Per me sono dei pasticciotti ripieni di marmellata di pesche e di una unica amarena sciroppata, la ricotta zuccherata preparata per il ripieno dei cannoli e i “piruni”, sfoglie ripiene di spinaci e fichi secchi. Il cibo della memoria della mia infanzia, in un paese siciliano su una collina, tra distese di carciofi e grano, intervallate dal luccichio della plastica delle serre, in fondo l’azzurro del mare sotto un cielo troppo spesso sereno per le necessità dei terreni che si spaccano in grosse zolle impenetrabili. Il concetto di comfort food compare per la prima volta nel 1966 in un articolo sul Palm Beach Post: “Gli adulti, quando si trovano in stato di grave stress emozionale, si rifugiano in quello che potrebbe essere chiamato ‘comfort food’ – cibo associato con l’infanzia, come le uova in camicia o il famoso brodo di pollo”. Ma è nel 1997 che il comfort food riceve un riconoscimento ufficiale con l’ingresso nell’Oxford English Dictionary che fa risalire l’etimologia del termine a un articolo del Washington Post Magazine di vent’anni prima.
Ma che cos’è il comfort food? Il dizionario Merriam Webster lo definisce “cibo preparato in stile tradizionale con solitamente un’attrattiva nostalgica o sentimentale”, un cibo che dà conforto, che ci fa stare bene, soddisfacendo un bisogno emotivo di chi lo consuma. È un piatto dove sono serviti i ricordi, di solito il cibo dell’infanzia o legato a una persona, a un posto o a un tempo felice. Quindi il comfort food è legato all’individuo perchè ciascuno ha la propria storia, il proprio vissuto, composto e costruito con mattoncini in parte legati alla cultura e in parte dipendenti dalla realtà individuale che entrambe costruiscono la nostra memoria. Ci sono numerosi studi che innanzi tutto individuano diversi cibi definibili come comfort food a seconda del Paese: in Canada la poutine, patate fritte ricoperte di formaggio e talvolta anche carne e verdure; in Spagna la tortilla con patate e cipolle saltata e infornata con uovo; in Francia le crêpes; in Giappone l’oden, una zuppa con uova, pesce, verdure; in Polonia il pierogi, una sorta di ravioli fritti ripieni di cipolle, patate, carne tritata, formaggio stagionato e talvolta anche frutta; negli USA la pizza e il gelato; in Italia l’uovo sbattuto, pane, burro e marmellata, lasagne e torta della nonna.
Secondo gli studiosi Wansink, Cheney e Chan, i comfort food sono anche legati al genere e all’età: gli uomini lo identificano in piatti caldi e sostanziosi, come zuppe, spezzatino di carne o bistecche, mentre le donne preferiscono dei cibi che richiedono poca o nessuna preparazione come il cioccolato e il gelato.
Per quanto riguarda l’età, i più giovani preferiscono degli snack, merende o spuntini, mentre quelli oltre i 55 anni preferiscono preparati più elaborati. Secondo la psicologa Shira Gabriel, il comfort food è legato al condizionamento classico: “Se da bambino ti viene preparato un certo tipo di cibo, quel cibo diventa collegato alla sensazione di cura e attenzione. Quando si cresce, quel cibo da solo innesca il senso di appartenenza” ma, sempre secondo la Gabriel, il cibo potrebbe essere sostituito da qualunque altra cosa come un film preferito o un libro o una musica.
Altri studiosi hanno esplorato la possibilità di una componente biochimica comune al comfort food individuando nell’elevato contenuto di carboidrati e/o grassi che aumenterebbero il livello di sintesi della serotonina, il neurotrasmettitore coinvolto nella modulazione dell’umore, dell’appetito e del sonno. L’ingestione di zuccheri può stimolare anche il rilascio di endorfine, neurotrasmettitori che sarebbero in grado di interagire coi recettori oppioidi presenti nel cervello, inducendo quindi benessere, buonumore e alleviamento del dolore, il quale ultimo può essere ridotto apparentemente anche da cibi ricchi di grassi grazie al rilascio della colecistochinina. Apparentemente la presenza stessa di lipidi in un alimento ne eleva l’appetibilità quindi facilitando l’effetto consolatorio e di comfort.
