La ricerca di metodi atti a impedire il concepimento risale ai tempi antichi. Già 4000 anni fa, gli Egiziani impiegavano a fini contraccettivi un tampone vaginale realizzato con mollica di pane impastata con miele di acacia e datteri: probabilmente il grado di acidità di questo rimedio rappresentava un efficace deterrente per la sopravvivenza degli spermatozoi. Con le stesse finalità veniva inserito all'interno della vagina, un intruglio a base di sterco di coccodrillo e miele oppure una poltiglia di fichi e salnitro (nitrato di potassio) o una spugna imbevuta di aceto. Sempre agli Egiziani si deve la creazione dei primi prototipi di “preservativi” ricavati dall'intestino o dalla vescica di alcuni animali oppure da foglie di papiro, opportunamente modellate.
Nel corso dei secoli, sono stati sperimentati un'ampia gamma di soluzioni più o meno funzionali, realizzate con materiali diversi, tra cui stoffe a trama fitta, seta, cuoio e pellami, carta oleata, budelli di maiale, di capra o agnello, ecc... Ma la svolta decisiva è avvenuta con l'utilizzo della gomma, che inizialmente era ricavata dal lattice naturale estratto da un albero di origine brasiliana (Hevea brasiliensis) e soprattutto con l'impiego della “vulcanizzazione” (inventata dal chimico Charles Goodyear), attraverso la quale è stato possibile ottenere un materiale più elastico e resistente, che ha portato, nel 1855, alla commercializzazione del primo profilattico realizzato con questa nuova tecnica. Attualmente si utilizzano materiali sottili, molto resistenti, anche anallergici, che spaziano dal lattice al poliuretano, dal propilene al poliisoprene, dal sensoprene al grafene.
Ritornando al passato, tra i rimedi classici, tanto caldeggiati da Casanova, vi era anche l'impiego di mezzo limone svuotato e inserito all'"interno della donna": una specie di “diaframma” che espletava una funzione sia fisica (barriera) sia chimica (acidità del frutto). Per indebolire la “potenza del liquido seminale” e rallentarne il “movimento”, si ricorreva all'ingestione di pillole artigianali confezionate con mollica di pane, acqua e una miscela di piante essiccate (ridotte in polvere), comprendente Violacciocca (Matthiola incana), Crescione (Nasturtium officinale), Assenzio (Artemisia absinthium), Mirra (Commiphora myrrha) e zolfo. Un altro rimedio viene segnalato sia da Teofrasto che da Plinio il Vecchio: si tratta del famoso Silfio (silphion), una pianta descritta come simile a un grande finocchio selvatico, la cui resina, ricavata dal fusto e dalla radice, era molto ricercata e apprezzata prima dai Greci e poi dai Romani, conquistando i mercati delle principali città mediterranee.
Probabilmente estinta, si trattava di una specie appartenente al genere Ferula, forse assimilabile alla Ferula communis oppure alla Ferula assa-foetida (sinphion siriano) o alla Ferula tingitana, originaria del Nord Africa e Medio Oriente. Tra le sue tante proprietà (digestive, bechiche, antispasmodiche e antipiretiche) sembra emergere anche quella di interferire con i normali processi ormonali, dimostrandosi un potente rimedio ad azione antifecondativa. Tale pianta forse conteneva delle quantità elevate di fitoestrogeni capaci di bloccare l'ovulazione; sulla base di questa specifica funzione interattiva può essere considerata l'antesignana della moderna “pillola” anticoncezionale. Ovviamente a dosaggi elevati poteva provocare vari effetti collaterali, tra cui quello di stimolare fortemente le contrazioni uterine, aumentando il rischio di aborti spontanei. Tra i preparati dell'epoca vi era anche un impiastro ottenuto facendo bollire nell'aceto della polvere di fave e foglie di Aloe (Aloe barbadensis e A. arborescens): veniva spalmato sul basso ventre con lo scopo di interferire negativamente sulla gravidanza.
