Vado ai concerti dal 1988. Ho cominciato “tardi”, diciassettenne. Il primo è stato Frank Zappa a Firenze. Lo so, non esattamente un inizio soft, ma così è andata. Da allora sarebbe difficile contarli, ma sotto un palco o su una tribuna mi ci sono ritrovato una marea di volte. Spesso come giornalista, in tante occasioni pagando, anche parecchio. Un paio d’anni fa tra giugno e luglio contai qualcosa come 26 concerti in 51 giorni.
Quest’anno ho seguito un po’ per piacere e un po’ per scriverne, qualche data tra Lucca, Pistoia e Firenze. E sono arrivato a questa conclusione: i concerti per me sono diventati una sofferenza. Non ne posso più del comportamento della gente che mi ritrovo attorno. Sono banalità che avrete senz’altro già letto, detto e magari anche scritto: non è possibile ritrovarsi sempre davanti un muro invalicabile di telefonini accesi all’altitudine di due metri e mezzo che ostruiscono completamente la visuale del palco. Non è possibile avere intorno gente che parla, che fa capannelli, che spesso gira addirittura le spalle al palco e si fa i fatti suoi, che diventano vostro malgrado anche i vostri.
L’ultima volta che non ho avuto una discussione a un concerto credo fosse il 1997. L’incantesimo si ruppe a Lerici, al concerto di Ray Charles, quando al tizio accanto a me suonò il cellulare e lui rispose cominciando tranquillamente a chiacchierare, subito prima che gli dicessi di attaccare e che lui – senza attaccare – si allontanasse per continuare la telefonata. Ora, è da quel giorno che me lo chiedo: ma con chi stavi parlando di così importante da smettere di ascoltare dal vivo Ray Charles? E soprattutto: ma cosa diavolo ci facevi seduto accanto a me a quel concerto?
A questo punto mi avrete sicuramente già bollato come vecchio rompicoglioni. Avete ragione, e va benissimo, lo considero un titolo di merito (a parte il vecchio, ma ci sta). Anzi, guardate la mia foto, memorizzatela e cercate di starmi alla larga se ai concerti intendente chiacchierare ad alta voce o filmare ogni canzone. Che poi se no litighiamo e vi tocca picchiarmi e magari poi passate dei guai per avermi mandato all’ospedale. È un rischio che negli ultimi vent’anni hanno già corso in parecchi, anche se finora nessuno (cioè io) si è fatto male. Per fortuna.
Ad ogni modo buttiamo la maschera: tutti abbiamo usato il cellulare ai concerti, tutti abbiamo fatto foto e video, li abbiamo postati su YouTube, e se non li abbiamo fatti noi siamo andati a cercare quelli fatti da qualcun altro per guardarceli. Lo abbiamo fatto tutti, ma forse è venuta l’ora di smettere. Cerco di convincervi con due aneddoti. Qualche anno fa sono stato al teatro Verdi di Firenze a sentire David Byrne. Prima che cominciasse il concerto, con il sipario ancora chiuso, dalle casse uscì questo avviso: “Buonasera a tutti, sono David Byrne. Volevo dirvi che stasera sarà permesso fare riprese audio e video, ma saremmo molto felici se ne faceste a meno, perché vorremmo che ci vedeste con i vostri occhi e non attraverso uno schermo da pochi pollici”. Questo non spazzò via tutti i video, perfino io ne feci uno molto breve quando David mi passò accanto nel finale stile marching band, ma vi assicuro che ridusse molto l’effetto foresta di smartphone. Era già qualcosa. Non siamo nazisti, siamo gente ragionevole se non ci provocano.
Secondo aneddoto per convincervi. Poco più di un anno fa sono stato al concerto di Bob Dylan al Mandela Forum di Firenze. Quella sera era vietato l’uso dei telefoni. Non solo per fare riprese o foto, ma anche per chiamare, mandare messaggi, controllare Facebook o fare qualsiasi altra cosa. Andava tenuto in tasca, punto. Non è certo la prima volta che sento avvisi del genere, ma è la prima volta che li vedo far rispettare a un concerto rock da 6-7.000 persone. Qualcosa di simile mi era successo a un live di Elio e le Storie Tese, ma in un ambiente più contenuto. Nonostante che alla fine qualche ripresa su YouTube sia finita, quel giorno il servizio di sicurezza fece un lavoro capillare e straordinario: chiunque maneggiasse il telefonino veniva illuminato con una luce, e se insisteva, sconsigliato di continuare, a voce. I pochi che ne facevano una questione di principio e avevano rimostranze da fare (mentre Dylan stava cantando, che so, Simple twist of fate quelli perdevano tempo a discutere sull’inesistente diritto costituzionale di usare il telefono), venivano gentilmente invitati fuori, gli veniva spiegata la policy della serata, e tornavano al loro posto finalmente convinti. Tutto questo con enorme professionalità: personalmente non ho visto gesti bruschi da parte della sicurezza, ma un atteggiamento risoluto e cortese, che ha funzionato benissimo. Alla fine della serata non avevo fatto nemmeno un secondo di video e avevo avuto un’illuminazione: godere della musica ai concerti si può, anche nel 2018, anche senza avere davanti i King Crimson o Keith Jarrett, che si sa benissimo che ti tagliano le mani se li fotografi, e che contano su un pubblico militarmente addestrato negli anni. Si può essere liberati dall’obbligo morale (?) di testimoniare la nostra presenza, e liberati dal subire gli altri che lo fanno, dandoci fastidio. Quegli addetti della security non erano aguzzini inflessibili come qualcuno li dipinse il giorno dopo sui social, erano i nostri liberatori, anche se sul momento non tutti se ne accorgevano. Ci avevano liberato dalla schiavitù di raccontare sempre dove siamo e cosa facciamo, per dire: io c’ero. Il responsabile della sicurezza palco di quel concerto l’ho conosciuto dopo, si chiama Silvano Martini, ed è lo storico uomo-security del Pistoia Blues, oltre che di mille altre manifestazioni e di tanti locali toscani ed appassionatissimo di musica. Per scrivere questo articolo l’ho contattato e gli ho chiesto: Silvano, ma allora si può fare? Si può impedire alla gente di usare gli smartphone anche a un concerto rock di medie dimensioni? La sua risposta è stata una specie di “ni”: “Ai concerti con il pubblico a sedere – mi ha detto – certamente è possibile farlo, anche se bisogna essere bravi e non è facile. Ai concerti di quella dimensione con il pubblico in piedi è più complicato: puoi controllare quelli delle prime file, ma è impossibile raggiungere qualcuno in mezzo alla platea e dirgli di abbassare il telefono. L’unico modo sarebbe impedire l’introduzione degli smartphone nell’area, ma per motivi evidenti è impraticabile. Purtroppo è soprattutto un problema di cultura: all’estero non c’è questa fissazione di riprendere tutto, di dimostrare che si è in un posto con un video, il pubblico ha un comportamento più civile”.
