Nella mia terra natale, la Sicilia, si dice che nella notte tra l’1 e il 2 di novembre i defunti rechino doni ai bambini per manifestare la loro vicinanza.
Ricordo ancora quando mia madre raccontava a me e alle mie due sorelle che i morti, in quelle magiche ore, abbandonavano le loro dimore e venivano a portarci dei regali. I miei genitori nascondevano i suddetti doni in vari punti della casa e l’indomani mattina io e le mie sorelle, eccitate da questa particolare caccia al tesoro, esploravamo freneticamente tra le risate ogni angolo della casa e quando trovavamo i cesti colmi di giocattoli e di dolci tipici della festa (la frutta Martorana, i morticeddri a forma di ossa, i pupi ri zuccaro: statuette di zucchero a forma di Paladini), la gioia e la gratitudine erano immense.
Con questo stato d’animo poi andavamo tutti al cimitero, provvisti di crisantemi, fiore simbolo orientale di immortalità, per rendere omaggio ai nostri defunti. Mio padre ci guidava in quel labirinto di vie, come seguendo una sorta di mappa mentale, mentre ci narrava la storia sia dei nostri avi che delle persone che aveva conosciuto. Così il cimitero diventava il luogo della memoria, un appassionante libro di storie di vita e di radici invisibili, non era certo un luogo lugubre da visitare.
Il pranzo poi era a base di muffoletta, una pagnottella appena sfornata cunzata con olio, sale, pepe e origano, filetti di acciuga sott'olio e qualche fettina di formaggio primosale.
Una tradizione che esorcizzava in noi bambine la paura della morte e dei defunti, rendendo più sottile il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Da piccola credevo che i trapassati vivessero in una sorta di altra stanza invisibile e che comunicassero con me attraverso dei segni, dei suoni e dei sogni, è ancora così. Immaginavo che al trapasso avessero lasciato il loro abito sulla sedia e ne avessero indossato un altro più leggero.
Questa celebrazione risale ai tempi antichi, in quei giorni autunnali anche i Celti festeggiavano la notte durante la quale i morti entravano in comunicazione con i vivi e la chiamavano Samhain, il capodanno celtico. I Celti, seguendo i cicli lunari, segnavano la vigilia del mese di novembre come l’inizio dell’anno agricolo, la fine dei raccolti era propedeutica alla preparazione del terreno per l’inverno. Per loro quel periodo era il più magico dell’anno, il Samhain si riferiva al ritmo solare-lunare-agricolo, un ciclo di distruzione e ricostruzione del tempo cosmico e partecipare a questa celebrazione era indispensabile per non essere escluso dal tempo e rischiare di essere distrutto.
In queste popolazioni indoeuropee era credenza diffusa la trasmigrazione delle anime quindi non avevano paura della morte e morire in battaglia con onore ed essere ricordati dalla loro tribù era fondamentale. Si aprivano le tombe e i morti si mescolavano ai vivi, nell’inebriante profumo dei tanti fiori portati in omaggio ai defunti. I Celti usavano anche accatastare i teschi perché credevano che il morto appartenesse a entrambi i regni, anche se per un tempo limitato. Durante la notte si dipingevano i teschi custoditi nell’ossario e si trascorreva la notte suonando, cantando e bevendo in compagnia dei morti, illuminati dai falò accesi sulle sommità delle colline e che avevano una funzione divinatoria e purificatrice delle energie dannose.
Si può facilmente associare questa usanza a quella della notte di Halloween, nome che deriva dall’irlandese Hallow E’en che è la forma contratta di All Hallows’ Eve - ‘la vigilia di tutti i Santi’, festa durante la quale i bambini si mascherano da scheletri o fantasmi mimando il ritorno dei trapassati sulla terra.
Con le conquiste dei Romani in Europa, cristiani e celti vennero in contatto ma l’evangelizzazione delle isole britanniche non riuscì a sradicare i culti pagani che contenevano una concettualizzazione nettamente contraria a quella cristiana. Così la festa di Halloween venne inglobata e trasformata dalla Chiesa in quella di Ognissanti il 1 di novembre e quella dei defunti il 2 novembre.
