C’era una volta in un angolo lontano del pianeta un bosco incantato. Nella parte più alta del bosco, proprio accanto a un’antica limonaia, vi era un castello protetto da due leoni di pietra. In esso viveva una fatina, un essere del bosco più simile a un’elfetta che a una potente fata, che, però, non si faceva mai vedere da nessuno. Quel bosco di Cedri, Abeti e Querce, inoltre, ospitava animali di tutte le specie, uccelli variopinti e una miriade di spiritelli allegri e burloni. Nessun viandante, però, ci si avventurava perché per arrivarci occorreva oltrepassare una barriera magica, un arcobaleno di venti con la forza di risucchiare il malcapitato dentro un pauroso vortice.
Un bel giorno capitò da quelle parti il cantastorie Osvaldo, un giovane dai capelli folti e arruffati e una barbetta appena accennata, che girava il mondo accompagnato dalla sua chitarrina Esmeralda. Si fermò accanto a una fontana e bagnò i suoi folti capelli per rinfrescarsi un poco. Dalla fonte uscì uno gnometto azzurro e gli spruzzò in faccia un alito di acqua cristallina. Il giovanotto ebbe un guizzo di gioia e prese tra le mani lo gnomo per guardarlo meglio. Non aveva mai visto un ometto così piccolo e si incuriosì immensamente, come fanno i bambini quando scoprono un nuovo gioco. Nel mondo degli adulti sarebbe stato preso per scemo, con quei suoi occhi stupiti, con quel sorriso ingenuo, con quel suo passo galoppante da cavallino.
Lo gnomo burlone, invece, gli disse: “È strano che tu mi veda, in genere lo possono fare solo i bimbi. Loro mi capiscono, mi ascoltano e giocano con me contenti. Con gli adulti sono dispettoso, credono io sia un fantasma e fuggono”. Osvaldo rispose con un sorriso: “Mi sei simpatico gnometto, voglio dedicarti questa filastrocca:”
Prendo il cuore dell’ometto
corro dentro la boscaglia
non mi metto mai l’elmetto
ma comincio la battaglia.
Suono questa chitarrina
Esmeralda mi accompagna
ogni sera e ogni mattina
mia regina e mia gran dama.
Grazie a lei posso cantare
col sorriso a tanti denti
con i bimbi posso stare
e li faccio assai contenti.
Ora dammi la manina
danza balla fai un salto
scuoti bene la testina
e voliamo in alto in alto.
Il giovanotto volò quindi con lo gnomo attraversando la barriera magica in balia del vento. Quando passò dall’altra parte aveva i capelli colmi di stelline colorate, la chioma splendente e scompigliata e la chitarrina piena di fiori. Lo gnomo era scomparso, la luce era fievole e lui aveva la sensazione di non sentire più i rintocchi del tempo, come se ogni orologio si fosse fermato. In quella luce fioca si trovò di fronte a un imponente e antico Tasso.
Era una pianta ammantata di fascino e mistero, splendido e accattivante nel suo vestito di bacche rosse, ma spaventoso e infido, come se la sua bellezza dovesse nascondere qualcosa di terribile. Osvaldo sapeva che quella pianta possiede un legno resistente e flessibile, un corpo durevole che si mantiene inalterato per migliaia di anni e che fin dai tempi antichi era usato per fabbricare archi, frecce e lance, a volte con le punte avvelenate. Insomma bisogna stare attenti a questo straordinario guerriero del bosco dal tronco alto e possente, per il suo carattere piuttosto velenoso, visto che in tutti i suoi organi si trova uno spiritello tossico, la gentile ma pericolosa Tassina, in grado di uccidere uomini e animali.
Albero della Morte, quindi, ma di una morte intesa come momento di passaggio verso una nuova vita, una porta che mette in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. Mentre Osvaldo era assorto davanti al grande Tasso, una nebbia improvvisa intorpidì i suoi sensi materializzando una figura vigorosa e altera, un ammasso di capelli bianchi e una folta e fluente barba. Il vecchio, sostenuto da un mastodontico bastone e accompagnato da una cagnetta bianca come la luna, il cui nome era Ambretta, esclamò: “Io sono il Maestro, guardiano di questa porta. Sono venuto da un tempo remoto. Ho abitato la terra per secoli cercando di condurre gli uomini verso una profonda comprensione di se stessi. Spesso non sono stato ascoltato. A volte mi hanno offeso e calunniato, mi hanno anche imprigionato e mandato via. Sono stato invece accolto dall’invisibile fata del bosco nella casa che ora ti mostrerò. La cagnetta che mi accompagna ora ci guiderà”.
