Il mio osservatorio sociale di naturopata ante litteram, di erborista e insegnante di yoga, mi permette di elaborare un’indagine diretta su alcune abitudini alimentari di numerose persone, che sono in linea sulle statistiche ufficiali delle diffuse “dimenticanze” e l’inconsapevolezza di una sana nutrizione.
Di fronte alla domanda del consumo di vitamina C le risposte confermano che, in un’alimentazione cosiddetta “normale”, l’introito di frutta e verdure fresche è ridottissimo; nello specifico per la frutta e, per non pochi, anche all’ordine di un frutto o due a settimana, soprattutto nel periodo invernale.
I più, che pensano di colmare il proprio “senso di colpa vitaminico”, con il consumo della classica spremuta di agrumi, come frutti del mitico Giardino delle Esperidi, ignorano che gli agrumi hanno “forzature” nella coltivazione, conservazione nelle celle frigorifere, esposizioni prolungate alla luce che intaccano notevolmente la quantità di vitamina C.
Numerosi i fattori che incidono sul fabbisogno organico di questa vitamina: l’abbassamento delle temperature stagionali, lo stress, l’intensa attività sportiva, la crescita, l’età, gli ormoni anticoncezionali, il fumo da tabacco, l’inquinamento ambientale e alimentare, le patologie oncologiche, le infezioni, le intossicazioni, gli stati post-operatori, l’allattamento, le cattive conservazioni degli alimenti, la cottura ad alte temperature.
Aggiungiamo, inoltre, che è una vitamina che sfugge ai normali controlli di routine e che gli 80-100 mg della VRN (il valore nutritivo di riferimento) non riescono sicuramente a colmarne la reale esigenza, indicazione che richiederebbe una drastica rivalutazione.
L’acido l-ascorbico è la vitamina più impegnativa da colmare nell’alimentazione perchè non è accumulabile, richiede un apporto continuo quotidiano, è termolabile e sensibile alla luce. Questa sensibilità reattiva la rende, comunque, duttile, attiva e biodisponibile contro i processi ossidativi all’interno del nostro corpo.
Nel mondo vegetale è presente in numerosi vegetali, ma chi riesce a rispettare le famose cinque porzioni di frutta e verdura fresca al giorno altamente consigliate dalle linee guida di una sana alimentazione? Considerazioni che ci porterebbero a ipotizzare, se non uno “scorbuto” sub clinico, sicuramente una insufficienza vitaminica diffusa.
Importanti e numerose sono le funzioni benefiche della vitamina C, eccone solo alcune: funzionamento del sistema nervoso e immunitario (linfociti T, neutrofili e macrofagi sono supportati da buon livelli della vitamina), contro l’affaticamento (nelle nostre ghiandole surrenali ce ne dovrebbe essere sempre presente una scorta ottimale), azione antiossidante cellulare, favorisce l’assorbimento del ferro (specialmente di quello non eme, non legato alla emoglobina), stimola la conversione del colesterolo in acidi biliari e dell’aminoacido triptofano nel neurotrasmettitore serotonina, nonché nella formazione del collagene, sostanza fondamentale per il tessuto connettivo, protegge dai danni dell’inquinamento ambientale perché contrasta gli effetti cancerogeni delle N-nitrosammine.
Il termine ascorbico si riferisce alla proprietà di debellare lo scorbuto, patologia che decimò gli equipaggi delle navi impegnati nei lunghi viaggi tra il XV e il XVI secolo. L’avitaminosi fatale fu debellata imbarcando sui velieri quantità di frutti di limone e di cedro per integrare la dieta dei marinai. La conferma scientifica dell’acido ascorbico valse un Nobel per la medicina nel 1937 e quello della chimica per la sintesi in laboratorio nello stesso anno.
L’esigenza di un’integrazione dovrebbe rispettare la scelta di una vitamina C di fonti naturali e non di origine sintetica. Conosciamo sostanze vegetali ricche di acido ascorbico come la Rosa canina, l’Acerola, (Malpighia emarginata) il Camu-camu, (Myrciaria dubia), ma sono meno noti, e di conseguenza meno usati, i frutti dell’Olivello spinoso, del Ribes nero, dell’Amla (Emblica officinalis).
Spesso la valutazione vitaminica di queste sostanze è soppesata sulle percentuali di acido l-ascorbico, un orientamento quantitativo che ignora la complessità qualitativa del fitocomplesso. La scelta di una integrazione di vitamina C dovrebbe considerare anche la ricchezza di altre sostanze che creano una sinergia tra i componenti, di sostegno all’assorbimento e favoriscono altri numerosi benefici come l’anti ossidazione cellulare, il rafforzamento immunitario e antinfiammatorio.
