E il Signore Dio fece all'uomo e a sua moglie delle tuniche di pelle e li vestì.
(Genesi, 3,21)
In questa frase ci sono i temi e le tracce per comprendere cosa serve al corpo: quello fisico e quello dell'anima.
Di fatto nello scrivere che “il Signore Dio fece” si racconta di un'attività che il Creatore addiziona alle già tante espresse all'alba del mondo e rivela un bisogno che sequenzialmente si è manifestato. Nella Genesi all'uomo non serve null'altro che l'ubbidienza al Creatore nella disposizione del creato. Ad un tratto entra l'ego e si sviluppa il tentato superamento della natura (il Creatore).
In tale istante l'uomo perde la visione d'insieme donatagli da Dio ed entra nel particolarismo dei suoi bisogni e coglie in simultanea la sua planimetria ludica, la sua essenza effimera e in emergenza raggiunge le frasche e le utilizza a proprio consumo per coprire la ravveduta nudità. Il gesto di raccogliere, o togliere per sé in maniera compiuta dal luogo “dell'altro” (che di fatto diviene tale proprio nell'espressione dell'umana proprietà ossia nel contravvenire alle regole per possedere), è un tema generativo del processo espansionistico, naturalmente insito nella natura e nell'essere umano che di essa è parte.
Il testo sacro ci parla di come colui che è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio avesse, al suo cospetto, il necessario per essere tale, ma attraverso una percezione personalistica emersa da un divieto abbia espresso vanità e dunque egoismo.
All'emersione del contrasto, dato dal limite, Dio interviene a realizzare un pensiero evoluto e abitativo del corpo che concretizza la prima enucleazione dell'anatomia umana in un contenente ragionato su quella proporzione fisica e su quanto il desiderio aveva rivelato.
L'intervento divino giunge dalla conoscenza della finitezza e diviene argine e mezzo espressivo di dialogo tra l'uomo e la natura: “tuniche di pelle”. A sua volta questa traccia compiuta di rapporto si dilata nella visione che l'uomo ha del dono ricevuto in forma di idea e suggerimento e si stratifica delle proiezioni che si susseguono, nell'esperienza diretta, attraverso lo spazio geofisico dell'emisfero terrestre e del tempo della Storia.
L'immaginazione resta il più potente ponte tra noi e il quotidiano, tra noi e il perimetro che comprendiamo. Ci convince dell'utile e dell'inutile e prende in considerazione gloria e vergogna in eguale misura anche se foriere di reazioni e progettualità differenti.
Il tutto governato dalla soggettività.
La soggettività è un segmento dell'architettura sociale che dal suo particolarismo può manifestarsi in un “oltre” che diviene patrimonio comune, perché utile di quell'utilità che conviene all'anima, al corpo o ad entrambi, ma anche un “oltre” che si chiude ad angolo in una interpretazione conica del punto di vista.
Nel gesto del vestirsi e, dunque, ricoprirsi vi è la logica della protezione, ma nel testo sacro non è anteposta la copertura verso l'ambiente, ma verso l'Io.
L'ego è motore a doppia gettata che partecipa della vita pubblica come di quella privata.
Il tempo in cui vestirsi equivaleva al gesto di divina concezione della comprensione del limite è oggi lontano e l'esercizio del particolarismo è partitura e parte del lessico dell'arbitrariato sociale che si manifesta nella moda come emersione ed emulazione sino alla disintegrazione del desiderio indotto per eccesso di diffusione del modello proposto.
Partendo da questi presupposti abbiamo ancora una misura da applicare all'estensione del principio dell'abito nelle sue declinazioni contemporanee.
Chi progetta deve valutare “l'uomo” come parametro “nella natura” perché dall'uomo si evince l'ordine escatologico dell'ambiente e parte la riflessione e dunque il riflesso di come il tutto si annetta alla parte e la parte per il tutto. Se l'uomo smaterializza tale figurazione perde la dimensione panica e trascende la sua finitezza verso un'assolutizzazione che disintegra l'altro per il sé.
L'abito è estendibile per la misura del corpo e per la misura dell'ego come testimoniano, sin dal principio, le Sacre Scritture che di norma sono lungi dal non essere esaustive e compendiative dei temi fondamentali della vita.
