Sul colle di Monterotondo in quella zona che nel 1600 era la riserva granducale di Montenero nella località denominata al tempo Scapurno si apprezzano i fantasmi di due ville che sono state con altre della zona, simbolo di ricchezze e potenza di alcune famiglie che hanno fatto la storia di Livorno.
Due proprietà attigue di due famiglie di origine greca, scappate nella città cosmopolita per eccellenza, figlia della magnificenza granducale, i Rodocanacchi ed i Maurogordato, fuggiti dall'isola di Scio nel mar Egeo. A Scio o forse Chios, dal greco Xiois, questa isola, a nove miglia marine da Smirne e dalla costa turca, si compì uno dei maggiori massacri della Guerra d’Indipendenza greca. Il massacro degli abitanti di Chios sconvolse la vita di quest’isola, che secondo quanto riferito dal giornalista inglese Christopher Long, discendente della famiglia Rodocanacchi, era all’epoca l’isola più importante del Mediterraneo, con una popolazione di 118 mila abitanti distribuita in una superficie di dimensioni circa 4 volte l’isola d’Elba. Vennero salvati dal massacro solo gli abitanti della regione meridionale dell’isola. I Turchi per rappresaglia contro i Greci trucidarono circa ventimila persone e deportarono i superstiti come schiavi.
Così, nel 1822 fuggirono lasciando in patria le loro fortune i Maurogordato, che commercializzavano la mastica, una morbida resina prodotta dal lentisco, utilizzata non solo come “gomma da masticare” ma anche per aromatizzare i liquori e il vino, oltre ad essere una componente della vernice dorata delle cornici, mentre la famiglia dei Rodocanacchi commercianti in granaglie, era giunta a Livorno già un secolo prima.
Due rami dei Maurogordato realizzeranno due destini differenti, uno costruirà un grandissimo palazzo sul fosso reale, con una ascesa sociale ed economica tanto alta quanto precipitosamente poi consumata; gli altri oculatamente conservatori del proprio patrimonio acquisteranno la villa di campagna sul colle di Monterotondo che confinerà con la villa dei Rodocanacchi, i quali acconsentirono volentieri ad averli come vicini, dato che le due casate si erano già imparentate per tre volte nella loro linea genealogica livornese.
La villa Rodocanacchi sebbene di impianto seicentesco, fu da loro ampliata e trasformata appositamente per denotare il loro status sociale, facendosi realizzare dalla famosissima fonderia del Gambaro di Livorno la veranda in ghisa e vetro a chiusura della terrazza principale, solo dopo che i Maurogordato avevano fatto costruire dagli stessi Gambaro il meraviglioso giardino d'inverno in ghisa e vetri colorati sullo stile delle serre della villa Demidoff a Novoli, anche queste opera della fonderia livornese. Ed è qua, in questa villa, che racchiuse le storie di tante famiglie, che trascorrevo spesso i pomeriggi primaverili con mia mamma e la sua amica, nonché madre dei miei fraterni amici Valeria e Francesco.
La villa era in origine un fabbricato di proprietà della mensa arcivescovile di Pisa che dava a livello, fu acquistata nel 1771 dal figlio di Giovanni Calamai, primo console generale in Toscana di sua maestà Caterina imperatrice di tutte le Russie, Giuseppe Calamai, anch'egli console.
Nel 1821 il Conte Giovanni Giraud di origini romane ma residente a Firenze, acquista la proprietà che dovette in seguito vendere poiché accusato di truffa, al principe serbo Stanislao Poniatowsky. Alla morte del principe nel 1833 ereditano i figli che pochi anni dopo cedono villa e terreni a Michele Maurogordato che tra il 1855 ed il 1857 amplia ed abbellisce la villa. Alla sua morte eredita prima la moglie Semiramide, poi i nipoti di lei ed infine per decreto prefettizio del 1938 viene occupata dai militari per poi essere fatta oggetto di sequestro dall’apposito Ente Gestione e Liquidazione come “bene nemico” il 2 giugno 1941 dopo la dichiarazione di guerra del 1940, in quanto i Maurogordato erano greci.
