Nelle mie relazioni è assente un'amica preveggente come Cassandra, alla quale naturalmente non avrei creduto.
Cassandra mi avrebbe senz'altro predetto l'incidente e, magari solo per scaramanzia, sarei corsa a fare qualche provvista.
Colta alla sprovvista, appunto, come qualsiasi incidente prevede, questa è la sua particolare vocazione, il trovarci impreparate/i. Una sorpresa limitata o definitiva che porta sempre con sé il caos.
Così, non sono potuta andare alla "Casa del bianco" per acquistare quelle tristissime camicie da notte "da ospedale" che sembra abbiano il solo compito di aumentare la disperazione, lo spaesamento e l'annientamento psicologico del ricovero, per giunta imprevisto.
Ma non sono potuta andare neanche alla "Coop" e a "NaturaSì" per fare provviste di legumi, cereali, pasta integrale di farro, di grano saraceno, gallette di riso, riso selvaggio, riso rosso; nel mio periodo di macrobiotica strettissima, per depurare l'organismo, ho vissuto praticamente di gallette di riso. Quasi. Il cibo biologico e integrale mi è necessario, quindi se l'impossibile preveggenza fosse stata realtà, avrei almeno continuato la mia alimentazione a base di maritozzi ai cinque cereali senza zucchero aggiunto, di cotolette e di hamburger rigorosamente di soia e latte di mandorla, di riso, di soia, di avena - ancora non ho capito qual è il meno schifoso - di hummus, di arringhe affumicate, di vasetti di tonno, di acciughe, di sgombri, ma anche di lupini. Qualche cosa poi, soprattutto i cibi sott'olio, dopo aver soggiornato in frigorifero sarebbero finiti nella spazzatura, però differenziata. Di solito, mentre separo il vetro, l'olio e il cibo mi maledico, ma da anni continuo a ripetere l'errore. Lo so. È imperdonabile perché qui mi aggiro nel campo, non del biologico, ma della demenza.
Non sono potuta andare neanche al mercatino del chilometro zero per fare provviste di frutta e verdura di stagione e specialità come sedano rapa, funghi shiitake, cavolo cinese però coltivato qui, al chilometro zero. E ancora biscotti di castagne, pane e focacce cotte nel forno a legna e salse e spezie che danno quel sapore molto vicino alla cucina orientale.
Così, quando in ospedale mi hanno portato stelline in brodo, pesce lesso che poteva essere qualsiasi animale di sapore terribile, purè e mela cotta fredda e priva di cannella, ho deciso d'iniziare un digiuno. Ne avevo anche necessità.
E non ho potuto neanche rifornirmi di quelle pillole quasi miracolose - gli integratori alimentari - che trovo nella Parafarmacia e nell'erboristeria di fiducia nelle quali lascio cifre mozzafiato. Anche con le medicine seguo la teoria del chi "più spende, meno spende" e anche qui mi aggiro nel campo della demenza. Ma ho un bisogno sfrenato di avere, anche in ordine sparso, in tutte le stanze, in confusione, ma ugualmente ben in vista, le mie pillole, che prendo con metodo e disciplina dopo colazione, dopo pranzo, dopo cena, ma anche lontano dai pasti.
Il caos.
Quando ero in ospedale volevo, disperatamente, rientrare a casa. Una volta a casa, il caos.
Una tragedia nella tragedia. La situazione è quasi ingovernabile sia per l'assenza di tutti quei cibi e di quelle medicine che ho descritto sopra, sia per la totale incapacità di relazionarmi, di dire chiaramente ciò di cui ho immediato bisogno. Per questa ragione metto in crisi anche le persone che amorevolmente mi seguono e mi aiutano. In me è assente un discorso logico costruito con parole chiare e comprensibili: solo balbettii confusi. Inoltre la confusione che mi circonda corrisponde esattamente alla mia confusione mentale.
Per chi mi assiste, trovare le cose necessarie è stata ed è un'impresa ardua perché non so indicare dove risiedono gli oggetti. Anzi, alla precisione sono sempre lontanissima. Quindi magari indico "nella stanza in fondo al corridoio, nell'armadio a sinistra" invece la cosa, indispensabile in quel momento, è nella penultima stanza e nell'armadio a destra. Così mi ritrovo, distesa nel letto, con abbigliamenti strani, pronta per una passeggiata in pineta o un incontro con amiche o amici al ristorante Cappello.