Non bisogna dimenticare che la conoscenza delle tecniche abortive e l'impiego degli “strumenti del mestiere”, erano appannaggio non solo dei medici ma anche di una moltitudine sconcertante di donne che svolgevano attività di cura e assistenza alle persone; non a caso, le levatrici spesso erano anche erboriste e guaritrici. Ed è proprio in questo variegato tessuto sociale che la demonizzazione della figura femminile, sfociata nella “caccia alle streghe”, ha trovato un terreno fertile, dando libero sfogo a ogni sorta di sopruso, intolleranza e sopraffazione. In nome di una misoginia legata al potere religioso, all'ignoranza e a grette superstizioni, migliaia di donne sono state accusate di praticare la stregoneria e per tale ragione imprigionate, torturate e condannate a essere bruciate vive. Oltre all'accusa di praticare malefici, capitava spesso che venissero incolpate di controllare e gestire le nascite, praticando aborti a proprio piacimento.
Tra i diversi metodi maggiormente in uso per porre fine a una gravidanza vi erano quelli incentrati su azione estreme, come sottoporsi a sforzi intesi, trasportare pesi enormi, immergersi in acqua calda o fredda, saltare con ritmo crescente, percuotersi la pancia o comprimere il ventre con strette fasciature. In alternativa, esistevano mezzi più cruenti in grado di ferire mortalmente il feto con l'ausilio di vari strumenti: tra quelli più in voga vi era il famigerato “ago di bronzo”, ma anche spilloni, ferri da calza, fibbie acuminate, ganci, punteruoli o coltelli di vario tipo. Più sovente si faceva ricorso a bevande, pozioni e lavande interne di origine vegetale.
Le piante ricche di principi attivi in grado di provocare la morte del feto, sono note da secoli e il loro uso, non scevro da pericoli per la donna, si è protratto, spesso in maniera clandestina, fino all'epoca moderna. Molte conoscenze che riguardano le modalità di preparazione, l'impiego e i dosaggi si devono a una tradizione tramandata da una generazione femminile all'altra. Tra le principali piante dotate di proprietà abortive, di cui erano noti anche i gravi effetti collaterali, figurano l'Oleandro (Nerium oelander) e il Prezzemolo (Petroselinum sativum), spesso usati in combinazione sotto forma di decotto (per svolgere una funzione tossica il Prezzemolo deve essere impiegato ad alte concentrazioni). Anche il Ginepro sabino (Juniperus sabina), l'Aristolochia (in particolare Aristolochia rotunda e A. clematitis), la Brionia (Bryonia dioica) e il Tasso (Taxus baccata), sono tristemente noti per gli stessi effetti nocivi.
Però, anche se in passato sono state numerose le morti causate da una somministrazione inappropriata di queste piante, non bisogna dimenticare che alcune di esse, come il Ginepro sabino, si sono rivelate di una certa utilità, soprattutto in campo veterinario per facilitare l’espulsione della placenta in situazioni critiche di parto.
Altri rimedi abortivi, forse meno diffusi, ma altrettanto efficaci e pericolosi, erano ottenuti da infusi e decotti di Pervinca (Vinca major e V. minus), Ruta (Ruta graveolens), Cocomero asinino (Ecballium elaterium), Angelica (Angelica archangelica), Cerfoglio selvatico (Anthriscus sylvestris), Noce moscata (Myristica fragrans), Tanaceto (Tanacetum vulgare), Marrubio (Marrubium vulgare) e Segala cornuta (Claviceps purpurea). Quest’ultimo è un fungo parassita di molte graminacee, in particolare Segale, Grano e Orzo, i cui principi attivi (ergotina, ergotamina, ergotossina) promuovono le contrazioni uterine ed esercitano una potente azione vasocostrittrice (non a caso era chiamato la “polvere dell’utero”).