Prima di iniziare l’università la mia idea del lavoro del ricercatore era alquanto romantica. Volevo studiare la matematica, e fare ricerca in quel campo per me voleva dire passare giorni, mesi e forse anni a pensare a un problema, esplorare strade mai percorse, formulare congetture e metterle alla prova. Dopo aver portato a termine l’università e (quasi) un dottorato, voglio ancora fare la ricercatrice, ma la mia idea del lavoro di ricerca oggi è indissolubilmente legata a un oggetto molto concreto, in grado di decidere le sorti di ogni ricercatore: l’articolo scientifico.
Se un muratore costruisce case e un cuoco prepara piatti prelibati, un ricercatore scrive articoli scientifici. Non c’è avanzamento scientifico o tecnologico di un qualche rilievo che non sia prima passato, sotto forma di articolo, da una rivista specializzata, dagli atti di una conferenza o da una qualche altra forma di pubblicazione editoriale. Sfortunatamente, pochissime persone, tra i non addetti ai lavori, sono consapevoli di come funziona l’editoria scientifica. Quasi tutti però, quando scoprono come funziona, si sorprendono, e spesso si arrabbiano. In questo articolo vi racconto perché.
Il ristorante delle pubblicazioni scientifiche
Immaginate di avere un ristorante. Il vostro ristorante ha molto successo perché vi lavorano i cuochi più famosi del mondo. Tutti vogliono venire a mangiare da voi, perché sanno che essere stati nel vostro ristorante è segno di grande prestigio. Inoltre in città ci sono pochissimi altri ristoranti che possono offrire lo stesso livello del vostro, quindi anche se tenete i prezzi molto alti, il vostro ristorante è sempre pieno. Infine, nel vostro ristorante, non dovete pagare né le forniture di ingredienti, né il personale della cucina, perché tutto è già pagato dal governo. Sembra troppo bello per essere vero, non credete? Eppure l’editoria scientifica funziona in maniera molto simile.
Una normale case editrice paga gli scrittori, che le forniscono le opere da pubblicare, gli editori, che si occupano della pubblicazione, e si sobbarca i costi di produzione e distribuzione, per fare arrivare il prodotto finito ai consumatori. Nel caso delle pubblicazioni scientifiche, ci sono almeno due fattori che cambiano le regole del gioco: il primo è che gli scienziati hanno bisogno di fare arrivare i propri risultati alla comunità scientifica come parte integrante del proprio lavoro, il secondo è che coloro che producono gli articoli sono gli stessi in grado di valutarne il valore e interessati a leggerlo.
Dagli anni Cinquanta a oggi il processo di pubblicazione degli articoli scientifici si è sviluppato in maniera molto simile al funzionamento del ristorante descritto sopra. Gli scienziati mandano gratuitamente il proprio lavoro alla rivista che considerano più idonea. Qui un editore coordina il processo di pubblicazione, tuttavia la parte più corposa, cioè quella di valutazione del valore scientifico, è svolta da altri scienziati, che offrono le proprie valutazioni su base volontaria, cioè a costo zero. In caso di esito positivo l’articolo viene pubblicato dalla rivista, che lo rende accessibile dietro pagamento di un abbonamento cartaceo o virtuale.
Riepilogando, scienziati, pagati per lo più con fondi pubblici, forniscono gratuitamente i loro articoli, che vengono valutati da altri scienziati, pagati per lo più con fondi pubblici, per essere pubblicati in una rivista privata, che li rivende alla stessa comunità scientifica dietro pagamento di un compenso. Se a questo aggiungete che tre case editrici detengono più di metà del mercato editoriale, potete rendervi conto che la situazione del ristorante è meno lontana di quanto probabilmente avevate immaginato.