La pratica sociale che l'abito ha assunto non è più legata al coprire per proteggere dal giudizio o semplicemente dal clima, ma è legata al rivelare per connettersi alla specie e annettere, emulare, gerarchizzare, eludere, sovrastare, affascinare, sedurre, ma sempre con l'idea di creare un qualcosa. Tale formula non è destinata a decadere, ma può modificare i suoi processi edificativi in funzione di una mutata visione del progetto abito.
In Giappone il termine Kimono, “cosa da indossare”, è molto vicino al concetto biblico realizzato da Dio. Un segmento tessile, cucito, che si diversifica nel decoro e ha nella sua forma base la modularità democratica del processo di copertura che è primigenio della sostanza abitativa del vestire in fibre naturali.
Tra le pelli elaborate da Dio, nel testo biblico della Genesi, ed il Kimono vi è la storia della moda e del costume. Essa ci parla del passaggio del vestirsi attraverso la sua contaminazione espressiva. La prima vera esperienza di tale concezione è nel DNA di come l'atto del ricoprire il corpo si è raccontato nella tradizione religiosa ossia con modifica della legge di natura che per l'essere umano equivale all'anteporre il pudore al tema termico e dell'abrasione ambientale.
L'essere umano deve tornare all'esercizio pratico della pesa delle parole e comprendere da tale esercizio il termine “Essere” ed il termine “Umano” in quanto espressioni di funzioni e legami naturali.
Qualora volessimo comprendere il valore del corpo umano, in stato di coscienza, avremmo nelle parole del Premio Nobel per la letteratura, Iosif Aleksandrovič Brodskij, il suo sostentamento:
...acqua è uguale a tempo, e l'acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d'acqua, serviamo alla bellezza allo stesso modo...
(Fondamenta degli incurabili J.B.)
In questo testo si dichiara il legame inscindibile dell'uomo con i bioritmi del pianeta e la generazione del compito che ad esso la natura affida in termini costituenti dell'armonia dello spirito nel rispetto di un tempo che equivale all'acqua in osservazione, ascolto e pratica come flusso di una stessa essenza.
La bellezza che si riflette dall'umana natura corrisponde alla pace, al senso di conforto e appagamento che giunge dall'accoglienza di ciò che è buono al suo manifestarsi: verità assoluta che porta alla contemplazione.
Il buono, il bello, il vero.
(Platone)
Non c'è spazio e mai vi è stato per sostituire il consumatore all'essere umano, per anteporre i bisogni alle necessità. Vi è una sottile differenza tra l'utilizzo delle cose per la funzione che esse hanno e soggiogarle alla propria visione. Chi lo ha fatto si è applicato al libertinaggio e non alla libertà che conosce in sé la norma del rispetto e che alimenta lo stato di natura.
Alla luce di queste riflessioni cosa può essere la moda e dunque l'abito oggi?
Utile e dilettevole come è giusto che la bellezza sia in termini anatomici, dove la scenotecnica dell'apparire si unisce all'emozione del manifestarsi verso la superficie oculare, ma anche profonda di quell'appartenenza alla famiglia del “Design” che è progetto e dunque riflessione sull'addizione cosciente della storia di cui è portatrice e nella quale si inserisce e del soggetto a cui è destinata: longeva e al contempo temporale di quella “caducità esemplare” e mai logora.
L'uomo può apprendere qualitativamente dalle cose quando esse nascono per esistere di bontà, bellezza e verità. Nella totalità della componente empatica degli oggetti che ci accompagnano e che abitiamo, viviamo, in corpo e spirito, l'abito necessita di rientrare nella categoria della protesi dell'immaginazione dell'umano per il divino perché per l'anima è prodotto.
Il corpo anatomico è oggi aria perché da essa sembra giungere il caos virale di questo tempo, ma è stato ed è ancora acqua. L'elasticità che gli appartiene lo porta a contrazione e dilatazione come il muscolo cerebrale che di essa è pregno e che riconosce nell'epidermica copertura il piano d'appoggio dei desideri. Sono questi desideri che ci vestono e vestiranno e che solo con la capacità definitoria dei rapporti che intercorrono tra uomo e natura potremo porre in dono al cospetto dell'etica per trovare la misura naturale della bellezza.
Il tempo è come l'acqua e non si può dribblare: pegno il passaggio dal ruolo d'inquilino a quello “odierno” d'inquinante.
Che sia longevità, lungimiranza e luce la chiave della progettualità che da oggi apre al domani dell'abito battezzato alla fonte cosciente della natura.