Nei frutti del Ribes nero (Ribes nigrum) pianta considerata, non a torto, dal grande Linneo come la pianta della longevità, abbiamo sostanze come gli antocianosidi (pigmenti idrosolubili della famiglia dei flavonoidi) e presenza vitaminica anche nell’utile gemmoderivato.
I cinnorrodi (i falsi frutti) della rosa canina hanno, oltre a un contenuto di vitamina C maggiore degli agrumi, anche polifenoli, bioflavonoidi, antociani e carotenoidi.
I frutti della Emblica officinale offrono ben 600 mg di vitamina C per 100 gr di prodotto, all’incirca dai 6 alle 20 volte maggiore rispetto ai frutti dell’arancia, ma anche sostanze come la quercitina (potente antiossidante) e la ricchezza di una pianta officinale con numerose proprietà curative note da millenni nella tradizione ayurvedica; i frutti sono un componente importante dei composti fitoterapici ayurvedici come il Triphala e il Chyawamprash.
Sono da ricordare in natura la presenza dei bioflavonoidi, metaboliti secondari vegetali, potenti antiossidanti naturali che creando un’azione sinergica con la vitamina C, ne potenziano gli effetti e l’assorbimento; sono noti come radical-scavenger cioè “spazzini di radicali liberi”.
La ricchezza di micro e fito-nutrienti rende queste sostanze non solo dei “semplici” integratori, ma li portano nell’ambito della nutraceutica, termine sincratico da “nutrizione” e “farmaceutica” coniato nel 1989 dal dott. Stephen De Felice, cioè alimenti che hanno una funzione salutare, definiti anche alimenti funzionali, alicamenti, pharma food, farmalimento.
Una definizione più desueta e anticipatrice della nutraceutica è la fitoalimurgia: nel 1763 il medico Giovanni Targioni Torzetti scrisse il testo De alimenti urgentia, da cui la contrazione dei termini in alimurgia ovvero, secondo il nobile scopo del nostro autore: “Alimurgia, o sia, modo di rendere meno gravi le carestie proposto per sollievo dei poveri” (era appena terminata la carestia del 1764). Il testo codificò ufficialmente quella branca della fitoterapia, la fitoalimurgia (altra etimologia: phyton-pianta, alimos-che toglie la fame, ergon-lavoro, attività) che si occupa della conoscenza e dell’utilizzo delle piante alimurgiche, cioè delle piante selvatiche e spontanee commestibili.
La fitoalimurgia ci ricorda che la perdita di biodiversità è evidente della nostra ripetitiva alimentazione moderna, nonostante l’accesso (non per tutti) ad alimenti e frutti da ogni parte del mondo, abbiamo escluso dalle nostre tavole numerose specie vegetali commestibili.
Evidente è l’assenza, o consumi troppo occasionali, dei frutti selvatici del corniolo, delle more dei rovi e dei gelsi, del ciliegio selvatico, delle fragole di bosco, del prezioso mirtillo, dei lamponi, del prugnolo, delle mele selvatiche, del melograno, delle bacche di sambuco.
Dalle piante alimurgiche possiamo trarre fonti di vitamina C anche dal crescione e dalla portulaca (tra i 25 mg e oltre di acido ascorbico per 100 g) insieme ad altre edibili e comuni come il peperoncino e il cavolo toscano.
Non escludiamo l’uso degli l’oli essenziali che dagli agrumi vengono estratti per spremitura delle bucce: l’insostituibile limone, l’arancia amara e dolce, il mandarino, il bergamotto, il pompelmo. Sono ricchi di numerose sostanze utilizzate non solo nella classica aromaterapia, in farmaceutica, in cosmetica, in ambito alimentare industriale, ma anche nel consumo casalingo quotidiano.
Osserviamo la vitamina C da un’altra angolazione: mangiare è, in fondo, nutrirsi di luce e le vitamine ne sono l’espressione manifesta. Così la considerazione di E. Zolla:
Vivere è assorbire luce. Si guardino le verdure negli orti. Prima di verdeggiare erano celate, virtuali, nel seme. E cosa rendeva seme un duro e ruvido granello? Cosa rende il seme il seme. Il bisogno di luce, il quale, per poco che possa, esplode fuori da quella scorza. Il seme è bisogno di luce, la verdura è quel bisogno che si appaga. Mangiando le verdure, cuocendole e distillandole nello stomaco, l’animale ne estrae un’essenza che assimila a se stesso, sicché, al colmo dell’intera cottura e distillazione, esse diventano parte dell’animale che vede la luce, diventano visione di luce. La vita sulla terra è luce che ritorna luce.
L’acido l-ascorbico è la vitamina più luminosa che possiamo consumare, luce e colore… ecco quello che dovremmo soppesare, non solo i milligrammi.