La villa viene acquisita dal Consorzio Provinciale Antitubercolare nel 1949 e nel 1976 il Consorzio cedette tutto alla Provincia di Livorno. La villa oggi si presenta come un rudere non certo distrutto dalla guerra ma dalla incuria e dalla depredazione. Ma proprio per il fascino che conserva e per l'atmosfera di una silenziosa nobiltà, era per noi, negli anni '70 meta di pomeriggi campestri alla ricerca di tesori nascosti. Erano gli anni del Manuale delle Giovani Marmotte che ovviamente portavo sempre con me ad ogni uscita, non si sa mai, poteva servire una capanna indiana o un telefono senza fili, perciò come il breviario per Don Abbondio, così era il manuale per me.
Avevo disegnato e colorato gli stemmi dei gradi delle marmotte e con le spille da balia ed un pezzetto di scotch ce li agganciavamo al maglioncino. Le nostre mamme si sedevano sulle panchine di pietra che bordavano la serra dei Gambaro, una costruzione quadrangolare con la base di pietra serena e l'alzato in pilastri di ghisa lavorati che sorreggevano per ogni luce tre finestre basculanti una sopra l'altra, formate da tanti quadratini di vetri colorati di rosso, blu, giallo e bianco opalino, adatte per regolare il flusso d'aria ai tempi in cui il giardino d'inverno proteggeva le specie botaniche collezionate da Semiramide ed al tempo in cui noi andavamo là, erano sparsi a terra in frammenti di varie misure, solo pochi erano ancora alloggiati nelle loro sedi.
Le mamme parlavano tra loro, lavoravano all'uncinetto e ci allestivano su quelle panchine irruvidite dai licheni colonizzatori primi della materia inorganica, la merenda portata da casa. Noi, felici, sembravamo esploratori unici di un territorio pieno di segreti. Per poter gioire della scoperta del tesoro, i tesori ce li facevamo da soli, sparsi per il parco e segnati su un foglio come una mappa del tesoro trovata per caso, e nel Manuale delle Giovani Marmotte c'era scritto in dettaglio come fare i tesori.
La prima cosa era scavare una piccola buca, foderarla con le carte stagnole delle cioccolate, mettere sul fondo pezzettini di vetri colorati e tutto quello che si poteva trovare perso sul terreno di interessante, poi si doveva coprire con un fondo di bottiglia se se ne trovavano o con un pezzo di vetro più grande, infine si copriva con la terra e col dito si puliva al centro girando in tondo in modo da scoprire alla vista il contenuto del tesoro trovato.
Quanti tesori si sotterravano ed il divertimento non finiva lì, perchè quando tornavamo la volta successiva, andavamo alla ricerca di quei tesori, ed eravamo bravi se eravamo capaci di trovarli ancora. La “villa dei tesori” è stata per noi bambini un luogo dove la fantasia si alimentava dalle storie raccontate dalle mamme, per il mistero di quell'abbandono, per la magia dei riflessi del sole in quel caleidoscopio di vetrini colorati, per Semiramide che curava le sue piante là dentro oltre un secolo prima, per l'immaginato passato di ciò che poteva contenere la grande vasca ovale di fronte all'ingresso, per chi un tempo passeggiava sotto il tunnel di rose che portava al belvedere.
Le ville abbandonate di Monterotondo conservano la storia di una società cosmopolita che ha disegnato l'urbanizzazione della città murata e delle aree suburbane di Livorno, sono state dimora di stranieri che avevano eletto la città a centro nevralgico dei loro commerci e della politica che hanno determinato. Sono state lo scenario delle Smanie della villeggiatura di Carlo Goldoni e dimora di letterati come Byron e Shelley. Sono impregnate di culture diverse, lasciando tracce indelebili nella definizione di unicità della città di Livorno.
L'abbandono nel quale versano è purtroppo il sintomo visibile della incapacità di conservare la dignità di queste pietre miliari nella linea del tempo della città. La storia che conserva un luogo, tuttavia, non si esaurisce con la decadenza e l'abbandono ma rimane come spirito del posto, percepibile da chi conserva il senso della meraviglia e dello stupore proprio come quando eravamo bambini.