Memoria bianca
La verità ultima sui fiocchi di neve è che diventano individualmente più diversi man mano che scendono. Maltrattati dal vento e dal tempo, vengono tradotti come per magia in disegni più strani e complessi, sino a quando, finalmente, toccano terra. E allora, come noi, si sciolgono.
(Adam Gopnik, Winter: Five Windows on the Season, CBC Massey Lectures, 2011)
L’immagine iconica del fiocco di neve nasce alla fine dell’Ottocento grazie al repertorio fotografico di oltre 5000 cristalli ritratti dallo statunitense Wilson “Snowflake” Bentley. Esattamente come accadde con l’inglese Eadweard Muybridge, grazie al quale nel 1878 si scoprì l’effettivo movimento di un cavallo in corsa, la scoperta della “realtà” grazie alla fotografia non consentì più un passo falso nella rappresentazione del mondo. Ma se Muybridge permise una correzione di errore – i cavalli non appaiono più con le quattro zampe sollevate all’unisono se non, forse, solo in quelli a dondolo per bambini – Bentley contribuì, invece, a un’ulteriore proiezione immaginifica verso quel fenomeno naturale grazie al quale il mondo si silenzia per conservare integra la gemma della successiva genesi. Bentley selezionò unicamente i cristalli più complessi e perfetti e determinò non solo una specifica narrativa della neve – natalizia e non – ma alimentò l’idea che l’esclusività dei fiocchi fosse il riflesso di quella dell’animo umano. All’unicità genetica si aggiunse inoltre quella esperienziale un secolo dopo, quando nel 1988 Nancy Knight scoprì che in partenza due cristalli sono assolutamente identici e «ad alterarli è la loro discesa dalle nuvole sulla terra»(Ibid).
Formazione dell’individualità in una caduta sempre più accelerata, tanto da determinare oramai solo egocentrica separazione dell’uomo dal resto del mondo. Una collisione inevitabile, di un’era geologica definita Antropocene, che potrebbe essere attenuata se non addirittura evitata, grazie a una sensibilizzazione che viene sia dalla giovane generazione spoglia di futuro sia dall’attività di artisti la cui visione a volo d’uccello ci restituisce una permeabilità delle e sulle cose, dandoci ancora la possibilità di scioglierci a terra piuttosto che collidere con essa in uno scontro senza vincitori.
Tra questi artisti vi è di certo Laura Pugno – classe 1975 – che del paesaggio, prevalentemente montano, della veduta e dello sguardo tattile sul mondo, fa il perno della sua produzione. Le sue opere sono continui inviti nel paesaggio, un’analisi di sconfinamento tra soggetto e oggetto, un tentativo senza sosta di offuscare la vista, in modo particolare quella che pone l’uomo al centro del mondo e svelarne il doppio falso, non solo emozionale-soggettivo ma anche culturale-occidentale.
In un ciclo di lavori dal titolo Morphogenesis (uno dedicato a Dürer del 2015 e l’altro a Mantegna del 2017) Pugno indirizza l’attenzione verso una questione apparentemente semplice, ossia i diversi approcci stilistici nella rappresentazione pittorica del paesaggio, che racchiude una critica molto più profonda e di difficile ammissione per chi si è formato con la storia dell’arte italiana, ossia la totale falsità di quelle vedute che si basavano su nozioni matematiche e oggettive.
Ma oggi siamo in caduta libera e le prospettive sul mondo si sono fatte molteplici, sovrapposte e verticali come ben spiega Hito Steyerl in un importante testo del 2011 pubblicato su “e-flux journal”. Ciò che forse all’epoca non era del tutto chiaro, è la questione del controllo del nostro sguardo. Se oggi è evidente che siamo osservati e indirizzati costantemente, da tecnologie online, dall’alto e di fronte ai nostri occhi schermati, nel Rinascimento e sino all’Ottocento la nostra cara prospettiva lineare dominava il mondo a colpi di punti di fuga definiti come reali matematici, dando allora come ora l’illusione della nostra libertà individuale.