Una mattina un'infermiera della Usl - viene una volta alla settimana per prelievi del sangue e mentre l'ago entra in vena, penso sempre più spesso che quello che mi sta capitando è una punizione divina - mi ha detto: "È pronta per uscire? Mi mettono di buon umore le signore tutte eleganti di primo mattino!" Io che da troppo tempo vedo solo la parete difronte al letto, e praticamente sono agli inferi, nel buio o nella luce artificiale, ho pensato seriamente al suicidio. Ma nella condizione in cui mi trovo, mi è impossibile anche questa soluzione finale. Il letto è alto ma se mi butto giù mi ritrovo di nuovo in ospedale e se anche raggiungo il terrazzo, abitando al primo piano mi ritroverei, al massimo, nel reparto di rianimazione. Poi ho ampliato la visione e ho pensato che l'accogliente terrazzo del mio studio - si trova al sesto piano - sarebbe il luogo adatto per una dipartita sicura. Dal suicidio sono passata poi al mio funerale: la bara dovrà essere rigorosamente chiusa. A morte avvenuta devono farmi ugualmente un'iniezione al cuore per garantirmi nessun risveglio. Soffro di claustrofobia e mi girano ancora nella mente le lezioni del prete di religione alle scuole elementari, ricche di defunti che si svegliavano dentro la bara. Inoltre desidererei che Catia e Gigi cantassero e suonassero e che amiche e amici raccontassero qualche episodio divertente vissuto insieme. Sono pensieri infantili, che vanno e vengono, ma a una certa età si ritorna bambine e io ci ritorno spessissimo. Anzi, a volte, penso di non essermene mai allontanata.
Terminato il pensiero del funerale mi sono abbandonata nelle braccia del nulla e lì mi sono persa. Il nulla abita il mio Logos e quando sono con lui non vorrei più ritornare.
Il nulla era prima, è adesso e ora risiede qui, vicino a me.
Per poco.
Ida mi richiama alla realtà e mi chiede dove, Marcella, può avere messo la padella piccola.
Ho dovuto, così, aprire di nuovo gli occhi e mi sono guardata; avevo una lunga sottana a fiori e una maglia nera con qualche brillantino, poteva andare bene anche come ultimo viaggio. Al nulla però non sarei piaciuta.
Da più di vent'anni Ida è la mia collaboratrice domestica, sempre pronta a qualsiasi evenienza e bravissima nel risolvere e nel gestire i problemi più imprevisti e complessi, però non apre armadi e cassetti. Credo lo faccia per paura. Quando li apro, anch'io infatti, vengo assalita da un vortice colorato. I miei cassetti sono la residenza del vento. Un vento vecchio che viene da lontano e porta con sé tutto quello che ha trovato nel suo cammino: dal pareo indiano al maglione islandese per il grande freddo. In mezzo, le quattro stagioni, che con grande potenza volano in aria e infine si depositano un po' ovunque. Ma non trovo mai quello che cerco. Come il clima fuori, così nella stanza le stagioni si sono tutte scombinate e trovo solo in estate l'abbigliamento che cercavo in inverno. Nella situazione attuale, immobile nel letto, dipendo totalmente soprattutto da Ida e da Marcella. Ho rinunciato a qualsiasi desiderio: fate voi che io sono momentaneamente assente. Lasciatemi conversare con le mucche, le capre, le pecore, i cavalli, di "Geo and Geo". Posso intrattenermi solo con loro.
Nella mia cupa solitudine ho pensato molto e ho concluso che le funzioni primarie per essere libere/i e indipendenti riguardano l'espropriazione del vento nei cassetti, il camminare e l'andare in bagno autonomamente. Tutto il resto viene dopo e riguarda spesso la sfera dell'illusione, come, in questo caso La casa del bianco, NaturaSì, la Coop, il mercatino del chilometro zero, la Parafarmacia e l'Erboristeria.
Una volta ho chiesto ad un amico che non vedevo da tempo, come stava. E lui: "Bene. Non vedi, cammino!" Ho pensato: "Ci vuole poco". Invece la nostra vita di persone libere si concentra tutta in quei quattro passi miracolosi che portano in bagno.