Inoltre, i finanziamenti degli scienziati dipendono vitalmente dalle loro pubblicazioni, al punto da essere stata coniata l’espressione publish-or-perish, ovvero “pubblica-o-muori”. Non tutte le pubblicazioni però sono uguali, e alcune riviste sono considerate più prestigiose di altre. Per misurare il prestigio si usa un indice chiamato impact factor, cioè fattore d’impatto, che misura quante volte un articolo di quella rivista viene citato in altri articoli. Pubblicare in riviste con alto impact factor può fare la differenza per un ricercatore tra l’ottenere o no un nuovo contratto. Ci sono addirittura governi che utilizzano sistemi di bonus per motivare i propri scienziati a pubblicare su riviste ad alto fattore di impatto.
A questo punto, non dovrebbe sorprendere troppo scoprire che l’editoria scientifica è una delle industrie con più alto profitto, con margini di guadagno che nel 2010 erano superiori a quelli di Google e Amazon. Ma questo sistema aiuta la scienza?
Stiamo aiutando la scienza?
Dal punto di vista delle case editrici il sistema editoriale attuale aiuterebbe la scienza, garantendo che solo gli articoli più impattanti e scientificamente validi arrivino alla pubblicazione. I costi degli abbonamenti in continua crescita servirebbero a garantire il coordinamento del sistema di revisione e i servizi di pubblicazione. Ma la comunità scientifica da decenni evidenzia gli svantaggi generati.
Un primo evidente svantaggio lo pagano le istituzioni con risorse economiche limitate. Un abbonamento annuale istituzionale per una singola rivista può arrivare a costare migliaia di dollari e, tenendo conto che per una singola disciplina possono esistere più riviste importanti, per una biblioteca universitaria sbarcare il lunario diventa molto difficile. Un esempio emblematico è dato da Harvard che nel 2012 ha dichiarato di non potersi più permettere i costi imposti dalle case editrici. E se Harvard si trova in difficoltà, possiamo immaginare cosa accade nel resto del mondo…
Un secondo svantaggio riguarda i ritardi nella pubblicazione di alcuni studi. Per poter mantenere alto l’impact factor, le case editrici mirano a pubblicare solo gli articoli che presumibilmente verranno citati da molte altre ricerche. Ma prevedere l’impatto di una ricerca, è una questione incredibilmente complessa. Nel 2010 il Nobel per la Fisica fu vinto dal russo Konstantin Novoselic, per i suoi studi sul grafene. Uno degli articoli principali in cui riportava le sue scoperte era stato respinto due volte e pubblicato più di un anno dopo dal suo invio.
Come quello di Novoselic, moltissimi articoli validi possono incappare in ritardi significativi nella pubblicazione perché inizialmente non considerati di impatto dalle case editrici. Secondo Kamila Markram, co-fondatrice e CEO della casa editrice open access Frontiers, su due milioni di articoli pubblicati ogni anno, un milione vengono prima respinti, risultando in almeno sei mesi di ritardo nella pubblicazione per ogni articolo, per un totale cumulativo di 500.000 anni. Inoltre ogni anno gli scienziati passano in totale circa 100 milioni di ore a rimandare i propri articoli a una nuova casa editrice, per un totale di circa 10 miliardi in termini di compenso economico: tutte risorse che potrebbero essere utilizzate per la ricerca.
Oltre ai ritardi nella pubblicazione, alcune ricerche rischiano di essere soffocate sul nascere perché considerate meno impattanti e quindi più difficili da pubblicare. Ricerche mirate a replicare risultati già stabiliti per valutarne la robustezza vengono sempre più tralasciate, così come quelle che richiedono tempi lunghi. Fred Sanger, scopritore del sequenziamento del DNA, nei vent’anni intercorsi tra i due Premi Nobel che ha vinto, pubblicò pochissimi articoli. È probabile che oggi, con gli stessi ritmi, si sarebbe visto i finanziamenti tagliati.
