Non è bello descrivere qualcosa -e a maggior ragione qualcuno- utilizzando il paragone con ciò che non è. Troppe negazioni, anche in questa prima frase, non (di nuovo!) si dovrebbero utilizzare…

Anche questa regola, non(!) potrebbe che essere così, ha la sua eccezione: come argomentare su luoghi che non(!!) sono tali e per i quali la nostra lingua non(!!!) ci mette a disposizione un termine da utilizzare?

Il riferimento è in questo caso ai “non-luoghi”, spazi così definiti perché mancano delle necessarie caratteristiche per avere una propria individualità, e quindi -banalmente ma sostanzialmente- essere!

Non si tratta di volersi paragonare a parti del territorio tanto riuscite in termini di bellezza, funzionalità, originalità e non solo da raggiungere il mito. I riferimenti più scontati vanno alle eccezionali città storiche italiane. Niente classifiche ma è evidente come Firenze, Roma e Venezia, in rigoroso ordine alfabetico, incarnino perfettamente il concetto.

Scendendo di scala, cioè passando dal generale al particolare, dal grande al piccolo, quindi dalla città a qualcosa di più minuto, il discorso non cambia. Come non comprendere la grandezza di Piazza San Marco -nemmeno serve indicare la città- ma anche di spazi meno acclamati, come sono i piccoli borghi, in cui si percepisce di trovarsi in veri e propri luoghi.

Purtroppo non sempre è così, forse nemmeno potrebbe esserlo, però oggi sembra proprio che trovarsi in uno spazio dotato di identità sia, se escludiamo gli spazi storici, sempre più raro, e non è certo un bel segno.

Contrapporre i centri, non per nulla definiti “storici”, alle periferie, i cui problemi non sono solo legati alla datazione, non produce alcuna soddisfazione. Se i primi sono i luoghi per eccellenza, le ultime ne sono l’indefinibile contrario. Non riusciamo a dar loro una categoria per cui non possiamo che limitarci ad utilizzare, come per i “non-vedenti”, per i quali peraltro un altro termine ci sarebbe (troppo violento?), il citato “non-luogo” che, sembra una battuta ma non lo è: sarebbe meglio non vederli ed ancor meno viverli.

Il primo esempio è sicuramente il parcheggio, spazio quasi sempre del tutto amorfo, studiato al solo scopo di ricoverare -a tutti i costi- l’automobile. La casistica è ampia, sia negli edifici che negli spazi aperti, dal “cubo-incubo” alle piazza trasformata -o rovinata?- in piazzale, sempre con il massimo numero possibile di stalli per le scatole di latta con cui ci muoviamo ma da cui dobbiamo pure scendere! Siamo (per fortuna non tutti…) legatissimi a questi cavalli meccanici, che non abbandoneremmo mai.

I confronti con altri spazi dedicati allo stoccaggio non fanno che rincarare la dose: si pensi a certe straordinarie cantine, dove venivano ricoverate botti, tini e simili ed in cui esigenze funzionali e strutturali hanno prodotto soluzioni che ancora oggi lasciano senza parole. Più di qualcuno non riesce nemmeno a ritrovare l’automobile, visto che manca ogni “forma” di riferimento, non a caso elemento che caratterizza ogni luogo, e quindi di orientamento, con buona pace dei maestri del passato, ovvio…

Pensiamo alle straordinarie piazze edificate da chi ci ha preceduto, non ha alcun senso fare degli esempi: ci sono quelle importanti, ma pure quelle minute, e gli spazi aperti che noi realizziamo oggi, qui il motivo ci sarebbe ma scatterebbero vertenze legali che, vista la pochezza del pensiero dominante, potrebbero farci soccombere....

Meglio sarebbe lasciar stare anche le vie di comunicazione, ma dopo le piazze non è possibile… Chi desidera affrontare la differenza tra –a solo titolo di esempio- il Canal Grande a Venezia o lo straordinario complesso di pieni e vuoti che attraversa Edimburgo, con le nostre autostrade, dove sia chiaro come la presenza di una o più curve ci infastidisce non poco mentre un bel panorama, distraendoci dal nastro d’asfalto, potrebbe causare incidenti! Molto meglio installare su entrambi i lati le barriere acustiche che non ci fanno guardare e vedere di lato… Sono come i paraocchi dei cavalli da tiro, perché questo siamo diventati!

Passando ai fabbricati, ciò riguarda anche i corpi secondari, Non è così, infatti, anche nelle barchesse delle ville venete? Quelle “ali” realizzate a lato degli edifici principali e destinate al ricovero di tutto quanto serviva alla coltivazione dei terreni agricoli. In entrambi i casi indicati non siamo in presenza di spazi nobili o ricchi ma la differenza tra quelli ed i nostri è abissale!

