Si stavano avvicinando le vacanze invernali, momento di pausa dal lavoro e tempo per viaggiare. Non avevo deciso dove andare e l’idea, ancora una volta, me l’ha suggerita un libro: Dio d'acqua. Incontri con Ogotemmêli, dell’antropologo francese Marcel Griaule (1898-1956).
Parto, con un gruppo di amici, per il Mali curiosa di incontrare i Dogon che i vicini Peul chiamano habè, “infedeli” rispetto all’Islam. Il loro mondo e il loro pensiero li fece conoscere a Griaule il vecchio cacciatore e guaritore cieco di Ogol Basso, Ogotemmeli, in una serie di colloqui svoltisi in trentatré giorni nel 1946.
Griaule ha dedicato, nell’allora Sudan Francese ora repubblica del Mali, insieme ad un'altra antropologa francese Germaine Dieterlen, quindici anni della sua vita allo studio di questa particolare popolazione da “una cosmologia e metafisica insospettate”.
La prima tappa del mio viaggio è stata la capitale Bamako “la riva dei coccodrilli” in lingua bambara. La città, posta in una conca naturale circondata da colline con un importante porto fluviale su Niger che l’attraversa e la divide a metà, ti cattura subito con sua la musica popolare, sempre a manetta e dovunque, e i suoi coloratissimi mercati come il brulicante Grand marché, cuore della città, dove nuovi odori mi assalgono e dove tutto si vende e tutto si può comprare; il Marché N’Golonina, per i manufatti artigianali e il Marché de Fétiche, un po' sinistro ai nostri occhi.
Una visita al Musée National, una ricca collezione di tessuti, arazzi, oggetti funerari, maschere e armi non può mancare, permette di avvicinarsi alla complessa vita artistica del Paese.
Come non si può non lasciarsi sedurre dai gustosissimi cibi maliani - fra questi ricordo gli spiedini di ottimo pesce del Niger - che le donne, sedute dietro fatiscenti tavoli di legno posti per strada, con lentezza ma con abilità cucinano.
Lasciata Bamako ci siamo diretti verso Sangha capitale del Paese Dogon, facendo tappa a Ségou dove abbiamo visitato gli ateliers che fanno il bogolan che è un tessuto tradizionale di cotone dipinto con differenti tipi di argilla ed estratti di foglie.
Il giorno seguente siamo ripartiti in direzione della Falesia di Bandiagara, dal 1989 Patrimonio mondiale dell’Unesco. Cinquecento metri di roccia a strapiombo sulla pianura, che terminano in immensi altipiani corrosi dalla pioggia e dal vento. Sulla sommità della falesia, che abbiamo raggiunto con la jeep e dove si trova, oltre che nelle pianure circostanti del Gondo e del Seno, la gran parte dei villaggi Dogon, i più antichi dei quali edificati, a partire dal XIII secolo, sulle preesistenti costruzioni del popolo Tellem Da lì abbiamo iniziato i sei giorni di trekking che ci hanno portato alla scoperta del Paese Dogon che è una federazione di villaggi retti da un hogon, capo elettivo e costituiti da clan di famiglie patrilineari con residui di istituzioni matriarcali e della sua popolazione.
I Dogon vengono considerati, fra le popolazioni africane, quella di maggiore interesse etnologico. Sono rimasti, per lo più, animisti, come ricordano i numerosi feticci fallici incontrati nella brousse. La leggenda narra che gli antenati dei Dogon, i Nommo (quattro coppie di gemelli), metà uomini e metà pesci, siano arrivati dalle stelle a bordo di un’arca circolare, atterrata provocando molto fragore e una tempesta di sabbia; tanto che alcuni studiosi hanno persino formulato ipotesi extraterrestri. In realtà il gruppo etnico deriverebbe dai Garamanti, antico popolo di origine mediterranea.
I Nommo per i Dogon sono presenti in ogni forma d'acqua e nei raggi del sole e hanno fornito l'uomo della parola, dell'arte di forgiare i metalli e di tessere.
Secondo Marcel Griaule e Germaine Dieterlen, da oltre 500 anni questo popolo sarebbe stato al corrente che la stella Sirio (Sigi tolo "stella del Sighi o Sigui") ha una stella compagna (Pō tolo o "stella del fonio"), che orbita attorno ad essa e che è stata osservata nel 1862, quando l'ottico americano Alvan Graham Clark la individuò mentre provava un nuovo telescopio, e nota come Sirio B. Sempre gli stessi autori hanno riferito di avere riscontrato nei Dogon conoscenze relative agli anelli di Saturno e alle lune.
Recentemente, a seguito di ricerche fatte dall’antropologo olandese Walter van Beek, tali conoscenze astronomiche dirette sono state contestate. La spiegazione più probabile che i Dogon siano venuti in contatto con degli astronomi che hanno visitato il Mali nel 1893 per assistere a un’eclisse di sole e da loro abbiano attinto tali informazioni.
Ogni membro di questa popolazione ha quattro nomi: uno proibito, uno corrente, uno che si riferisce alla classe d’età e uno che si riferisce alla madre, così mi ha spiegato un ragazzo dogon, studente alla Sorbona, che è stato il mio “Ogotemmêli”. Mi ha fatto conoscere anche l’importanza del forgeron, cioè il fabbro-scultore, che è una sorta di demiurgo tra il visibile e l'invisibile, tra l'uomo e il divino. È una carica assai ambita e necessita di un adeguato periodo di apprendistato.