Una ventata di aria fresca, dal web
In questo quadro piuttosto avvilente, all’inizio degli anni 2000 si è assistito a un cambio di passo, portato da una delle rivoluzioni più importanti del nostro secolo, Internet. La possibilità di accedere facilmente e gratuitamente alle risorse digitali ha reso ancora più evidente la contraddizione alla base dell’editoria scientifica. Per questo motivo, si è fatto avanti un vero e proprio movimento di “liberazione del web”, che sognava di vedere Internet trasformarsi in una biblioteca universale, aperta a tutti.
Open access, cioè accesso aperto, è il nome del sistema di pubblicazione che in questi anni è stato proposto come alternativo a quello tradizionale. In questo sistema gli autori pagano una quota per coprire le spese di pubblicazione e revisione, ma il proprio articolo viene poi reso accessibile per tutti gratuitamente. In questo modo l’accesso agli articoli non è subordinato al pagamento di un abbonamento, e, allo stesso tempo, le riviste non si devono più preoccupare di valutare l’impatto di un articolo, ma solo di accertarne la validità scientifica.
Un nome irreversibilmente legato al movimento open access è quello di Aaron Swartz, attivista americano, morto suicida nel 2013 a soli 26 anni. Al momento della sua morte Swartz era coinvolto in un processo federale, per aver scaricato da JSTOR, una biblioteca digitale, 4 milioni di articoli accademici, sfruttando l’abbonamento istituzionale della sua università, il Massachusetts Institute of Technology, con lo scopo di renderli pubblici. Per questo atto, sulla cui criminalità in seguito sono stati sollevati diversi dubbi, Swartz rischiava 35 anni di carcere e una multa di circa 1 milione di dollari.
Anche se l’epilogo della storia di Swartz è un epilogo tragico, i frutti del suo lavoro non sono rimasti incolti. Dal 2003, data della sua pubblicazione, più di 450 istituzioni scientifiche hanno sottoscritto la “Dichiarazione di Berlino sull’accesso aperto alla letteratura scientifica” impegnandosi a pubblicare i risultati delle proprie ricerche con accesso aperto.
A poco a poco, anche i governi nazionali hanno realizzato i vantaggi della pubblicazione open access in termini di spesa pubblica e hanno iniziato a mettere in campo piani per incentivarla. In Europa, Plan S, lanciato nel 2018 dall’Unione Europea, ha richiesto che dal 2021 tutte le ricerche finanziate con fondi pubblici fossero accessibili in modalità open access. In maniera simile, nel 2022 la Casa Bianca ha pubblicato un memorandum in cui annunciava che entro il 2025 tutte le ricerche finanziate da fondi pubblici dovranno essere pubblicate con accesso aperto.
Le case editrici hanno risposto adeguandosi. Se è vero che si è assistito alla nascita di molte riviste open access, alcune delle quali oggi sono tra le più prestigiose nei propri settori, molte altre hanno cercato di salvare i propri margini di guadagno praticando una modalità ibrida in cui una parte degli articoli è pubblicata con accesso aperto, mentre un’altra parte rimane accessibile solo dietro pagamento. A maggio 2023 l’intero comitato editoriale della prestigiosa Neuroimage si è dimesso, in seguito all’aumento dei prezzi dei costi di pubblicazione. Gli editori hanno poi fondato una nuova rivista open access con costi di pubblicazione più bassi.
Piccoli passi per una scienza aperta
Una scienza aperta è una scienza che facilita la collaborazione e il progresso di tutti, a prescindere dalle possibilità economiche del paese di provenienza. Una scienza bloccata dietro costi di fruizione è una scienza che non appartiene più a nessuno, né alle comunità che la finanziano, né agli scienziati che la creano. Per questo, l’accesso alla letteratura scientifica non è un problema che può rimanere nelle università e negli uffici dei ricercatori, ma è importante che tutti ne vengano a conoscenza. Anche in questo caso, la consapevolezza è il primo piccolo passo verso il cambiamento e spero che questo articolo abbia aiutato a compierlo.