Anche molti, anzi purtroppo moltissimi, edifici per gli umani possono ricadere in questa poco onorevole casistica/classifica.

Non possiamo -o vogliamo?- considerare i manufatti molto piccoli, in quanto di impatto troppo limitato. Vero però che i cosiddetti “box” in lamiera e le “casette-in-legno-da-giardino” da sole sembrano produrre ben poco ma moltiplicate per centinaia di migliaia ricordano la tragedia di quei minuscoli animaletti che sono le locuste…

L’analizzare singolarmente questi piccoli mostri non ci indica di certo di essere in presenza di un capolavoro e la moltiplicazione ci ricorda la differenza tra l’uno e la moltitudine, il primo al massimo infastidisce, l’ultima è potenzialmente deleteria!

Salendo di scala (cioè di ampiezza) come possiamo trascurare i nuovi templi dello shopping? Ovvio, si tratta dei centri commerciali, tanti, pretenziosi e frequentatissimi. Il nostro interesse non è però rivolto agli aspetti economici, al loro essere causa della ormai prossima scomparsa del negozio di vicinato e al probabile soccombere di questo stesso modello per i nuovi modi di comprare, che con ogni probabilità faranno fare a questi “centri-che-non-sono-centri” la stessa fine dei negozi!

La nostra attenzione cade qui perché è questo il modo in cui molte famiglie trascorrono il proprio tempo libero, ma non solo, per il rito dello shopping. Sembra, infatti, che questo sia quasi un corollario dell’esperienza da vivere in questi fabbricati sempre più grandi, sempre più dotati di attrezzature non direttamente commerciali in senso stretto. A cosa servivano le prime panchine ed i giochi per i bambini, cui hanno fatto seguito Wi-Fi, bar e ristoranti ma più di recente il baby-sitting e la programmazione di vere e proprie rassegne musicali e teatrali di ogni genere, dal più leggero a crescere. Di solito sono gratuite, rappresentando l’esatto contrario dello scopo dichiarato del centro che le ospita, non certo culturale o benefico ma, per definizione, commerciale!

Sono quindi vere e proprie macchine, sicuramente molto complesse, si pensi alla regia video! Progettati da importanti studi internazionali specializzati all’interno di operazioni (economiche!) ancora più articolate e costose.

Qui ci interessa il solo risultato finale: questi edifici, sicuramente attenti a tutti gli aspetti, quindi anche quelli estetici (riferiti al proprio target-pubblico) e realizzati senza economia (perché anche lo sfarzo ha il suo perché), come li classifichiamo? Li mettiamo tra i “luoghi” (della contemporaneità di cui vorrebbero essere faro) o tra i “non-luoghi” (le apparentemente inevitabili scatole che ci angosciano)?

Come sempre non generalizziamo, gli esempi eclatanti non mancano, ma sono pochi, anzi una sparuta minoranza. La stragrande maggioranza dei casi, infatti, si mostra in altro modo. Non sono spazi in cui stare bene, semmai ricordano certe reti per la cattura del pesce, che entra in questa sorta di labirinto da cui non riesce ad uscire, finendo per essere catturato, venduto, evirato, cucinato e divorato!

Vogliamo fare degli esempi? Sicuramente interessante è il caso del Fondaco dei Tedeschi a Venezia. Questo tipo di edifici -i “fonteghi”- erano la testa di ponte del commercio coi vari paesi stranieri. L’edificio indicato lo era naturalmente con la nazione che gli ha dato il nome. Il tempo ha fatto cambiare la modalità di commercio fino a far sì che l’edificio abbandonato fosse utilizzato come ufficio postale. Non sembra una barzelletta? Certo ma non fa ridere… Di recente un importantissimo gruppo industriale lo ha rilevato e trasformato -appunto- in un centro commerciale, grazie ad un intervento -firmato da una archistar- quanto meno discutibile, se non altro applicando i consueti principi di tutela dei fabbricati di questo tipo, evidentemente non inderogabili come ci era stato spiegato, e soprattutto cui avevamo creduto…

Qualcuno vuole sostenere che siamo di fronte -anzi: dentro!- a veri e propri “luoghi”? Personalmente non credo che i centri commerciali lo siano ed anzi non invidio coloro che lavorano lì, con buona pace di chi ha dichiarato salubre l’ambiente. Noi almeno prima o dopo ce ne andremo, ma chi trascorre la vita intera all’interno di negozi privi di finestre ed ottimamente climatizzati, al punto che l’intera giornata trascorre senza alcuna variazione dall’alba al tramonto, in tutto l’anno? Stagioni? Superate! Mattina e pomeriggio? Forse una volta… Oggi sono solo gli orologi -da muro o gli smart-whatch?- ad indicarci lo scorrere del tempo!