«Il punto di fuga dà all’osservatore un corpo e una posizione. […] Mentre potenzia il soggetto posizionandolo al centro della visione, la prospettiva lineare mina anche l’individualità dello spettatore sottoponendola a leggi di rappresentazione apparentemente oggettive» (Hito Steyerl, In Free Fall. A Thought Experiment on Vertical Perspective, in “e-flux journal”, issue 24, April 2011). Ed ecco, quindi, che Pugno decide di intervenire direttamente sulle sue rappresentazioni fotografiche di paesaggio abradendo con la carta vetro quei confini troppo netti che oramai sono stretti, falsi, inopportuni (serie di lavori dal 2012) o si rende consapevole del suo corpo nel contesto naturale in opere realizzate in un ben diverso en plein air da quello dell’Ottocento. Mi riferisco, ad esempio, a Landscape behind you del 2011-2012 in cui l’artista è andata in alta quota a incidere su lastre di plexiglas il paesaggio che vi si specchiava, non solo ponendosi di spalle alla veduta, ma volutamente lasciando un vuoto centrale nel disegno, ossia quello del suo corpo, presenza fisica umana che in questo caso corrisponde ad assenza di una porzione di paesaggio.
L’invisibilità dell’inverno è il significativo titolo di due tappe espositive di Pugno del 2019 (presso SRISA Gallery di Firenze, a cura di Pietro Gaglianò e presso Alberto Peola a Torino) ma è anche la cornice concettuale che racchiude una stagione della sua produzione in cui la passione per la montagna e l’inverno e l’analisi dei cambiamenti climatici causati dall’uomo diviene urgente e più diretta. Voler dare forma e colore a qualcosa di labile come la neve persegue un istinto di conservazione mnemonica di qualcosa che non è solo passeggero perché stagionale ma rischia di vanificarsi per sempre. Le opere in mostra da Peola hanno tutte richiesto da parte dell’artista un essere nel luogo, tra la neve, perché «l'apprezzamento estetico della natura, a livello di foreste e paesaggi, richiede partecipazione incondizionata, immersione e lotta» (Holmes Rolston III, The Aesthetic Experience in Forests, in Allen Carlson and Arnold Berleant, The Aesthetics of Natural Environments, Broadview Press, 2004, p.189).
In Moto per luogo ritorna l’idea dell’abrasione ma questa volta è causata dal corpo stesso di Pugno: dopo aver fotografato diverse località del Piemonte e stampato le immagini su grandi lastre di alluminio, l’artista torna negli stessi luoghi e abrade la fotografia usandola come slittino, memore di certo anche del boom tutto ottocentesco e britannico degli sport invernali nelle Alpi svizzere.
La serie di sculture bianche A futura memoria, poggiate su un fondo cangiante, uniscono all’artificialità della jesmonite (sistema acrilico a base di acqua) la veridicità e l’invisibilità, appunto, della neve. Quello che le sculture mostrano è la parte interna della neve che viene donata alla vista e soprattutto al tatto come residuo archivistico per il futuro, con l’ambizioso tentativo di farne un corposo repertorio, come quello di Bentley a cui Pugno dedica un’altra serie di lavori in mostra, in parte anche realizzati nella sua ultima residenza in Lituania, a Nida Art Colony. In Omaggio a Wilson Bentley vi è, inoltre, un diretto richiamo al processo fotografico; per imprimere l’immagine della neve sulla carta o la tela, Pugno ha dovuto aspettare il tempo naturale dello scioglimento della neve da lei colorata (bianca su carta marrone o blu su tela bianca).
Nelle sue frequenti escursioni in alta quota come nelle sue lunghe residenze al Nord del mondo Pugno sembra aver ben presente il ruolo cruciale che la linea dell’orizzonte ha svolto per secoli nel nostro senso dell’orientamento, come nella concezione del tempo e dello spazio. La stabilità della linea dell’orizzonte «dipende dalla stabilità di un osservatore, che si pensa sia situato su un terreno che può essere immaginato stabile, anche se in realtà non lo è»(Hito Steyerl, In Free Fall. A Thought Experiment on Vertical Perspective, in “e-flux journal”, op. cit.).
Cosa accade, quindi, se l’artista sceglie di rendere consapevole lo spettatore della sua non centralità, della sua totale precarietà forzandolo a guardare una fotografia di un orizzonte in cui neve e cielo si fondono, posta su una parete inclinata a 23 gradi come l’asse terrestre? Si spera in una consapevolezza immediata, perché fisica, che da quella delicata inclinazione dipenda ogni cosa.
Testo di Manuela Pacella