ho espresso tanta collera! E’ la prima volta in 7 anni e mezzo di carcere che mi sono sentita libera di gridare, di sfogarmi, di esprimere la mia rabbia! Ho ricordato il mio passato, tutto ciò che ho sofferto. Mi è passata davanti tutta la mia vita, da quando ero bambina al momento in cui stavo in strada, a quando ho lasciato i miei bambini, fino al giorno d’oggi. Mi sono venuti in mente i miei figli, la rabbia per non aver pensato a loro nel momento in cui ho commesso il reato, la rabbia per non poter essere accanto a loro nei momenti importanti della loro vita. Il fatto di non poter gridare da quando ero bambina, di non poter piangere senza che nessuno mi stesse guardando o mi stesse dicendo “Smettila!”... ecco, l’ho fatto, ho pianto senza controllo. Dopo ho sentito una pace, una tranquillità, come dire “già è passato”, mi sono sentita bene. Mi sento meglio, più calma, ora non ho quel nodo che conservavo dentro”.

Quando abbiamo visto i suoi autoritratti, io mi sono commossa. Sono rimasta sorpresa, tutte le sue immagini erano di una bellezza rara e parlavano di sentimenti umani. C’era dolore, sofferenza, disperazione, collera, però anche pace, tranquillità, senso di liberazione e forza di andare avanti. L’aver visto la sua sofferenza esplicitata nelle immagini, e quindi maggiormente concreta, è stato per lei di grande impatto. Le sue foto erano molto intense, ma la sua prima reazione è stata di rifiuto, non si riconosceva e non si accettava. Solo pian piano è riuscita a vedere nei suoi autoritratti molta umanità, sincerità e bellezza interiore. Ritengo che questo processo sia la base di una maggior conoscenza di se stessi, di un’accettazione dei propri vissuti ed emozioni, ma anche dei propri errori, accettazione necessaria per poter superare certi traumi e certe esperienze, per poter iniziare ad avere una nuova visione di se stessi, più positiva e dignitosa.

Credo che per Georgina la prima sessione si sia rivelata utile sotto vari punti di vista. Innanzitutto ha costituito per lei uno spazio di solitudine, un tempo che definirei insolito all’interno di una realtà come quella di un carcere. Questo momento le ha permesso di raggiungere un profondo contatto con se stessa, di sentirsi libera di esprimere quella sofferenza e quel dolore che per anni aveva accumulato, di comunicare il suo reale stato d’animo, ma anche il suo senso di colpa, e alla fine di sentirsi “liberata”. Como lei stessa mi ha detto, durante la sua intervista: “Avevo bisogno di un luogo, di uno spazio per sfogarmi, mi mancava un lavoro come questo”.

Nel suo feedback finale, Georgina ha scritto: “Mi sono resa conto che questa esperienza mi ha aiutata a cambiare certi modi di pensare, ogni volta che avevo la sessione mi sentivo liberata. Ho incontrato di nuovo il mio passato ed è stato bello perchè ho potuto scaricare tutto ciò che mi portavo dentro da anni, e l’ho fatto in 15 minuti, se non mi sbaglio. Mi ha aiutato a sentirmi libera, totalmente libera”.

Una delle caratteristiche del carcere è proprio la presenza di una tendenza alla massificazione e una disattenzione alle individualità dei reclusi. Proprio in tale contesto credo sia necessario lavorare sull’affermazione dell’identità di queste persone, che hanno bisogno di essere considerate come individui con proprie qualità, abilità e risorse. Tramite l’autoritratto è possibile riconoscere l’unicità di ogni individuo e quindi, in un certo senso, la sua dignità come persona, indipendentemente dai reati commessi. Grazie a questo processo il workshop ha aiutato queste donne a valorizzare se stesse e ad aumentare la loro autostima in un contesto dove spesso vengono “dimenticate”.

Chiara Digrandi è psicologa abilitata alla pratica professionale e specializzata in “Intervento psicologico nello sviluppo e nelle istituzioni socio-educative”; da anni s’interessa all’arte come strumento terapeutico, partecipando a convegni, seminari e workshop di arte- terapia in Italia e in Finlandia. Ha studiato musica, danza e fotografia. Formata da Cristina Nuñez al suo metodo, ha collaborato con Nuñez in diversi workshop.

Testo di Chiara Digrandi
chiaradigrandi@yahoo.it