Ok, allora cerchiamo un compromesso. Cominciamo dai concerti con il pubblico a sedere. Amici organizzatori, insegnate ai vostri clienti che chi ha pagato il biglietto e si trova accanto o dietro a loro va rispettato, quindi impedite l’uso selvaggio degli smartphone. Delle chiacchiere ad alta voce è perfino inutile parlare, mi sembra uno spreco di byte.
Poi passiamo al lato cultura e civiltà. E qui parlo a voi che vi sentite in dovere di fare video sempre e comunque. Non posso mandarvi a casa David Byrne a spiegarvelo, ma fate come se vi avesse appena suonato il campanello: gli artisti, quelli per cui siete lì, vorrebbero che seguiste in concerto con i vostri occhi, non attraverso uno schermino Lcd. Se insistete, alla fine qualcuno fa come ha fatto Dylan, che qualche mese fa ha smesso di cantare e ha detto al pubblico: “Mettiamoci d’accordo: se volete ascoltare, ci rimettiamo a suonare. Se volete fare fotografie ci mettiamo in posa”. Poi naturalmente ci sono quelli come i Thirty Seconds to Mars, che ho visto a Pistoia, per i quali il concerto è una grande festa in cui tutti si filmano, dall’inizio alla fine, un’orgia di selfie incrociati che quel tipo di pubblico, e quella band, mettono al centro dei propri interessi. Liberi di farlo.
La faccenda alla fine sta tutta qui: cosa ci fate ai concerti? Vi interessa ascoltare oppure siete lì solo per dire: “Hey, ero all’ultimo tour di Elton John”? Sì, avete parlato di fatti vostri per tutto il tempo, ma c’eravate. Come le due signore che avevo davanti a Lucca e a cui, dopo cinque minuti di aggiornamenti sulle loro vicende familiari, ho detto: “Scusate, mi dispiace passare per un rompiscatole, ma vorrei sentire il concerto” e da cui mi sono sentito rispondere in tono vagamente stizzito: “Ah, non credevamo di dare così tanto fastidio!”. Ho paura di ascoltare la risposta alla mia domanda, perché un bel po’ di voi non ci tiene affatto ad ascoltare. E badate bene: sono una persona molto social, anche troppo, e se dimentico a casa lo smartphone mi vengono le convulsioni. Non ho nessuna intenzione di scrivere un libro sul tema “Mettete via quel cellulare”, insomma, è solo che vorrei ascoltare e vedere lo spettacolo per cui ho pagato (o di cui devo scrivere).
Alla fine quello che mi toccherà fare, e che certamente mi state, silenziosamente e comprensibilmente, invitando a fare già dalla terza riga di questo pezzo, sarà smettere di andare ai concerti. Per non farmi il sangue cattivo. Per non litigare. Per non costringere qualcuno a passare dei guai dopo avermi gonfiato di botte. Non vorrei mai crearvi problemi di questo tipo. Quindi smetterò di andare ai concerti, vi lascerò di scorrazzare liberi nel grande set, come un esercito di documentaristi non richiesti.
Prima che io smetta, però, guardatevi le spalle, perché continuerò a rompervi i coglioni, vi chiederò di abbassare il telefono proprio quando state filmando il refrain dell’unica canzone che conoscete, vi rivenderò i token non validi del giorno prima, dirò alla sicurezza che avete il tappino della bottiglietta nascosto in tasca, bagnerò con l’acqua la maniglia del gabinetto chimico per lasciarvi nel dubbio, tossirò come se non ci fosse un domani quando mi passerete davanti con tre boccali di birra in mano. E soprattutto vi farò un grande, infinito, ssssshhhhhhhhhhhhhhhhhhh.
Non sarà una rivoluzione, e nemmeno un pranzo di gala, ma almeno vi insegnerò a usare le posate.