Nel 1763 il medico Giovanni Targioni Torzetti scrisse il testo De alimenti urgentia, da cui la contrazione dei termini in alimurgia ovvero, secondo il nobile scopo del nostro autore: Alimurgia, o sia, modo di rendere meno gravi le carestie proposto per sollievo dei poveri (era appena terminata la carestia del 1764). Il testo codificò ufficialmente quella branca della fitoterapia, la fitoalimurgia (altra etimologia: phyton-pianta, alimos-che toglie la fame, ergon-lavoro, attività) che si occupa della conoscenza e dell’utilizzo delle piante alimurgiche, cioè delle piante selvatiche e spontanee commestibili.
Ma le vittime principali delle carestie (da carestum, part.pass. di carere cioè mancare), il basso ceto, il popolo meno abbiente, i servi della gleba, i contadini, ancora prima di codificazioni o ufficializzazioni della fitoalimurgia si erano già attrezzati, per secoli, con strategie di sopravvivenza per combattere la figlia indesiderata e temutissima delle carestie: la fame (e la fame è sempre stata compagna della povertà).
Catastrofi naturali, guerre, pestilenze, rivoluzioni, hanno avuto un ruolo nefasto nelle carestie, ma anche fallimentari programmi agricoli (il “Grande balzo in avanti” profetizzato da Mao Tse Tung nel neanche tanto lontano periodo dal 1960 al 1964, costò 30 milioni di morti per fame). Le carestie del 1845-1849 in Irlanda, dovute alla peronospora (phytophthora infestans), che colpisce principalmente la famiglia delle solanacee a cui appartiene la patata, furono disastrose (tanto per comprendere il ruolo alimentare di questo tubero: il consumo medio di patate di un irlandese adulto già durante il 1700 era di 4/5 kg al giorno). Lo stomaco vuoto spingeva ad ingegnarsi per come sostituire la carenza di cibo: il “pane quotidiano” assente veniva sostituito con il “pane delle carestie”, in mancanza del grano si fabbricavano pani fatti con altri cereali, con sfarinati di fave, di castagne (il cosiddetto pane degli alberi). Per una attuale società consumistica che spreca ogni giorno enormi quantità di pane, (ne gettiamo ogni santo giorno per 120 mila euro) un pane fatto di ghiande evoca solo il ribrezzo di bui periodi storici e una indifferenza consumistica nell’ignorare il ruolo sostenuto da un albero generoso e sacro come la quercia.
Il tannino della corteccia era insostituibile per la conciatura del cuoio o per scopi medicinali (le galle davano un tannino più pregiato per la concia delle pelli e per fabbricare l’inchiostro), i giovani rametti teneri venivano masticati e strofinati come spazzolino per l’azione astringente gengivale, la moderna fitoterapia utilizza i germogli in gemmoterapia. Le ghiande erano il nutrimento principale dei maiali, animale utilissimo ed insostituibile per l’economia contadina di un tempo (il compenso della esperienza del magister porcari era pagato in monete d’oro). Le ghiande sottratte o condivise con i suini si prestavano per preparare pani scuri e di lunga conservazione: “Nel libro dal titolo Città e villaggi della Sardegna dell'Ottocento, l’Angius descrive con queste parole questa antica arte: le ghiande, ora venivano messe a bollire in acqua e successivamente cotte in una liscivia (si tratta di una soluzione liquida), ottenuta filtrando l’acqua di cottura attraverso uno strato di argilla, ricca di ferro, e di cenere di vitigno. La cenere serviva a togliere l'aspro e l'amaro del tannino delle ghiande, e l'argilla dava il glutine necessario a legare l'impasto. Secondo altre fonti, l’argilla veniva mescolata insieme alle ghiande con dell’acqua fredda e successivamente versata in un pentolone di rame su caddargiu, che conteneva parte delle ghiande sbucciate, la cottura durava circa sei ore durante le quali si aggiungevano delle ceneri di vitigni per facilitare la cottura. Al termine della cottura si ottenevano due tipi di pane: in un primo tempo le focacce dall’aspetto di torrone nero, chiamato lande destinato agli uomini adulti, e in un secondo momento le focaccine simili a polenta scura, chiamate fitta adatte per gli ammalati, anziani e bambini”.