Il vecchio fece cenno di seguirlo e Osvaldo s’incamminò alla scoperta di ogni segreto. Dopo pochi passi vide una luce verde brillante: era una lucertolina tutta di legno d’acero. Aveva due luminosi occhietti verdi rotondi e scintillanti. Strisciava a terra lasciando al suolo una serpentina di luce. Indossava un cappellino rosso fuoco e portava al collo un fiocchetto verde molto carino. Appena lo vide, la lucertolina tirò su la testa e lo fissò con i suoi deliziosi occhi a palla esclamando:
Nutriti con energia
dei frutti di stagione
cogline la magia
trattali con passione.
Gustali freschi e puri
mele, albicocche, pere
quando sono maturi
nespole, pesche e more.
Prendi la verdurina
quando l’avrai lavata
mangia la carotina
gusta la tua insalata.
Poi la lucertola riabbassò la testolina. La calura pomeridiana si stava placando, ma Osvaldo aveva una sete immensa, cosicché il vecchio lo condusse presso una fonte d’acqua trasparente. Un cavallo molleggiato con il pelo bianco e nero si piazzò davanti alla sorgente per non farlo bere. L’animale aveva solo la testa e le zampe di cavallo, la sua pancia invece era costituita da una grande molla per far oscillare il corpo rendendone l’immagine elastica e cangiante. Il cavallo non si perse in chiacchiere e sentenziò:
Se quest’acqua aneli bere
per accumular riserve
devi certo tu sapere
che la pancia pure serve.
Per provare ogni emozione
come fosse una gran molla
che conserva proporzione
quando tira e poi rimolla.
Se diventi più flessibile
e ti apri nella vita
niente sarà più temibile
l’inazione avrai sconfitta.
Puoi avere tutti i dubbi
dati da una stagnazione
quando il vento porta nubi
puoi cambiar la situazione.
Se il messaggio ora è chiaro
abbandonati al destino
non pensare che sia amaro
bevi pure e fai un inchino.
Il vecchio strinse la zampa al cavallo, mentre Osvaldo si gettò sulla sorgente per nutrirsi della sua trasparenza. Bevve per un tempo lunghissimo, mai sazio di quella freschezza, dell’armonia che provava a contatto con la sua purezza, dell’equilibrio in cui sentiva immerso tutto il suo essere. Come al solito fu il Maestro a risvegliarlo e a spronarlo a proseguire il viaggio. Stavolta lo fece entrare in una grotta nascosta tra le piante.
Dentro la grotta c’era un bel calduccio, un laghetto sotterraneo con l’acqua tiepida e un poco giallastra lo invitava a bagnarsi. Osvaldo si tolse le vesti e penetrò nel lago per abbandonarsi al piacere del bagno. Mentre nuotava da una riva all’altra vide un bruco gigante, variopinto con tutte le tonalità del giallo, con due paffute guance rosse che sporgevano dalla testa come due palloncini, le antenne ritte e scarlatte come il calore del sole. Il bruco parlò con la sua voce primordiale:
Oggi voglio suggerirti
mentre nuoti dentro l’acqua
che dovrai solo nutrirti
di quel cibo che ti piaccia.
Devi sempre moderare
la tua sete e la tua fame
non bisogna esagerare
come fa l’obeso infame.
Non ti serve accumulare
soldi, cibo e ogni oggetto
non è questo il nostro scopo
in un mondo sì imperfetto.
Se vuoi avere una ricchezza
condividi ogni tuo bene
non gestirla con stoltezza
e vedrai che ti conviene.
