Nel centro storico di Napoli, in un vicolo laterale di fianco alla Basilica di S. Domenico Maggiore, sorge la Cappella Sansevero (o chiesa di Santa Maria della Pietà), tra i più importanti edifici di culto della città partenopea. Venne fondata – secondo la leggenda su un preesistente antico tempio dedicato alla dea Iside – come sacello sepolcrale da Giovanni Francesco Sangro (1590), quindi rinnovata dal figlio Alessandro (1608-13) e infine fatta decorare da Raimondo Di Sangro, principe di Sansevero, eclettico ed erudito mobile settecentesco, appassionato di esoterismo e di alchimia. L'interno della cappella, barocco ed elegante, è molto vivace per la ricchezza di affreschi, marmi colorati, medaglioni e sculture di fattura particolarmente elaborata. Secondo molti studiosi, questa cappella nasconde nei suoi dettagli una complessa simbologia ermetica ed esoterica. Ma anche ciò che si conosce, in realtà, non smette di stupire per le sue implicazioni misteriose.

La volta della Cappella è completamente affrescata con colori che ancora oggi appaiono estremamente vividi nonostante l'assenza di restauri (a parte un intervento pubblico di consolidamento della volta, eseguito alla fine degli anni ‘80). Secondo alcuni scrittori, il principe avrebbe utilizzato dei colori speciali di sua invenzione, detti oloidrici, ideati per restare perennemente vivaci. A corollario di questa ipotesi, si aggiunge il fatto che nel maggio del 1990 ignoti ladri trafugarono un dipinto ovale con l'effigie del Principe, posto tra due putti di gesso accanto all'altare. Nel luglio del 1991 l'opera venne recuperata, e si scoprì che era stata sottoposta a un tentativo clandestino di restauro. Gli artigiani che vi si cimentarono, seppure abili, dovettero però arrendersi al segreto dei colori oloidrici che Raimondo di Sangro portò con sé nella tomba, insieme a molti altri

Tra le numerose statue marmoree presenti all'interno della Cappella, ve ne sono tre molto particolari le quali ancora oggi stupiscono il visitatore per l'estrema finezza di esecuzione e il dettaglio di particolari che le caratterizza. In corrispondenza del pilastro a sinistra dell'altare, si trova la statua della Pudicizia di Antonio Corradini, che rappresenta una donna la cui nudità appare completamente velata. Al pilastro di destra si trova invece il Disinganno di Francesco Queirolo, che riproduce un uomo che si libera da una rete con l'aiuto di un genio. Infine, al centro della navata, si trova la più famosa di tutte le statue, il Cristo velato di Giuseppe Sammartino, che raffigura Gesù disteso e coperto da un sottile velo. Tutte e tre le opere furono commissionate dal principe Raimondo verso la metà del Settecento, e quanto a quel che si dice vennero realizzate seguendo i suoi dettami. Ciò che sorprende di queste opere è la sofisticatezza di esecuzione, che sembrerebbe escludere la loro realizzazione nella maniera tradizionale. I particolari dei veli o della rete che ricoprono i diversi personaggi sono così realistici da far avanzare molti dubbi e ipotesi in proposito. Secondo alcuni studiosi sarebbero state realizzate con un procedimento a impronta sfruttando un processo chimico-fisici stupefacente per quel tempo. In realtà lo spettatore che le osservi da vicino ha l'impressione che il velo, o la rete, circondi effettivamente una statua già scolpita, anziché esserne parte integrante. Alcuni sostengono che i veli siano stati ottenuti cristallizzando una soluzione basica di idrato di calcio o calce spenta. Tuttavia, quest’ultima ipotesi non è ancora stata suffragata da prove esaurienti.

Ciò che ha reso più famoso, e che allo steso tempo ha contribuito maggiormente a dare al principe di Sansevero una fama sinistra, si trova in un locale annesso alla Cappella, a cui si accede scendendo tramite una posta nei pressi dell’uscita del complesso. Si tratta delle celebri Macchine anatomiche: due scheletri umani, uno maschile e uno femminile, rivestiti dell'intera rete venosa e arteriosa riprodotta con dettagli troppo precisi per le conoscenze anatomiche dell'epoca. Fra le molte leggende, più nota narra che le due macchine furono ottenute dal principe immettendo nel circolo sanguigno delle due sventurate vittime uno speciale liquido metallizzante. Se ciò fosse vero, significherebbe naturalmente che le due persone erano ancora vive quando l'esperimento fu effettuato, altrimenti il sangue non avrebbe potuto circolare e diffondersi così ampiamente. Per di più, a ben osservare il corpo della donna, si capisce che era in stato interessante, perché si nota nella zona uterina la forma del feto e ai suoi piedi si possono osservare i resti della placenta. Uno scritto anonimo del tempo dichiara che il processo di metallizzazione dei vasi sanguigni fu scoperto e sperimentato da Raimondo di Sangro con la collaborazione del medico palermitano Giuseppe Salerno.