Scritto con Alicia Luna, Ti do i miei occhi, il terzo lungometraggio dell’attrice madrilena Iciar Bollaìn, affronta con partecipazione appassionata e attenta il tema della violenza domestica sulle donne, riuscendo a subordinare intenti didattici alla complessità di un doloroso rapporto umano e a un ammirevole scavo psicologico dei personaggi.
La Bollaìn offre comprensione e rispetto a entrambi i membri della coppia di cui narra la dolorosa storia in cui la distruttività, la violenza, la sofferenza la fanno da padroni, impedendo loro di vivere il loro rapporto d’amore e condannandoli a una solitudine lacerante.
È la storia di Pilar e di Antonio, una giovane coppia innamorata, dove reciprocamente l’uno pare aver trovato nell’altra le risposte ai propri bisogni emotivi. La donna viene da un’esperienza di vita devastante, padre violento, madre fragile e inconsistente, una sorella che si stabilisce nel Regno Unito per fuggire dalla famiglia.
Pilar spera di aver raggiunto con Antonio finalmente la serenità, ma ben presto realizza di ritrovarsi in una situazione terrifica, perché il marito, pur amandola, è un uomo emotivamente molto debole, bisognoso di attenzione illimitata e di affetto infinito e quando si sente trascurato, la sua insicurezza gli acceca la mente e il cuore e non può fare a meno di sfogare la sua rabbia dolorosa su Pilar ferendola nel corpo e nell’anima.
Pilar, lo ama alla follia, tanto che nei loro giochi amorosi gli dona tutta se stessa, le sue mani, i suoi seni, i suoi occhi, nominando come in un rito con responsorio le parti del suo corpo che offre a lui con appassionata dedizione, ma a un certo punto, non tollerando più le sue violenze, lo abbandona.
Antonio disperato, spaesato, con una lacerante sensazione di vuoto, di non senso, cerca di trovare un rimedio per riconquistare la moglie, e comincia a frequentare un gruppo terapeutico per cercare aiuto e, in realtà, si verificano dei cambiamenti significativi in lui, riesce a controllarsi, a essere più fiducioso anche col suo terapeuta, a riconoscere le sue responsabilità. Pilar ci crede, gli ridà la possibilità di ritornare con lei, ma Antonio non tollererà la passione che, nel frattempo, Pilar aveva sviluppato per l’arte. Passione che le aveva fatto intraprendere una nuova strada, quella di guida nei musei dove il parlare ai visitatori dei quadri che doveva commentare la illuminava di felicità. Antonio la spierà mentre lavora, noterà il suo sguardo appagato e felice sentendosi profondamene tradito e quando il lavoro le prospetterà di cambiare città, la gelosia, la frustrazione e il sentimento di abbandono diventeranno per lui nuovamente incontenibili. E questa volta, la sua distruttività distruggerà per sempre anche il loro legame.
E allora Pilar lo lascerà definitivamente.
È un film molto ben fatto e molto ben recitato, sembra davvero di assistere a una reale situazione di violenza domestica, gli attori non sembrano recitare una parte, ma sono cosi profondamente compenetrati nel personaggio che si percepiscono presenti realmente con corpo ed emozioni. È un dispiacere assistere al fallimento del loro rapporto, anche perché Antonio non è rappresentato come un orco, ma come una persona sofferente, per cui si prova pietà per la sua umanità dolente e si spera fino in fondo che ce la faccia a superare i suoi problemi e a uscire dalla gabbia di perversione in cui è intrappolato.
È un film che tocca profondamente e pone tanti interrogativi.
Perché una donna resta per 10 anni con un uomo fisicamente e psicologicamente violento?
Perché un uomo che non può fare a meno della sua donna, allo stesso tempo non può fare a meno di maltrattarla fisicamente e psicologicamente?
È possibile pensare a una forma di aiuto?
Ne parlo con la dottoressa Elena Paganini del Centro Antiviolenza Eva Onlus di Busto Arsizio che offre dal 2011 un servizio di accoglienza, ascolto e consulenza psicologica e legale alle vittime di violenza domestica.
Gli operatori del Centro incontrano quotidianamente situazioni di persone svilite, degradate dal membro più forte della coppia per mantenere un controllo assoluto sulla vita della vittima.
In genere si tratta di donne sulla quarantina, di buona estrazione socio-economica e culturale, impegnate nella cura della famiglia, spesso disoccupate che vengono maltrattate fisicamente, sessualmente, psicologicamente ed economicamente dai compagni o mariti che non risultano patologici dal punto di vista clinico. Coppie che si possono definire “normali”, mentre è patologica la natura del loro legame.
Molte storie di violenza familiare si accompagnano ad altrettante storie di infanzie mal-trattate, nella maggioranza dei casi non per abusi fisici o sessuali, ma per una serie di continue dissintonie relazionali, per mancanza di attenzioni e di ascolto, per carenze emotive, per non aver vissuto sguardi di riconoscimento e di rispecchiamento affettivo. Per cui padri assenti fisicamente o psicologicamente, madri inconsistenti e distratte, difficoltà da parte dei genitori di differenziarsi dalle proprie figlie perché pensate come parti di sé, quasi come dei replicanti, insomma bambine/ragazze non pensate come persone, ma rese quasi invisibili e l’invisibilità è spesso diventata il loro stile di vita.
Si capisce come l’incontro con qualcuno che le guardi, in modo da confermare la loro esistenza, che le controlli, che mostri anche una gelosia eccessiva e addirittura, la stessa violenza, venga vissuto come indicatore di un bene assoluto e dell’attaccamento estremo dell’altro e questo restituisce un senso di esistenza, è una conferma narcisistica di essere in grado di suscitare interesse e affetto, per cui di essere portatrici di qualità apprezzabili. Questo bisogno lacerante di sentirsi pensate e volute spiega e giustifica la scelta di mantenere per lungo tempo relazioni con partner chiaramente abusanti.
Non è facile chiedere aiuto e uscire da questa gabbia narcisistica dove si paga a caro prezzo il riconoscimento del proprio senso di esistere, per cui denunciare il partner e rinunciare all’illusione di una relazione compensatoria è un passo complesso, così come è doloroso rendersi conto attraverso il percorso terapeutico di non essere mai state viste e riconosciute nella propria unicità e individualità, riconoscere di aver speso anni di vita alla ricerca di una pienezza affettiva di coppia mai raggiunta, di aver sacrificato i propri figli esponendoli a violenze fisiche e/o psichiche.
Certo la rinuncia all’ideale di un amore romantico con il cartello “lieto fine” dove la mitologia racconta che i sentimenti tanto più sono sofferti, tanto più sono veri, è dura da tollerare, il compenso però è l’acquisizione di una immagine di sé più realistica, dove si possano riconoscere reali risorse interne per affrontare la vita senza paura e con un senso di rispetto per come si è, proprio come è successo a Pilar che ha rinunciato ad assere regina, perché regina trafitta, per acquisire la dimensione di donna che si realizza con le proprie limitate, perché umane, ma vere potenzialità.