Tradizioni non dissimili a quelle celtiche sono le feste messicane di Todos los Santos che comprendono anche il giorno dei morti, riflettendo tutt’oggi le antiche celebrazioni atzeche prive di tristezza ma ricche di gioia nella rievocazione dei parenti e degli amici trapassati. In quei giorni i cimiteri pullulano di fiori e si confezionano dolci di pane a forma di teschio e di scheletri a simboleggiare che dai morti riceviamo nutrimento così come dai semi sotterrati rinasce la vita.
Ed anche gli Etruschi credevano che i defunti sedessero accanto a loro sul bordo dei sepolcri partecipando al pasto funebre, come se non esistesse un confine tra i due mondi.
Nelle necropoli etrusche sulle tombe sono raffigurate le feste per il defunto, le riempivano con i suoi oggetti personali e con utensili vari di uso comune, come ad invitare il trapassato a tornare sulla terra, tutti brindavano e banchettavano allegramente.
Il tema della morte è stato indagato e affrontato da diverse prospettive nel corso dei millenni in tutte le religioni organizzate. Ciò che le accomuna è la concezione che la morte separi la vita dalla non-vita. Epicuro, ad esempio, considerava la morte come un passaggio tra una condizione di esistenza ad una condizione di cessazione delle esperienze vissute nella stessa.
La religione cristiana promette la resurrezione, ossia la vita eterna sia dell’anima individuale che del corpo che si congiungerà all’anima in cielo nel momento del giudizio finale. Tale concezione, secondo gli studiosi, attinge al culto mitraico. Per la religione cattolica la morte è un passaggio ad altre dimensioni in base alle azioni, al comportamento e al vissuto emozionale della vita trascorsa, inferno-purgatorio-paradiso sono le tre opzioni possibili in base appunto alla condotta morale in vita.
Per le tradizioni iniziatiche ed esoteriche, invece, la morte non è intesa come un evento divisivo ma come un passaggio che sperimentiamo in frazioni diluite minori durante tutta la vita, una dilatazione di una condizione che è sullo sfondo della vita tutti i giorni.
Ebbene l’idea che abbiamo della morte determina il nostro modo di vivere. Tutti noi esseri umani siamo accomunati dall’incertezza dell’aldilà, anche gli Dei muoiono, la caducità della vita dovrebbe farci vivere appieno il presente e godere delle gioie che può offrirci e questo è il messaggio di un testo egizio inciso sulla parete della tomba del re Antef, accanto alla figura di un arpista, il Canto dell’arpista:
Periscono le generazioni e passano, altre stanno al loro posto, dal tempo degli antenati: i re che esistettero un tempo riposano nelle loro piramidi, sono seppelliti nelle loro tombe i nobili e i glorificati egualmente. Quelli che han costruito edifici, di cui le sedi più non esistono, cosa è avvenuto di loro? Ho udito le parole di Imhotep e di Hergedef, che moltissimi sono citati nei loro detti: che sono divenute le loro sedi? I muri son caduti, le loro sedi non ci sono più, come se mai fossero esistite.
Nessuno viene di là, che ci dica la loro condizione, che riferisca i loro bisogni, che tranquillizzi il nostro cuore, finché giungiamo anche noi a quel luogo dove essi sono andati.
Rallegra il tuo cuore: ti è salutare l’oblio.
Segui il tuo cuore fintanto che vivi!
Metti mirra sul tuo capo, vestiti di lino fine, profumato di vere meraviglie che fan parte dell’offerta divina.
Aumenta la tua felicità, che non languisca il tuo cuore.
Segui il tuo cuore e la tua felicità, compi il tuo destino sulla terra.
Non affannare il tuo cuore, finché venga per te il giorno della lamentazione funebre. Ma non ode la loro lamentazione colui che è morto: i loro pianti non salvano nessuno dalla tomba.
Pensaci, passa un giorno felice e non te ne stancare.
Vedi, non c’è chi porta con sé i propri beni, vedi, non torna chi se n’è andato.