La società ha sempre temuto la potenza delle nuove generazioni e, fin dall'antichità, ha sempre cercato di intervenire e contenere il potenziale esplosivo degli adolescenti con riti di passaggio. Gli adolescenti rappresentano la speranza del futuro, ma anche una minaccia per il presente in quanto si collocano in una zona intermedia, indefinita e non facilmente comprensibile. Vivono, infatti, un'area mentale che si situa a mezza strada tra la tragedia del mondo infantile che finisce, comportando un lutto per la perdita irreversibile del passato e la scoperta di un mondo adulto che sta per iniziare, che attiva sentimenti di speranza, di idealità, di desiderio di innovazione. Il loro linguaggio comunicativo, proprio perché risente di questa confusione emotiva, rimanda al caos, al selvatico, all'estraneo, all'ignoto che spaventa. Non si sa mai come comportarsi con loro, rimandano sempre l'idea di non essere capiti, di sentirsi soli ed incompresi nella grande impresa evolutiva che sono chiamati a compiere.
A. van Gennep, etnologo, prendendo spunto dallo spazio geografico, ha definito l'adolescenza come zona “margine”, geograficamente un tipo di zona neutra e dai confini incerti dove non vigono le leggi civili. Infatti, il passaggio dallo stato infantile a quello adulto richiede un periodo di sospensione, poco definibile, neutro appunto e i riti hanno sempre avuto la funzione di accompagnare e riconoscere come sacro questo tempo al “margine” aiutando i giovani a trasformare la pubertà fisiologica, evento della natura, in pubertà culturale, cioè socializzata, simbolica. Il rito dà espressione alla crisi permettendo la rappresentazione simbolica del dolore del cambiamento.
L'adolescente incarna per gli adulti il “perturbante”, cioè paradossalmente diventa il “familiare-sconosciuto”, infatti i genitori faticano, a volte, a far coincidere il bambino conosciuto da sempre con l'irriconoscibile nuova persona trasformata dai cambiamenti della pubertà. Inoltre l'adolescente, portando con sé il rischio di morte (il suicidio è la prima causa di morte in età puberale) e di attacco alle differenze di genere e di generazione, colpisce l'ordine culturale nella sua totalità. I disturbi alimentari, gli atti autolesionistici, le fobie scolari, le droghe rappresentano un tentativo di evitare il trauma puberale, richiamando attenzione e cura tramite la regressione allo stato infantile.
Una delle immagini archetipiche che hanno dato significato alla trasformazione adolescenziale è il labirinto, luogo dove ci si perde e ci si ritrova modificati dall'esperienza: ci si perde come bambini e e ci si ritrova come adulti. Nell'antichità, in molte parti dell'Europa e in tutto il bacino del Mediterraneo, il labirinto era il luogo iniziatico, luogo elettivo della rinascita psicologica, veniva proposto a cavallo della crisi puberale (menarca e capacità erettiva) al fine di aiutare ragazzi e ragazze a ri-definirsi, a ri-identificarsi come adulti. Le società attuali, caratterizzate dall'assenza o evanescenza di valori stabili, rendono praticamente impossibile un sostegno che possa contenere ed accompagnare gli adolescenti come avveniva invece nelle società antiche o nelle tribù tramite i riti iniziatici. Sono andati perduti gli ideali rivoluzionari, non sembrano esserci valori per cui combattere e lottare, tutto è appiattito sul godimento immediato e non è prevista nessuna rinuncia o sacrificio, perché nessun ideale può sostenere l'attesa e la fatica del crescere in funzione di una realizzazione futura.
Gli adolescenti d'oggi, allora, si sono dovuti inventare nuove e autarchiche modalità rituali per affrontare il passaggio dall'età infantile all'età adulta. Ad esempio, una delle testimonianze provocatrici della loro esistenza la vediamo tutti i giorni attraverso quelle disturbanti ed implacabili scritte sui muri delle città. Sono le “tags”, strane firme a caratteri quasi geroglifici che ormai sembrano far parte dell'arredo urbano. “Tag” significa macchia, segno, impronta, le tag non sono belle, semplicemente sporcano la città, ma danno ai loro autori un rimando di esistere, di essere nel mondo, servono per rassicurarli sulla loro identità. La tag è una firma indecifrabile, è un nome d'arte, è una danza del tratto grafico, è come la rappresentazione del movimento del corpo in libertà, è un segno in cui conta più la forma del contenuto, deve colpire, deve dare una sensazione di bellezza al suo autore, e deve essere ripetuta all'infinito, così come è infinita l'illusione di vita futura.
