Il teatro greco di carattere comico, spesso modello del teatro romano di Plauto e Terenzio, ha avuto in Aristofane, Cratino ed Eupoli i principali esponenti della commedia “antica” (archàia, V – IV secolo a. C. o epoca classica), che era focalizzata prevalentemente sulla satira politica e su temi di interesse pubblico; Menandro, Dìfilo e Filemone sono stati, invece, i tre principali rappresentanti della commedia “nuova” (nèa, IV – III secolo a. C. o epoca ellenistica), che era incentrata soprattutto su vicende ed argomenti relativi alla vita quotidiana privata.
Tra gli spunti comici più interessanti, in quanto strettamente inerenti alla realtà socioeconomica portata in scena dalla commedia di età ellenistica, risulta particolarmente incisivo l’attacco ironico agli ἰχθυοπῶλαι, ichthyopòlai, i pescivendoli, che ritroviamo nell’opera di Dìfilo, commediografo nato a Sinope sul Ponto tra il 360 ed il 350 a. C., emigrato intorno al 340 ad Atene dove gareggiò con successo negli agoni teatrali al tempo del più celebre Menandro.
Dell’ampia produzione poetica difilea, che era nell’ordine di un centinaio di commedie, sono sopravvissuti soltanto alcuni frammenti (circa 135), di tradizione quasi esclusivamente indiretta (medievale), relativi a circa la metà dei drammi; riporto di seguito la gustosa traduzione della seconda parte del frammento 67 di Dìfilo relativo al nostro mercante di pesce (cfr. versi 9-14):
Se tu chiedi “A quanto il labràce?”,
costui risponde “Dieci òboli”, non aggiungendo di dove.
Poi se gli dai il denaro,
si fa pagare con quello egineta;
ma se deve dare il resto, sborsa monete attiche.
In entrambi i modi ci guadagna nel cambio.
Dopo avere inquadrato, nei primi otto versi del frammento, la figura del pescivendolo come quella di un soggetto spregevole e malvagio per natura, nella seconda parte del frammento che qui analizzo si assiste ad una tipica scena di compravendita nel mercato ittico del IV secolo a. C.: il pescivendolo chiede dieci òboli per un labràce (che poteva essere un pesce persico o una spigola o un branzino), ma senza specificare il centro emittente della moneta richiesta e, all’atto di prendere il denaro per il pagamento, pretende la moneta egineta (coniata presso l’isola di Egina) ma, se deve dare il resto, rimborsa moneta attica (coniata ad Atene), guadagnando così sul cambio in entrambi i casi.
La richiesta esorbitante di dieci oboli per un solo pesce, e l’atteggiamento truffaldino volto a lucrare sul cambio monetario, sembrano giustificare la forte critica nei confronti della categoria dei pescivendoli, la cui natura esosa e fraudolenta, d’altra parte, viene sottolineata anche da altri commediografi dello stesso periodo storico, tra i quali ricordiamo, ad esempio, Alessi (372 – 270 a. C. circa), poeta originario di Thurii in Magna Grecia, colonia ateniese situata nei pressi di Sibari; in un suo frammento superstite (cfr. fr. 16), ritorna ancora la figura del pescivendolo avido che richiede, anche in questo caso, dieci oboli, ma stavolta per due cefali, ed inoltre non accetta di trattare sul prezzo.
Il furbo pescivendolo di Dìfilo pone in essere una forma di speculazione finanziaria basata sulle differenze di cambio che caratterizzavano i molteplici sistemi monetari all’epoca vigenti nelle diverse zone del mondo ellenico, nonché nelle singole pòleis, laddove ciascuna Città-Stato esercitava il potere di battere moneta come segno di indipendenza economica e di autorità politica.
Tra le tante monete circolanti e scambiate sui mercati con i relativi rapporti di conversione, si affermarono nel tempo soprattutto quelle di Egina, di Atene e di Corinto, che si diffusero come valute internazionali, a tutti ben note, tanto è vero che erano anche conosciute e denominate con un caratteristico appellativo correlato all’iconografia monetale: “tartarughe” erano le monete di Egina, per la tipica presenza della testuggine marina o terrestre; “civette” le monete di Atene, per la costante immagine dell’animale sacro alla dea Atena; “puledri” le monete di Corinto, contraddistinte dalla ricorrente effige equina di Pegaso alato.
Il poeta comico Dìfilo, quale attento osservatore della vita sociale ed economica del suo tempo, coglie le problematiche connesse alla complessità dei tanti sistemi monetari all’epoca in uso e le conseguenti criticità in materia di cambi e di comportamenti speculativi che potevano essere assunti da parte degli operatori commerciali al fine di realizzare il massimo vantaggio sfruttando le differenze di peso/valore delle diverse monete utilizzate nelle transazioni.
Nel caso specifico, all’epoca dell’operazione di compravendita sul mercato ittico, l’òbolo, unità ponderale e monetaria pari ad 1/6 di dracma, nel sistema monetario eginetico era più pesante (circa 1,04 grammi) e, quindi, di maggior valore rispetto all’òbolo attico (circa 0,73 grammi, in base al sistema monetario ateniese): il rapporto di cambio era pari, pertanto, a 1,04/0,73 grammi circa, cioè l’òbolo ateniese pesava/valeva circa 7/10 dell’òbolo eginetico che, di conseguenza, permetteva di realizzare un “aggio” di cambio e, quindi, un profitto del 30% circa (in aggiunta al lauto guadagno legato all’alto prezzo richiesto).
Tale plusvalenza era senza dubbio molto conveniente per un operatore economico in grado di speculare sui prezzi e sui cambi, tenuto conto dell’elevata percentuale di metallo prezioso (“titolo” in argento) presente nella moneta, che si attestava all’epoca intorno al 98%; l’estrema purezza ed il rilevante valore intrinseco dell’òbolo consentivano un’ottima spendibilità di questa monetina negli acquisti quotidiani, se consideriamo, ad esempio, che nell’Atene classica del IV secolo a. C. bastava un mezzo òbolo (emi-òbolo) per una modesta razione alimentare, un’òbolo era il sussidio pubblico (raddoppiato verso la fine del secolo) che lo Stato ateniese erogava ai soggetti poveri ed inabili al lavoro, un “diòbolo” (pari a due oboli) era la tipica paga-base giornaliera dei soldati e marinai, nonché l’emolumento corrisposto ai cittadini che ricoprivano le funzioni di Giudice nei Tribunali.
Anche per il mondo romano abbiamo notizia (da alcuni documenti epigrafici e letterari del I secolo d. C.) di prezzi stratosferici applicati alla compravendita del pesco fresco e di pregio che, addirittura, poteva anche essere gestita in asta, con il supporto di banditori e banchieri che si occupavano delle varie operazioni dell’incanto e del finanziamento del prezzo di acquisto: la cifra di aggiudicazione poteva, pertanto, lievitare sensibilmente in quanto era la sommatoria di prezzo richiesto dal venditore, spese del banditore e dell’asta (commissione standard 1% sul venduto), spese dell’anticipazione bancaria; la moneta romana, tuttavia, nelle tipiche forme dell’asse, del sesterzio e del denario, era una valuta universale a differenza della moneta greca che, articolata in molteplici coniazioni, rifletteva così, anche dal punto di vista monetario, la storica e cronica frammentazione politica ed economica dell’Ellade.