Tutto bene, quindi? Ma no, non si può seguire una freccia disegnata sul pavimento! Lo abbiamo già indicato in apertura, quasi fosse un enunciato, e non resta che confermarlo andando a chiudere: i “non-luoghi” esistono, anzi sono sempre di più. Si contrappongono ai “luoghi”, ovvio ma -apparentemente, quanto meno se ci limitiamo alla logica del discorso- per il poco valore. Ma non c’è confronto!

I grandi studiosi delle opere meglio riuscite, che non sono quelle isolate ma i complessi di fabbricati capaci di formare quello che indichiamo con il termine “luogo”, sono riusciti ad identificare in ogni parte degna di nota un proprio “genius loci”. Uno spirito specifico che ha generato -e determinato- le caratteristiche della singola località, per questo diversa dalle altre, che -metaforicamente- sono il frutto dell’attività di un diverso genio-spirito.

Il quadro per gli orfani non è allegro, certo non moriremo di fame per questo ma qualche malattia potrebbe venir generata e causare malesseri cronici. Abbiamo distrutto (o lasciato che qualcuno lo facesse, per noi?) quella ricchezza che avremmo potuto -ed anzi dovuto- conservare e quindi “sfruttare” culturalmente ed economicamente. Il genio di Pirandello scriveva “a ciascuno il suo” e a noi questo è toccato, perchè questo abbiamo attirato e questo ci meritiamo: una sorta di “fine-pena-mai”.

Siamo passati a parlare/scrivere di noi, perché è scontato come tutti i luoghi siano frutto di chi li ha generati ma finiscono anche per influenzare chi li frequenta. Belli o brutti che siano, i “non-luoghi” non sfuggono alla regola, progettati e realizzati per il solo scopo di far arricchire qualcuno, producono danni, di cui la maggior parte di noi non si rende conto, sulla massa di coloro che li frequentano a ripetizione. È sicuramente un gioco di parole ma come definire chi trascorre qui dentro le proprie domeniche -o più genericamente il proprio tempo “libero” (perchè non sacrificato al lavoro)- se non chiedendoci chi sono e che caratteristiche hanno coloro che frequentano questi “non-luoghi” e quindi rispondendoci che, purtroppo, gli aggettivi, la definizione, quello che ne uscirà -una definizione, un giudizio, dell’altro?- difficilmente saranno positivi.

Non è una sterile critica ma un invito alla presa di coscienza! Non si sostiene, infatti e pressoché in modo unanime, che l’ambiente ci condizioni fino a sentenziare che siamo il frutto di ciò che ci circonda e di chi frequentiamo. Nel caso in argomento, fare degli esempi non presenta alcuna difficoltà e viceversa potrebbero essere chiarificatori.

Cosa hanno in comune i componenti ambientali di cui abbiamo parlato -soprattutto i centri commerciali e le strade ed affini- cosa maggiormente li caratterizza se non un vuoto cosmico? Non ci facciamo di certo imbrogliare -o aspirare?- da quei giochini presenti qui e là proprio nel tentativo di nascondere questa pochezza. Le persone che vediamo qui sono perfettamente intonate all’intorno: la banalità personificata, che però si cerca di contraddire con qualche componente originale, tanto particolare ed unico che lo hanno tutti.

In chiusura: se il nostro ambiente è formato da spazi di qualità talmente limitata da poter sostenere di esserne completamente privi, se quindi mancano pressoché tutte quelle caratteristiche che fanno di uno spazio più o meno esteso un luogo, qualche domanda dovremmo pur farcela, no?

Le persone -non solo gli altri, anche a noi potrebbe capitare e ne saremmo perciò compresi- che abbiano questa “fortuna”, per cui non possono che frequentare, in questa sede poco ci importa il motivo, tali agglomerati tanto anonimi da meritare la descrizione, ed anzi definizione, di “non-luoghi”, come potranno salvarsi dal diventare analoghi a questi?

Non ci può essere alcun dubbio, le nostre conoscenze sono statistiche, non assolute: qualcuno si salverà e magari per reazione produrrà qualcosa di altissimo valore. Per la maggior parte però questo processo salvifico sarà improbabile, anzi lo sarà altamente, se non perfino impossibile. La sintesi, la cui chiarezza è direttamente proporzionale alla lunghezza dell’assunto, ci indica come ai “non-luoghi” non possono che corrispondere le “non-persone”.