Il bruco a questo punto entrò in acqua e si trasformò in una splendida farfalla fiammeggiante. La farfalla volò verso l’apertura della grotta e scomparve. Il vecchio guardiano lo invitò a vestirsi e gli indicò l’uscita della caverna dove lo attendevano due magnifici Platani. Doveva essere forse mezzogiorno perché l’irraggiamento solare era fortissimo ma l’ombra dei Platani era straordinaria, grazie all’estensione dei rami che si allargavano a raggiera. Le foglie erano ampie e frastagliate con i lobi appuntiti come se fossero il palmo di una mano aperta. Questi alberi piatti, infatti, come una Grande Madre con le cinque dita della mano aperta nell’atto di benedire, erano le imponenti femmine del bosco, la corteccia maculata marrone chiaro e color crema che si distacca in grandi piastre a cambiare continuamente d’abito. Attorcigliate sui loro tronchi massicci erano due superbe serpi dalla schiena scarlatta che sembravano appena rivestite della loro nuova pelle. Le signore dalle ampie chiome reclinarono il capo in segno di sottomissione alla figura del Maestro e accarezzarono con le loro foglie il volto di Osvaldo. Le due serpi sibilarono alzando il capo ed estraendo le loro lingue biforcute. Un alito di vento scosse tutte le fronde dei Platani facendole tremolare a lungo. La loro voce sottile si levò da quei tronchi, indistinta e confusa come se fosse un unico suono che proveniva da due diverse entità.
Noi siamo le sorelle
dalla pelle di serpente
le nostre vesti gemelle
sono d’oro splendente.
Siamo le veggenti
sveliamo il futuro
sincere e suadenti
col passante maturo.
Cogli il tuo presente
rigenera la mente
prendi la strada giusta
che non sia angusta.
Poi ci fu silenzio e dalle bocche dei serpenti sgorgò acqua fredda che cadde sulla testa di Osvaldo per rinfrescare le sue idee. Il ragazzo si fece scorrere addosso l’acqua fino a bagnarsi completamente. Il suo volto divenne luminoso, mentre i capelli del Maestro si riempirono di riflessi azzurri. Questa luce nella chioma del vecchio di intensificava man mano che si avvicinava il momento del crepuscolo. I colori del cielo e i riflessi del bosco si tingevano prima dei violetti del tramonto e dopo delle ombre della notte mentre il maestro con il suo discepolo si incamminavano nella profondità più recondita della foresta. La luna quella notte non si presentò al cospetto del cielo e solo una moltitudine di stelle fecero lume alla notte di Osvaldo che riposò nell’incavo di un’antica pianta di Ippocastano. Era stordito dagli incontri avvenuti e curioso di tutto quello che avrebbe ancora scoperto. La cagnetta era accoccolata ai suoi piedi e la chitarrina era stretta al suo fianco.
Nel cuore della notte la chitarrina iniziò a suonare. La cagnolina Ambretta si alzò su due zampe e si mise a danzare tra le piante facendo svolazzare la sua gonnellina in tulle turchese. La danza di Ambretta contagiò tutti gli elfi, gli gnomi e le fatine delle piante: un arcobaleno di colori si alzò verso il cielo e una fantasia di voci colmò ogni spazio vuoto del bosco. La danza durò fino all’alba, allorché i raggi del sole penetrarono tra il fogliame per mostrare il tripudio dei fiorellini bianchi. Doveva essere il pieno della primavera perché le piante d’Ippocastano vestite di germogli candidi sembravano saggi, alti e imponenti capolavori di precisione architettonica.
Eppure Osvaldo si era addormentato che era autunno perché il sentiero del bosco era colmo di foglie secche che risuonavano al calpestio come una strana risata. Aveva raccolto tre frutti in mezzo ai resti dei ricci schiacciati o ancora chiusi come misteriosi portafortuna. Lo avrebbero preservato dalle malattie, dai ragni nocivi, dai funghi velenosi e persino dalla tristezza. Gli avrebbero narrato le misteriose storie delle fate e degli elfi nascosti dentro ai tronchi, i segreti degli scoiattoli innamorati e tutte le storie fantastiche racchiuse nel pensiero del bosco. Il Maestro era già uscito a cercare bacche per la colazione, mentre Osvaldo temporeggiava ancora tra il sonno e la veglia. Quando si alzò, non sapeva quanto tempo avesse dormito, gli pareva che dal momento in cui era entrato nel bosco fossero passati almeno quindici anni ma guardando il cagnolino e la sua chitarrina sembrava non fossero ancora cresciuti o invecchiati di un solo giorno.
Ambretta gli leccò il viso per aiutarlo ad aprire gli occhi e abbaiò:
Questo bosco è della fata
dentro questo cagnolino
ora la vedrai celata
per guardare da vicino.
