…e sopra
il tavolo, nel mezzo
dell'estate,
il pomodoro,
astro della terra,
stella
ricorrente
e feconda…

(Pablo Neruda, Ode al pomodoro)

Il sole non è ancora salito completamente nel cielo. Una linea rossa s’avanza nel chiaroscuro dell’alba che piano, ci porta un nuovo giorno. È il saluto della terra alla notte che, silenziosa, ha cullato sogni e speranze del mondo che ci appartiene. Nella semioscurità le stelle lasciano il posto a piccole luci accese nei casolari che punteggiano il paesaggio campestre. L’andirivieni di mani operose prelude al rito estivo per eccellenza. Oggi si fa la salsa. Il pomodoro, rosso, profumato, maturo e dolce, diventa il protagonista indiscusso del mese di agosto, periodo durante il quale, molte famiglie si riuniscono ancora per celebrare quella che è una vera tradizione soprattutto nel Sud Italia. Le bottiglie aperte durante l’inverno per condire pasta, timballi e spezzatini, riporteranno la memoria alle giornate estive, a quei sapori e a quegli odori.

Tutti partecipano sotto la guida delle persone più esperte della famiglia. Tutto è cadenzato da gesti e tempi che si tramandano di generazione in generazione. Anche l’attrezzatura per trasformare il pomodoro in salsa è la stessa di sempre. Certo alla legna per il fuoco si sono sostituiti i bruciatori a gas e ai tappi di sughero da legare sulle bottiglie quelli decisamente più moderni e comodi di metallo ma nulla, nella ritualità, si è modificato.

Ci si sveglia molto presto ancora oggi ma io voglio fare un tuffo nel passato. Quando erano vivi i miei nonni l’appuntamento era fissato per le quattro e mezza del mattino. La zia, con la lunga parannanza, curvata sulle sue gambe preparava i secchi per lavare i pomodori mentre nonna e nonno iniziavano a portare i frutti più maturi raccolti nei giorni precedenti nei campi vicino a casa di cui avevano seguito ogni minimo passaggio, dalla semina alla maturazione. Io ero una bambina ma ricordo perfettamente l’attesa per quelle giornate che sembravano non finire mai, durante le quali anche ai più piccoli veniva assegnato un ruolo. Gli adulti ci mettevano in mano i coltelli che erano vietatissimi anche per tagliare la carne a tavola ma diventavano strumenti leciti per quell’occasione. Ci dicevano di stare seduti vicino ai secchi e di cercare i pomodori meno maturi e quelli che avevano dei difetti. Ci facevano tuffare le mani nell’acqua gelida e noi, felici, nonostante l’ora, iniziavamo a girare i pomodori per lavarli per bene. Poi, con i coltelli, via piccioli e imperfezioni. L’aria iniziava a profumare di salsa molto prima che venisse preparata.

Intorno ai grandi secchi gli adulti parlavano, in dialetto, della qualità dei pomodori. Solitamente ogni anno era migliore del precedente. Come sarebbe stata la salsa, però, restava un mistero fino al momento di assaggiarla. Poi si passava a parlare di chi non c’era più, del vicino, del vicino del vicino, di quel parente lontano di cui non si avevano notizie da un po’ di tempo… insomma la salsa si condiva di pettegolezzi, ricordi e risate. La cantilena del dialetto era musica per le nostre orecchie curiose. Restavamo vigili, intenti a non deludere le direttive degli adulti, i momenti di pausa diventavano occasione per giocare a nascondino, a farci scherzi con l’acqua o a rincorrerci sfiorando pericolosamente il calderone in cui venivano scottati i pomodori per privarli della pelle. Ma niente, niente al mondo ci rendeva più felici di quel momento in cui la zia annunciava che finalmente era ora di fare colazione.

E che colazione. L’avevano preparata i nonni con cura, era cibo semplice ma ineguagliabile. Non potevano mancare pane e pomodoro e le frittate con i peperoni e le cipolle. Non esisteva colazione più buona di quella. Nessuna merendina al mondo poteva sostituire quel sapore destinato a restare con noi per sempre. Il gusto fissava i ricordi mentre il sole adesso splendeva illuminando la calda giornata estiva. Sull’aia e nella cantina continuava il rituale.

I pomodori venivano passati, il rosso succo raccolto e imbottigliato. Il nonno tappava le bottiglie. Era il suo lavoro. Controllava il vetro, che non fosse scheggiato o rovinato. Un grande telo bianco veniva sistemato nell’acqua pulita che riempiva il calderone. Le bottiglie venivano adagiate lì sopra e avvolte nei canovacci per non farle rompere durante la bollitura. Il fuoco acceso sotto la grande pentola iniziava a riscaldare l’acqua. Restavamo tutti in attesa della prima bollitura. Tra quaranta minuti tutto il lavoro sarebbe arrivato a conclusione. Poi, il giorno dopo, le bottiglie sarebbero state sistemate nelle dispense.

Per noi bambini si avvicinava l’ora del riposo. Non eravamo più pimpanti ma esausti. Gli sbadigli iniziavano ad accompagnare i nostri giochi. Uno alla volta venivamo portati nel letto grande dei nonni. Chiudevamo gli occhi e via nel mondo dei sogni in attesa di assaggiare il frutto di quello che noi consideravamo a tutti gli effetti il nostro lavoro.

Mentre la cantina veniva ripulita, sui fornelli si cucinava il sugo per la pasta. Olio abbondante, trito di cipolla, aglio e sedano. Si soffriggeva rapidamente. Si versava la salsa che non era stata imbottigliata. Un pizzico di sale, fiamma bassa. Il sugo lentamente iniziava a bollire. L’odore irresistibile e inebriante invadeva le stanze del casolare. Non restava che cuocere la pasta, rigorosamente lunga. Voci di donna ci svegliavano e noi, affamati, prendevamo posto a tavola. Il rituale volgeva al termine. Seduti attorno al desco facevamo posto alla grande pentola da sistemare al centro. Gli spaghetti, rossi e saporiti, con il basilico e il formaggio grattugiato, erano la miglior ricompensa per quella giornata iniziata molte ore prima, alle luci dell’alba, e che sarebbe rimasta con me per il resto della vita a ricordarmi che, una volta, forse non molto tempo fa, la vita era scandita da tempi e rituali lenti che non prevedevano l’affanno di oggi e che erano capaci di riunirci intorno ad un tavolo per condividere off-line felicità e stanchezza.