Come sottolinea Wright, il cibo è emotività perchè le aree del cervello dove archiviamo le informazioni su gusto e sapore sono le stesse dove immagazziniamo le emozioni, le reazioni a quello che ci succede, i nostri ricordi. Parlando di ricordi e potere evocativo del cibo, immediatamente vengono in mente le madeleine di Proust e uno dei brani più famosi della letteratura:
Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? Dove fermarla? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. È stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione (e proprio ora), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità… retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più… ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi… All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…
(Marcel Proust, Dalla parte di Swann)
Qui si tratta di un percorso inverso a quello del comfort food. Mentre quando si consuma comfort food è l’individuo che svolge un ruolo attivo ricorrendovi per trovare benessere ed evocare ricordi e sensazioni piacevoli, qui l’ordine è invertito: il ricordo non è ricercato dal personaggio ma è l’alimento che, senza un intervento volontario, scatena emozioni che danno il la al protagonista per seguire il filo della memoria verso ricordi antichi.
Quindi una memoria involontaria, derivata da un evento casuale, scatena memorie volontarie. In entrambi i casi, sia che il soggetto si ponga in maniera attiva o passiva, il cibo, col suo potere emozionale ed evocativo, va oltre la funzione di nutrimento fisico e diventa nutrimento dell’anima grazie al quale scompaiono i limiti dello spazio e del tempo. Molto diversa è la ricerca di sollievo emotivo nel cibo in sé. In questo caso, il cibo non è chiave di volta del risveglio di una memoria, di un luogo o di una persona ma diventa fine a sé stesso per riempire un vuoto emozionale o per seppellire uno stress o un dispiacere.
Questo diverso uso emozionale del cibo, che ricorre più nelle donne che negli uomini, può risultare molto pericoloso perchè non risolve il problema che lo scatena e può invece aggiungere ulteriori difficoltà a causa di aumenti di peso o di squilibri fisici.
Onde evitare questi problemi, lo psicologo Glenn Livingston suggerisce di tagliare il collegamento tra emozioni e cibo, cercando invece di affrontare i problemi con altri strumenti. Le attività commerciali, leste a cogliere la concretizzazione di una nuova esigenza, sono saltate sul treno del comfort food per cui, almeno negli Stati Uniti, nel menu di molti ristoranti, per esempio, c’è uno spazio dedicato alle preparazioni tradizionali del comfort food. La presenza di “Mac ‘n Cheese” (pasta con formaggio fuso), piatto tipico dell’infanzia americana, nei menu dei ristoranti è aumentata del 33% nel corso degli ultimi 5 anni (secondo i dati del Wisconsin Milk Marketing Board), i toast al formaggio sono diventati un’offerta fissa nei ristoranti casual tanto da esserne diventati parte del nome come, per esempio, Roxy’s Grilled Cheese, The Grilled Cheese Truck e Cheeseboy.
Anche nel campo dell’editoria il comfort food è diventato argomento molto diffuso sia nell’ambito della psicologia che in quello della gastronomia. Emily Nunn ha pubblicato The Comfort Food Diaries: My Quest for the Perfect Dish to Mend a Broken Heart, con le ricette per curare un cuore infranto; Comfort Food di Kitty Thomas è un romanzo dark; Modern Comfort Food: A Barefoot Contessa Cookbook, il libro di cucina di una contessa scalza, bestseller al primo posto della classifica dei libri del New York Times, solo per citarne alcuni.
A coronare l’ufficializzazione del concetto di comfort food è stato istituito il giorno dedicato ad esso, il 5 dicembre, casualmente lo stesso giorno del compleanno di Walt Disney e in cui venne abolito il proibizionismo, non male come evocazioni di infanzia e libertà.