Tutti gli Esseri del bosco
e il tuo volto da barbuto
quell’aspetto forse losco
che sorride soprattutto.
Lei non crede tu sia Scemo
vede bene ogni paura
che si cela dentro all’elmo
della tua propria natura.
Lei t’osserva come nudo
la tua voce in basso tono
e si accorge che in futuro
il successo avrai e il perdono.
Ambra azzurra Ambra chiara
una semplice fanciulla
è una perla molto rara
bianca e dolce come nulla.
Il suo mondo assai cortese
ogni animella accoglie
senza mai troppe pretese
anche se è a mani spoglie.
Il cagnolino esplose in una bolla di stelline e apparve una fatina con gli abiti arcobaleno e il sorriso risplendente come un diamante: era la fatina del castello dell’antica limonaia. Con la sua bacchetta toccò la barbetta di Osvaldo che divenne petali di margherita poi scomparve dentro la chioma profumata di una pianta di Tiglio. Quella capigliatura appariva come un ammasso di piume leggere, costituendo tante ali fiorite. I fiori, molto profumati, di questo elegante e possente albero avevano certo fatto da sfondo ai riti e alle misteriose cerimonie tipiche delle saghe nordiche degli antichi popoli germanici. La sacralità della pianta e la sua possibilità di arrivare alla venerabile età di mille anni, fanno di quest’albero un simbolo di longevità e il suo fiore un’incarnazione dell’amore coniugale. Questa meravigliosa signora scosse i capelli e sussurrò:
Quando ti sentirai grande
acquisendo un certo stile
proprio in mezzo alle mie fronde
vedrai il mondo femminile.
Non temere di giocare
col tuo tocco vellutato
il carattere solare
ti farà leggero al tatto.
Io ti guido verso un suono
che la musica vi impera
che l’ebbrezza avrà del tuono
nella vita tutta intera.
Canta suona la mattina
sia gioiosa e mai spavalda
fai danzar la chitarrina
la dolcissima Esmeralda.
Ora vedi un poco avanti
cogli tutti i bei messaggi
tra quei legni sempre attenti
che ci rendono più saggi.
La signora si tolse il cappello in segno di saluto e di nuovo tornò a sorridere al bosco con la sua chioma profumata. Il Maestro guidò il ragazzo in mezzo a una gola stretta e senza respiro. Osvaldo era alquanto spaventato e si aspettava che da un momento all’altro comparisse qualche mostro. I capelli canuti del vecchio riflettevano quella luce sinistra come l’abito di una fantasma. La gola diventava sempre più profonda e si faceva infine grotta oscura. Mentre il giovanotto era immerso in quel buio fitto gli apparve il riflesso turchino dell’immagine di un grande occhio. Quest’occhio lo guardava con la pupilla fissa come se fosse in quella posizione dall’eternità e una voce bassa e spettrale così parlò:
Dei tuoi due io sono il terzo
non ho lacrime e non guardo
come vedi son diverso
vedo oltre il vostro sguardo.
Un triangolo di luce
alla vista superiore
se mi ascolti ti conduce
verso il fulcro del tuo cuore.
Il riflesso di quest’occhio si fece intensamente violetto, poi emise un suono tintinnante come una campana di cristallo per sparire quindi di nuovo nel buio assoluto. Nella caverna cominciò a fare freddo e Osvaldo iniziò a battere i denti un po’ per il gelo un po’ per la paura. Si assicurò che il Maestro fosse accanto a lui cercando disperatamente la sua barba. Quando toccò quel velluto si accorse che emanava un certo calore e in qualche modo si rasserenò, anzi cominciò a vedere un brillio in quella barba che faceva da faro in quella pista buia. A un tratto una specie di porta scricchiolò e si aprì un passaggio nella parete che conduceva a un’ampia stanza ghiacciata. Un’enorme colomba con le ali d’acciaio era accovacciata in quell’antro e aveva le ali aperte pesanti e stanche. Il suo sguardo era grigio e spento e il suo becco d’acciaio impossibilitato al sorriso. Il giovanotto andò a stringere una zampa palmata e la colomba ebbe gli occhi pieni di lacrime. Le lacrime sciolsero i suoi ingranaggi e il suo becco sorrise dicendo:
Un tempo ero la pace
ma sono stata violata
da una parola fugace
in ogni epoca e annata.
