La letteratura nordamericana dell’Ottocento ha un sapore tutto particolare: odora di natura. Quella che nel XX secolo sarebbe diventata la civiltà ultratecnologica dei grattacieli e dei computer era ancora la civiltà delle grandi distese sconfinate, dei pionieri che sfidavano le intemperie che le forze cieche della natura ponevano come barriera. E una conseguenza notevolissima di questa “letteratura della natura” è l’animale protagonista, o comunque perno della narrazione. Una novità assoluta, perché non si tratta di un animale antropomorfizzato, come quelli di Esopo o anche quelli de Il libro della giungla dell’inglese Kipling o della Fattoria degli animali dell’altro britannico Orwell: nei casi qui citati gli animali, opportunamente umanizzati, ripropongono vizi e virtù prettamente umane. La cultura americana riprenderà questo genere “favolistico” solo con i topi e i paperi di Walt Disney.
La letteratura americana del XIX secolo invece pone al centro l’animale senza cedimenti all’umanizzazione, figlio della natura e della sua terribilità: si pensi, ad esempio, al più grande romanzo statunitense di sempre Moby-Dick or The Whale di Melville nel quale il gigantesco capodoglio bianco che dà il titolo resta una creatura animale, ma diventa anche il simbolo stesso di una natura ostile in quanto cieca, istintuale.
L’altro grande autore americano che, ancor più di Melville, ha portato gli animali ad essere protagonisti assoluti dei suoi racconti è Jack London, con i suoi capolavori The Call of the Wild (Il richiamo della foresta) e White Fang (Zanna Bianca) nel quale i protagonisti sono cani-lupo.
Questi due libri, in particolare il primo, sono riflessioni sulla libertà: “libertà” e “amore” sono le due parole più retoricamente abusate del vocabolario: la cultura americana ha spesso usato la parola “libertà” anche per scopi poco nobili. Una parola che, nonostante questi abusi, ha un sapore positivo.
Gli animali di London, in particolare il Buck del Richiamo della foresta, ci insegnano che la libertà è qualcosa di duro, di difficile: qualcosa che richiede un addestramento.
“Buck non leggeva i giornali” l’incipit stesso del libro di London mette in chiaro che l’animale non è umanizzato: è un cane. Un cane che vive in una casa lussuosa. Un cane da compagnia, che viene però venduto a tradimento dal giardiniere a un trafficante per servire alla corsa all’oro nel Klondike. Il placido cane di compagnia conoscerà quindi “la legge della zanna e del bastone”, ben diversa, e più dura, dell’umanizzata “legge della giungla” di Kipling. Ma sentirà anche quel “richiamo” che dà il nome al racconto. Il richiamo “del mondo selvaggio” come sarebbe più opportuno tradurre il titolo. E diventa un leggendario maschio alfa: per essere davvero libero non devi avere nessuno sotto di te.
Perché la libertà è qualcosa di selvaggio. È lotta. Questo tema è centrale anche nell’opera di un altro scrittore americano, Robert E. Howard: il suo Conan è “barbaro” non solo perché “selvaggio” ma anche perché “libero” dalle catene di una civiltà che ti incatena rammollendoti.
Buck, il cane da compagnia, diventa un un lupo: nemmeno l’amore per il suo ultimo padrone John Thornton lo frena: vuole la lbertà. Una libertà che non ti dà sicurezza: è lotta, è sangue, è “zanna e bastone”. Ma non ti mette alla mercé di chi, indebolendoti con facili sicurezze, ti trasformerà in un docile schiavo. Il cane che ridiventa lupo fa un passo indietro dalla civiltà alla natura selvaggia per prendere lo slancio ed essere libero.