Dell’arte dei Dogon ho ammirato le maschere e le statue in legno dai colori rosso, nero e bianco e dai motivi per lo più a spirale e a scacchiera, riferimenti alle storie della loro origine.
Dei villaggi mi ha colpito l’incredibile architettura, le case, le capanne, i granai, affastellati gli uni sugli altri, i pilastri di legno scolpiti, le decorazioni delle porte di legno dei granai, ma soprattutto la loro struttura che, come quella delle abitazioni, rappresenta il corpo umano che giace supino è ha un valore simbolico profondo connesso alle loro credenze religiose.
Il paesaggio sull’altipiano è arido, formato da rocce caotiche dai colori mutevoli; Il percorso per visitare alcuni dei suoi villaggi, per noi impegnativo, per i Dogon sembra proprio che non lo sia. Ho visto uomini dai berretti frigi e vesti color della terra camminare spediti, donne scalze muoversi con agilità con grossi pesi sulla testa.
Nella pianura sottostante all’altopiano, coltivata a miglio, che si offre silenzioso al vento, sorgo e cipolle, ho osservato le donne annaffiare le coltivazioni con l’acqua trasportata in testa con le calabasse. Le pompe messe dai francesi erano rotte e le coltivazioni sarebbero state a rischio se le donne non avessero ripreso l’antica usanza delle zucche.
Verso sera, nell’altipiano si diffondeva un suono scadenzato, generato dalla brillatura del miglio che le donne facevano nel mortaio di legno. Ho provato a farlo anch’io, con fatica e senza molto successo.
A Ireli ho ammirato le sue case in arenaria rosa, i granai con il tetto a cono costruito in paglia di miglio e le piccole grotte antropomorfe scolpite nella roccia, quelle abitate dai Tellem, oggi utilizzate dai Dogon per le sepolture.
Nelle zone più rocciose i granai sono rialzati, poggiano su pilastri e sono costruiti vicino alle case, per impedire al sole di penetrare nei vicoli e tenerli così all’ombra.
A Banani ho potuto vedere gli anziani raccolti, per prendere decisioni, nel togu na, la casa della parola, costruzione costante in tutti i villaggi. Nell’altipiano, fuso nell’ambiente, si nota da lontano e ne rappresenta la “testa”; le case e i granai sono “il tronco” e gli “arti”. È una struttura bassa in modo da evitare, durante le discussioni, scatti d’impeto che procurerebbero capocciate, dal tetto di paglia di miglio e pilastri che spesso vi sono rappresentate coppie con i sessi ben evidenziati, a testimoniare l'importanza della fertilità e della procreazione. Se il Togu na è dedicato agli antenati, i pilastri sono otto (come gli antenati da cui derivano i Dogon). Se invece è dedicato alla fertilità, i pilastri sono sette, poiché questo è il numero della famiglia (tre per l’uomo, quattro per la donna). Nella pianura il togu na è associato all’albero del fico: tutti possono scambiare delle parole alla sua ombra.
A Songho un sentiero ci ha portato alla grotta della circoncisione e dell’iniziazione dei ragazzi sulle cui parete ci sono antiche iscrizioni. Al tramonto il villaggio con la distesa di casette, con le tre moschee in argilla mi è apparso surreale. Mi hanno colpito l’abitazione dell’anziano hogon, i bizzarri feticci della casa di un cacciatore, la zona dei sacrifici, la maison des règles dove sono rinchiuse le donne nel periodo mestruale.
A Amani, dallo stagno con i caimani sacri, abbiamo potuto vedere le maschere che vengono usate esclusivamente per il Sigui Festival; non abbiamo avuto però la fortuna di assistere alla cerimonia che rappresenta la perdita dell’immortalità dell’umanità e che, itinerante di villaggio in villaggio, viene eseguita ogni sessanta anni.
Il nostro viaggio è proseguito con la visita a Mopti, “la Venezia del Mali”, secondo centro più importante del Paese e a Djenné “la città di fango”, Patrimonio mondiale Unesco. Tutte le costruzioni sono state fatte interamente con mattoni di terra cruda, anche la Grande Moschea: la più imponente tra tutti i 1.800 edifici raggiunge i 20 metri di altezza e la struttura a pianta quadrata è di ben 75 metri a lato.
A Djenné siamo anche riusciti a vedere il vivace mercato del lunedì che dal Medioevo fino ad oggi anima la piazza della moschea con una varietà di colori, odori e rumori.
Ripenso al viaggio nel Paese Dogon con emozione, per quello che ho visto, per quello che ho provato nel visitare villaggio per villaggio, nel dormire nelle loro scuole e nel confrontarmi con un popolo pacifico e laborioso che vive al di là del tempo e una grande tristezza mi assale: un altro recente massacro etnico, l’ennesimo, ha insanguinato un villaggio Dogon, dove quasi 100 persone sono state uccise.
Da anni c’è una faida tra i Dogon, agricoltori a maggioranza cristiana, e i Fulani, pastori seminomadi a maggioranza musulmana, accusati di complicità con gli jihadisti.
Posa i tuoi piedi nelle tracce degli antenati.
La tradizione può assottigliarsi ma non sparire.(Da una preghiera Dogon raccolta da G. Dieterlen)