Un altro segno che marca l'età giovanile è il famoso “motorino”, con cui ragazzi e ragazze sfrecciano per le vie di città e campagne con un atteggiamento di sfida e, a volte, mettendo in atto seri comportamenti a rischio. Ma perché e cosa vogliono sfidare? Sfidano il bambino che sono stati e che sentono ancora dipendente dagli adulti, anzi, cercano di spaventare quel bambino e dimostrargli che può organizzarsi anche quando la morte è vicina. Sfidano il bisogno della madre dell'infanzia, dimostrando di aver fatto della strada dai tempi della paura del buio; sfidano anche il padre, per rassicurarsi di essere forti e capaci di lottare. Il corpo e il motorino costituiscono la rappresentazione del sé: bisogna saper gestire la forza dell'aggressività, spingersi fino al limite come nella lotta, nelle gare, ecc. senza perdersi e senza soccombere. Sfidano anche la morte e questo aspetto riguarda la difficoltà di mentalizzazione e accettazione del nuovo corpo che scoprono essere capace di generare, ma che è anche mortale. È la scoperta della propria fragilità e della caducità umana che li induce a dimostrare di essere in grado di vincere il pericolo.
Altro momento di particolare importanza per gli adolescenti è l'esperienza della “curva” durante la partita della squadra del cuore. Entra in scena, qui, un rito aggressivo, i ragazzi hanno bisogno di sentirsi protagonisti, di lottare concretamente, di riconoscersi negli slogan, nei canti, nei colori, ecc., siamo sempre nell'ambito del riconoscimento della propria identità e il gruppo, con la sua funzione eccitatoria, è fonte di rischio, ma ha anche una funzione contenitrice quando è capace di osservare delle regole non scritte che dovrebbero frenare gli eccessi. La questione è la demarcazione fra i rituali aggressivi e la violenza vera e propria. Il rituale aggressivo non ha come scopo primario l'esternazione della violenza, ma prevale il bisogno di affermazione di sé, di riconoscimento del coraggio e la spinta aggressiva pare appartenere più alla noia che alla rabbia. Il riuscire o meno a superare il rituale suscita vergogna, piuttosto che colpa: un ragazzo ha bisogno di dimostrarsi e di dimostrare di essere capace, di valere per nutrire una buona autostima. E dalla vergogna nascono le tendenze ad effettuare manipolazioni violente sul corpo: doping, disturbi della condotta alimentare, tatuaggi, piercing e anche attacchi al “corpo” scolastico, tramite, per esempio, fobie scolari, inibizione negli apprendimenti, ecc.
Tra gli atti autolesionistici che destano maggior inquietudine c'è il terribile “gioco del foulard” che, stretto alla gola, serve per ricercare lo svenimento che si realizza attraverso una iperventilazione, seguita da una compressione della carotide che blocca l'afflusso di ossigeno al cervello. Come per la droga o per l'alcol i ragazzi, anche in questo caso, sfidano il proibito, misurano i propri limiti corporei e vivono esperienze straordinarie quali senso di vertigine, uno stato soporoso e una serie di allucinazioni e sensazioni “bizzarre” come per cercare e provare sensazioni estreme per trovare una conferma drammatica, ma sentita, dell'essere presenti nel mondo con una pienezza del sentire. È anche presente un forte bisogno di mettere in scena il disorientamento, il senso di perdita, il senso di soffocamento, le angosce intollerabili e l'impotenza del sentirsi senza punti di riferimento a cui aggrapparsi.
Il dolore del corpo rappresenta e, allo stesso tempo, allontana quello della mente, nasconde quello dei sentimenti così a lungo non riconosciuti, umiliati dall'indifferenza o, al contrario, soffocati da una assillante presenza degli adulti. Ai giorni nostri il tempo della zona “margine” dell'adolescenza tende a cronicizzarsi, il desiderio di fuga da casa è sostituito da una forma di parassitismo familiare che prolunga lo stato di dipendenza e non aiuta il giovane ad assumersi la responsabilità del diventare adulto. I genitori, che devono affrontare e contenere lo scontro generazionale, sono spesso incapaci di riconoscersi adulti maturi, ma vagolano nell'illusione di un'eterna giovinezza, rifiutando il naturale scorrere del tempo che li avvia verso un'altra fase della vita, di conseguenza fanno fatica a cedere il passo: ma se non si lascia libero lo spazio, come fanno i figli a crescere e a cimentarsi con responsabilità nella vita?
Nei tempi antichi e tuttora in alcune tribù erano previsti rituali di passaggio anche per i genitori, per esempio con l'atto del “salto della siepe”. Nella società attuale dove si tende ad omologare tutto, negando sempre più le differenze di generazione e di genere, chi aiuta i genitori a passare il testimone? E quale traghettatore aiuta i figli ad attraversare il guado dell'età adolescenziale?