La guerra ha conquistato
per lotte di potere
un uomo ormai soldato
di un nemico che non vede.
Ti chiedo o cantastorie
di scrivere una canzone
che resti nella memoria
e doni un’emozione.
Spieghi la mia esistenza
la mia pura missione
trasformando l’essenza
in questa riflessione:
Chi sarà lo sconfitto?
Solo il perdente?
In questo mondo afflitto
O suo fratello vincente?
Osvaldo prese la sua chitarrina e suonò una serenata alla colombina:
Vola mia colombina
la pace si avvicina
se tutti ti acclamiamo
e il cuore ti doniamo.
Io canterò alla gente
ch’è triste e sofferente
s’abbandoni la tenzone
e vinca una canzone.
La canzone del sorriso
ad ogni essere vivo
uomo animale pianta
di questa Terra Santa.
La colomba si stiracchiò tutta e una grande forza vitale la invase rendendola luminosa come una stella. Infine sorrise e si levò in volo per dirigersi verso la primavera degli uomini aprendo nella stanza un cielo stellato. Osvaldo sapeva che il viaggio non era ancora concluso, infatti, un altro cunicolo doveva essere oltrepassato e di nuovo si dovette camminare al buio. Questa volta la chitarrina Esmeralda cominciò a lampeggiare di una luce dorata mostrando alcuni oggetti che si incontravano lungo la strada: grandi piume d’uccello, un enorme carapace, il teschio di un cavallo e un grande dente di bue. Il cantastorie voleva raccogliere quei tesori ma il Maestro glielo impedì.
La luce di Esmeralda si fece più intensa e la caverna divenne un grande guscio di lumaca mentre i piedi scivolavano sopra il corpo vischioso dell’animale. Il guscio diventò fosforescente cosicché ci fu tanta luce dentro quella casa. Due antenne spuntarono dietro l’uscio e due occhi luminosi interrogarono Osvaldo:
Perché entri in casa mia?
Cerchi forse leggerezza?
Vuoi le piume di tua zia?
O del teschio la saggezza?
Vuoi sapere cosa sente
dentro questo carapace
il suo cuore onnipotente?
Poi però lasciami in pace!
Della vita fai chiarezza
cerca sempre protezione
fallo certo con lentezza
nel tuo guscio di stagione.
Poi però cambia registro
costruisci una dimora
butta il vecchio guscio tristo
e rinnova la tua aurora.
Quindi la lumaca strisciò via lentamente lasciando una bava rossa per indicare la direzione della luce. Aspettarono dunque che la lumaca scomparisse e pian piano si misero sulle tracce della sua bava finché non trovarono una grande apertura. La grotta terminava con una pietra colossale che si affacciava su uno spiazzo selvaggio pieno di ciuffi di Genziana. Sembravano tanti guerrieri con le loro teste diritte e altere che esplodevano in infiorescenze gialle. Eppure erano guerrieri pacifici: i loro silenziosi sguardi celebravano con fierezza un’intensa serenità. All’uscita della grotta vi era un albero mozzo a tre tronchi dall’aspetto rassicurante e possente. Il legno era ancora vivo, umido e tenero e una forte energia si sprigionava da quelle venature antiche. L’anima della pianta cantò queste parole:
L’albero della fortuna
riflette il gioco amaro
creato quando la luna
cadde in poter di un baro.
Ha tronchi addormentati
freschissimi germogli
ridona luce ai prati
non sai quanto raccogli.
Sfodera la chitarra
suona tutte le note
come una scimitarra
e aspetta fino a notte.
Mi riempirò di gemme
e poi di fiori rari
violette con le gonne
da non giocare a dadi.
Son l’albero di Giuda
colmo di fiori rosa
son bello di natura
come un bouquet da sposa.
Se non mi tradirai
e giochi un gioco chiaro
vincente tu sarai
corretto in modo raro.
Giuseppe mi conobbe
quando con l’asinello
alla capanna il bove
scaldava il bambinello.
Se l’asino non raglia
scommetti e bevi vino
poi mangia la sua paglia
e sarai fanciullin divino.
