Ho gli occhi socchiusi perché il vento in faccia è troppo forte, vedo tutto appannato e rischio di andare a sbattere contro qualcosa. Rallento fino a che il vento si riduce ad una brezza piacevole. Ho capito che se muovo le mani in un certo modo, posso deviare la mia rotta con facilità, proprio come fossero i flap di un aereo. Plano su un prato fino a sentirne il profumo, riprendo quota e poi DRIIIINN!!! suona la sveglia.
Faccio spesso questo sogno, volo con estrema naturalezza. A volte levito semplicemente stando a 20/30 centimetri da terra e mi muovo come su di un cuscino d’aria. Altre volte, come questa notte, volo nel vero senso della parola.
Comunque la realtà è molto diversa: la sveglia suona con inesorabile precisione tutti i giorni alle 6:30. Mezz’ora per lavarmi, vestirmi, bere un caffè e poi di corsa alla stazione per il treno delle 7:15. Stipati come sardine tutte le mattine i pendolari si accalcano in vagoni che dovrebbero trasportarli al lavoro o a scuola. Dico dovrebbero perché ormai si scommette non tanto sull’orario d’arrivo, quanto sul fatto che il treno arrivi a destinazione o meno. Son più le volte che si ferma per problemi alla linea o alla motrice che quelle in cui arriva a destinazione.
Se tutto procede senza intoppi arriviamo alle 8. Altra mezz’ora di mezzi pubblici e sono al lavoro. Alle 13, un’ora di pausa pranzo e alle 14 di nuovo dietro al computer, con le spalle che mi fanno male e la pancia che aumenta per l’inattività fisica. Alle 18, se non ci sono intoppi sul lavoro - e ci sono quasi sempre - corro verso la metro per non perdere il treno delle 19 che mi riporterà a casa dove dovrei arrivare entro le 20. Durante la cena mia moglie, che è arrivata a casa un’ora prima di me, mi mette al corrente delle magagne combinate dai nostri due figli, i problemi con lo studio, la retta della piscina da pagare, i suoi che non stanno bene e andrebbero portati dallo specialista (ma chi lo fa? Non posso più prendere giornate al lavoro), bisognerebbe rispondere alla lettera dell’amministratore, …ma io non ci sono. O meglio, per i primi 5/10 minuti seguo quello che mi dice, poi mi allontano, la mia mente si chiude automaticamente e io sento e forse rispondo anche, ma in realtà sono molto, molto lontano. Come un automa passo dal tavolo al divano, dove pochi minuti dopo mi addormento come tutte le sere. Mi trascino verso il letto fino a quando l’inesorabile suono della sveglia interromperà il mio sogno. Così tutte le notti e tutti i giorni da 30 anni.
Non riesco neanche più a seguire quanto accade nel mondo, non ne ho il tempo e le poche volte che riesco a trovarlo, le notizie che leggo o vedo mi danno fastidio: mi sento preso in giro, mi sembra che chi ha la responsabilità di decidere per gli altri non si interessi veramente di me, di come vivo, della fatica che faccio semplicemente per restare a galla. Ho amici liberi professionisti che, fino a qualche anno fa, non si lamentavano, lavoravano molto, ma guadagnavano anche bene. Ora lavorano più di prima e guadagnano giusto quanto basta per tirare avanti. Quando lo Stato ti chiede più del 50% dei tuoi guadagni, forse bisognerebbe parlare di tangenti, non di tasse.
Mi piacerebbe fare qualcosa per cambiare le cose, avere un’attività “socialmente utile”, partecipare a qualche associazione, sentire che sto facendo qualcosa anche per gli altri, ma non ho il tempo materiale per farlo, sono stanco, sfiduciato. Quand’ero giovane pensavo che le cose si potessero cambiare e forse, 30 o 40 anni fa, era anche possibile o così sembrava, ma ora … non ho più fiducia, sembra tutto inutile.
Beh, questa sì che è vita!
Alan Watts diceva che siamo tubi che da una estremità introducono il cibo che esce dall’altra estremità e che, quando possono, si riproducono per portare avanti questa parvenza di vita. Stephen Hawking si chiedeva perché l’universo si dia tanta pena d’esistere. Ci sono esseri viventi che appena nascono cominciano a cercare la compagna per riprodursi e appena raggiungono il loro scopo muoiono. Tutto qui? Ma noi esseri umani pensiamo di essere se non migliori, diversi dal resto degli esseri viventi. Noi dovremmo incarnare molto più che il semplice “consuma, produci e crepa”. Eppure oggi non abbiamo il tempo di fare altro e più andiamo avanti più sembra che il futuro ci riservi solo la mera sopravvivenza, se saremo fortunati.
Nessuno sa cosa voglia dire vivere, nessuno sa se c’è un senso in tutto questo o no, nessuno e ripeto nessuno, può dirvi come vivere. Scienziati, filosofi, maestri spirituali sono esseri umani come tutti gli altri. Hanno avuto dei pensieri più o meno originali e hanno fatto di questo il loro modo di vivere o di sopravvivere, a seconda di come li si guarda. Ma quello che loro hanno pensato, ammesso che abbia qualche significato per loro, non necessariamente lo deve avere anche per altri. Almeno, non per quegli altri che, come loro, hanno deciso di vivere la loro vita. Quello che tu pensi, il modo di passare il tuo tempo su questo pianeta, è tuo ed è altrettanto valido di quello che ti suggerisce la Bibbia o il Corano o le Upanishad o Marx o Malthus o Moira Orfei.
Per pensare e soprattutto vivere una vita che non sia di seconda mano è necessaria una forte convinzione oppure non avere alternative. Un musicista non si pone la scelta tra suonare o non suonare. Un vero musicista non può fare a meno di suonare. Un canguro non si pone il dilemma se saltare o meno. Salta perché non può farne a meno. Chi si deve convincere di cambiare vita sente lo sforzo di andare contro corrente, sente di essere un disadattato in questa stupida e antiquata società e a volte soffre di questa continua lotta e gli capita di avere dei cedimenti, dei dubbi su quanto sta facendo a se stesso e a chi gli sta vicino. Queste persone, di cui apprezzo tantissimo la costanza e la perseveranza, sono nella stessa condizione di Arjuna quando sul campo di battaglia è lacerato tra il seguire ciò che sente giusto dentro di sé e quello che le convenzioni gli impongono. Lottare contro la propria famiglia è disdicevole, non si fa, nemmeno se “sai” che sarebbe giusto farlo. Allora ha bisogno che qualcun altro gli faccia cadere il velo del conformismo, ha bisogno che Krishna, lo spirito divino che è in lui, come in tutti noi, si riveli con forza e gli mostri la realtà delle cose e cioè che l’unica vita che vale la pena di essere vissuta è quella condotta con onestà. L’onestà di essere ciò che sei, non ciò che vogliono gli altri, nemmeno se sono i tuoi famigliari e amici più stretti.
Ma per altri non è così, le loro scelte non sono frutto di considerazioni ponderate, di dubbi laceranti, di decisioni forti. Per loro tutto è naturale, tutto avviene in modo spontaneo e naturale. Semplicemente non riescono a concepire la loro vita vissuta in altro modo che quello di seguire il loro “sentire”. Molto spesso associamo il “non aver scelta” ad una condizione negativa, limitante la nostra libertà. In questo caso non è così. Se da giorni non mangio l’aver fame non è una mia scelta. Ho fame. Se mio padre sta male lo curo, gli sto vicino, faccio il possibile per farlo star bene. Non lo faccio dopo un ragionamento ponderato, lo faccio e basta, perché è quello che mi sento di fare. Non c’è scelta. Vivere la mia vita non è una scelta, è inevitabile.
Diversi studi, tra cui il più famoso è forse quello dell’australiana Bronnie Ware1, riportano i desideri e i rimpianti di quanti sono in procinto di lasciare questo corpo i quali - nonostante abbiano passato la loro esistenza adattandosi ai voleri e ai valori di questa società, seguendo il modo di vivere convenzionale - non rimpiangono di non aver fatto carriera o non aver guadagnato di più. Quando si rendono conto che è finita, che non ci sarà un’estensione del loro visto su questa terra, quando sono con le spalle al muro solo allora capiscono che la felicità è una scelta! Dice la Ware: “La paura del cambiamento li ha indotti ad auto-convincersi che erano soddisfatti della propria vita… ma in realtà per tutta la loro esistenza sono rimasti impantanati in vecchi schemi e abitudini…”. L’abitudine; è stupefacente quanto l’essere umano sia in grado di adattarsi, di abituarsi anche a condizioni eccessive. L’abitudine, la consuetudine, se da un lato ci permettono di sopravvivere anche in condizioni disumane, ottenebrano le nostre percezioni e capacità. Prendete a calci le abitudini, non permettete che vi precludano una vita fresca, vera e immediata.
Tra chi sta lasciando questo mondo il rimpianto maggiormente diffuso è non aver avuto il coraggio di vivere una vita che rispecchiasse il loro “sentire” e la cosa più inquietante è che non l’hanno vissuta per assecondare il volere di altri. So come vorrei vivere, so cosa mi piacerebbe fare, lo sento dentro di me come credo sarebbe giusto condurre la mia esistenza, l’unica – a quanto pare – che mi è concessa vivere. Ma non lo faccio, mi castro, mi auto-limito perché so che se io vivessi così ti dispiacerebbe, a te non piacerebbe. Forse un po' di sano egoismo ogni tanto non guasterebbe. Ma forse non è nemmeno così. Probabilmente, se analizzassimo meglio questo comportamento, scopriremmo che le motivazioni che ci spingono a seguire il volere degli altri più che il nostro sentire, sono molto più egoistiche di quelle che ci porterebbero a vivere una vita unica. Quanto è più semplice seguire la massa, la consuetudine, piuttosto che aprirti una via tutta tua, penetrando nel folto dell’ignoto? Assecondare i voleri di una minoranza, di sette, di religioni, di santoni più o meno strambi, qualunque cosa, basta che sia una via segnata, un percorso già battuto. Insomma, una vita di seconda mano.
Vivere una vita in linea con quanto si sente dentro di noi, con quello che sappiamo essere giusto per noi. Forse potrebbe essere la ricetta per poter vivere felici e sereni e magari anche in uno stato di salute fisica discreto, se non buono. Di certo non una vita senza problemi, senza alti e bassi, che ci sarebbero comunque, ma avremmo la capacità di affrontare le difficoltà con una serenità diversa, con un’attitudine più propositiva di quanto non facciamo quando seguiamo solo ciò che ci conviene o che ci fa sentire “accettati” dal resto della società. Al grido di “più siamo e più abbiamo ragione” la società moderna si impantana in una strada avvilente, dove l’essere conta molto meno delle proprie scelte.
E trascinandosi sulla superficie del pianeta, alcuni insetti chiamati “razza umana”, persi nel tempo, persi nello spazio e nel significato. 2
1Bronnie Ware, Vorrei averlo fatto, My life Edizioni, 2012.
2Richard O’Brien, The Rocky Horror Picture Show, 1975.