In quell’istante i tronchi crebbero velocemente riempiendosi di una fitta ramificazione celebrante un trionfo di fiori dall'affascinante tonalità rosa molto vivace. Osvaldo apprezzava la leggiadria del suo fogliame, lo sviluppo della chioma espansa e la notevole fioritura che con il suo colore acceso contrastava in modo suggestivo con la corteccia più scura, donando all'albero un notevole valore d’ornamento, come fosse un gioiello della foresta. In quel momento un enorme lombrico usciva dalla terra indossando un cappellino nero e un vestito color terra di Siena. Strisciava dolcemente nella terra soffice e morbida e faceva cenno con le antennine di seguire la sua coda. Non tanto lontano si attorcigliò al piede di un grande tronco con le ali d’aquila e un omuncolo bianco come un fantasma accartocciato accanto alla sua immensa radice. L’albero era stato lasciato nella terra come un grande totem con la testa d’aquila e le ali spalancate:
Ehi ragazzo io t’insegno
cosa sono intuito ed estro
ch’è importante avere ingegno
come impari dal Maestro.
Guarda nel tuo mondo vano
per poter volare alto
vedi tutto da lontano
come l’aquila in un balzo.
Sii regale e distaccato
con sapienza ed intelletto
il destino ha aiutato
la tua indole o imperfetto.
Non cercare tenerezza
cerca d’esser solo forte
e nemmeno una carezza
non temere mai la morte.
Anche se ti sembro brutto
così bianco come un cencio
così piccolo e paffuto
devo esserti d’esempio.
Succhia dalla mia radice
la sapienza originaria
come dice la zia Bice
è una forza straordinaria.
Cerca bene da quel lato
quel suo abito immortale
di bel Pino un po’ invecchiato
dall’aspetto originale.
E subito comparve un antico e leggendario Pino, una conifera secolare con foglie sempreverdi fatte di tanti aghetti e riunite in piccoli fasci. Come tutti gli alberi secolari di grande mole, sembrava l'emblema della forza e della potenza della natura. A guardare la sua chioma ampia ed elegante si era invasi da una sensazione di calma interiore e si era ispirati alla verità. Osvaldo divenne per un attimo così alto da toccare la testa di questo gigante per aspirare il selvaggio profumo della vitalità e fermezza. Il tronco era così ritto e sicuro di sé che pareva dovesse impadronirsi della volta del cielo e le sue braccia forti e quiete si levavano in alto in segno di preghiera:
Lascia che il suono
riempia il tuo cuore
sia il tuo abbandono
al canto d’amore.
Osvaldo ritornò a vagare nel campo di alberelli di Genziana che terminava in un enorme abisso sovrastato da un maestoso albero di Cedro. La pianta dal portamento slanciato con la sua chioma a candelabro e le foglie ondeggianti al vento portava incisa nel tronco la faccia più luminosa del sole. E fu proprio questo volto a parlare:
Godi della stagione
splendi con un sorriso
ama con la passione
dona la luce al viso.
Alzati sempre all’alba
onora il mio splendore
nell’ora ch’è più calma
con gioia e tanto amore.
Aspetta che io tramonti
e poi vai a riposare
lontano in mezzo ai monti
e sogna il grande mare.
Accanto allo strapiombo vi era un’altalena le cui funi venivano giù direttamente dal cielo. Osvaldo ci si sedette sopra e subito il sedile iniziò a oscillare più velocemente e poi ancora più velocemente e la fune si allungò e si allungò e poteva oscillare nel vuoto dell’abisso. Il giovanotto era impaurito, non sapeva più dove si trovava, non sapeva quanto fosse profondo il baratro, non vedeva un lembo di terra a cui appoggiarsi e non scorgeva più né la testa né la barba del Maestro. Dondolando sempre più vorticosamente si addormentò e passò tutta la notte travolto da un grande senso di libertà.
Quando l’aurora fece capolino nel bosco fatato i suoi occhi si aprirono su una grande culla che gli dondolava sopra. Si sentiva di aver attraversato il treno della vita e ora doveva riempire i suoi vagoni vuoti: era sostenuto dalla Terra sopra cui era sdraiato e dall’abbraccio di una magica Quercia la cui chioma lo ricopriva facendogli ombra. I suoi occhi guardavano verso l’alto e osservavano le braccia della pianta, un incrocio di rami oscillanti coperti di foglie frastagliate e colmi di grosse ghiande. Il sole penetrava tra le fronde illuminandogli lo sguardo. Da quel momento non si ricordò più del Maestro o forse non ne ebbe più bisogno e si lasciò coccolare dall’abbraccio della Grande Madre del bosco come un neonato appeso a un ramo nella sua culla. Dalla radice di questa creatura uscì un vapore di stelline rosse che piano piano si composero per costituire la splendida fatina con l’abito rosso, padrona di casa, che disse dolcemente:
Questa è la tua pianta
che ti abbraccia senza fine
come una Madre Santa
in un sogno a lieto fine.
Se accetti la radice
la terra ti protegge
l’antica dea lo dice
se apprendi la sua legge.
Sempre t’ospiterò
nella casa che ti manca
nella villa che non ho
come vedi son Ambra.
Da quel giorno Osvaldo si godette tutte le delizie del bosco, fece amicizia con le piante, gli animali e gli animaletti della foresta e divenne la mascotte di tutti gli spiritelli, gli gnomi, gli elfi e le fatine del bosco incantato, anzi con le sue canzoni e la sua chitarrina Esmeralda divenne canto e danza per tutto il popolo della Natura.
Ambra Ambretta
io sempre lo canto
la vita è perfetta
che splendido manto.
Il Parco del Boschetto di Teresa Protto
Se dopo aver visitato Firenze avete voglia di un po’ di tranquillità e riposo, a pochi passi dal centro ma lontano dalle vie più “turistiche”, verso la zona ovest, a ridosso del Monte Uliveto e nella contiguità delle colline di Bellosguardo, c’è via di Soffiano dove si trova una delle due entrate che porta al Parco del Boschetto, o di Villa Strozzi, uno dei più belli e meno conosciuti della città ma sicuramente ricco di tesori.
Entrando, ci si ritrova immersi nel verde, e dalla cancellata bellissima di ferro battuto posta tra due colonne e due casotti rivestiti con bugnato rustico, si snoda un sentiero che porta gradualmente alla collina, fiancheggiato da secolari tigli, platani, cipressi e ippocastani. Mentre ci immergiamo nel cuore del parco, si intravedono prati dove sono raggruppati pini, tassi e alberi di giuda, e in primavera non possiamo che rimanere affascinati dal contrasto di colori che ci fanno pensare al risveglio della natura in tutti i suoi aspetti più romantici.
Le origini del Parco risalgono alla metà del XVI secolo quando Giovan Battista di Lorenzo Strozzi per ampliare il bosco detto di Cafaggio (che sembra in longobardo significhi proprio bosco) acquistò una serie di proprietà confinanti e in questa distesa proprietà vi fece costruire la sua residenza con adiacente un grande giardino, e il bosco, pur mantenendo le sue caratteristiche “selvatiche”, fu arricchito con giochi d'acqua ed elementi decorativi, caratteristici del gusto manierista dell’epoca.
Poi, nella seconda metà dell’800, il principe Ferdinando Strozzi commissionò a Giovanni Poggi il restauro della Villa e il riammodernamento del Parco, ed è a lui che si deve il viale delle carrozze, appunto l’ingresso di via di Solfano, con la trasformazione dei campi a sud che furono modellati in dolci pendii e attraversati dai sentieri su cui oggi possiamo agevolmente passeggiare tra le tante decorazioni architettoniche. Sul lato dell’altro ingresso di Via Pisana, fu da lui voluta la scalinata in pietra pavimentata a ciottoli di fiume e inoltre, tra il parco vecchio e quello nuovo, fu costruita l’altra importante opera che possiamo vedere in questo Parco, cioè la Limonaia, costruzione imponente scandita da tre archi a tutto sesto (serliane).
Oggi il Parco e tutti i suoi tesori appartengono al Comune di Firenze e l’ultima ristrutturazione risale agli anni ‘80, quando, senza nulla più togliere al fascino e all’eleganza del bosco, regalato al pubblico e attrezzato anche con percorsi ginnici e giochi per bambini, ha migliorato il percorso al proprio interno che sinuosamente raggiunge la radura a prato che è il punto più alto della collina dove si elevano i volumi rivisti e classicheggianti di Villa Strozzi, delle Scuderie e della Limonaia.