Fonti storiche riportano di panificazioni ancora più estreme, come il pane utilizzato in Russia nel 1921-22 (le testimonianze dicono che “avesse l’aspetto e l’odore di letame cotto“) composto di foglie di tiglio, betulla, ghiande, terra (!) e acqua.
Da altre testimonianze storiche dal sec. VI, in altri periodi funestati da carestie, anche del pane con semi di uva, fiori di nocciolo, senza dimenticare il pane composto per buona parte di segatura (!) con cui si nutrivano i giovani soldati della Grande guerra (1915-18). Di fronte a queste pagnotte di cosiddetto “pane” non c’è da stupirsi quanto la fame alimentasse (termine oltremodo appropriato) miti popolari come la fantastica esistenza del paese del Bengodi o Porcolandia.
Abbiamo pregiate testimonianze letterarie su queste narrazioni anche nel Decamerone (non a caso ambientato durante la spaventosa pestilenza del 1348-1350), nel dialogo tra due personaggi, Maso che racconta all’ingenuo Calandrino, di luoghi così generosi dove: “si legavano le vigne con le salciccie.. et eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato.. e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve senza avervi entro gocciol d’acqua”.
In questi paesi della cuccagna: “I fagiani corrano in bocca cotti al suono di una tromba, che il ciel mandi per pioggia brodetto di capponi tutto l’anno, che i monti in cambio di neve siano carichi d’inverno tutti di ricotta, che i lastricati sian di lasagne” (Tommaso Garzoni, 1585).
Nel fantasticare questi luoghi di abbondanza e nell’affannosa ricerca del placare la fame, radici, bacche, germogli, piante selvatiche crude e cotte, bulbi, agli selvatici, semi e frutti spontanei, erano ampiamente ricercati e apprezzati, arricchendo così la scarna mensa di emergenza. Depositarie delle tradizioni e delle conoscenze alimurgiche (in un tempo dove l’essere umano era meno estraneo alla natura di quello moderno) erano le donne, abili raccoglitrici ed esperte botaniche, empiriche, ma preziose conoscitrici delle erbe medicinali, dove il contenitore immediato, per la raccolta sul prato e sul campo era un tipico abito muliebre: il grembiule.
Forme forzate di alimurgia le ritroviamo nei caffè autarchici in periodo bellico: bevande succedanee alla Coffea arabica a base di radici di cicoria, fichi secchi, orzo e ghiande - ancora loro - torrefatti (una miscela di questo sano caffè alternativo attuale è nello yannoh).
In attesa della antesignana forma di alimurgia, la provvidenziale e divina…manna dal cielo biblica, le gustose e ineguagliabili insalate (ancor prima di avere il loro posto di rilievo nella gastronomia ufficiale) sono state uno dei migliori esempi, antichi e immediati, di alimurgia. Il termine deriva dal latino insalare, cioè salare. Ruchette, cicorie, valerianelle, foglie di tarassaco, ortiche giovani, lattughe (vi sono raffigurazioni di questa pianta nelle tombe egizie di 3000 anni fa), variegate e tenere rosette basali, costituiscono tutte cibo di completamento per i più poveri e successivamente intermezzo dei luculliani banchetti del ceto ricco, dove l’eccessivo consumo di carne rappresentava lo status symbol del benessere signorile (e fonte di abbondanti acidi urici tali da fornire noti attacchi di gotta).
Nell’alimentazione dell’antica Roma si utilizzavano ben duecento qualità di erbe commestibili, si conoscevano ben dodici qualità di lattughe, ai tempi di Napoleone una classica insalata poteva coinvolgere fino una trentina e più di varietà diverse di vegetali. Nel Rinascimento le insalate hanno un loro ruolo di rilievo, numerosi cuochi pubblicano ricette e consigli sul loro utilizzo. Ricordiamo Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (nome derivato dal suo paese natale, Piadena vicino Cremona) umanista e autore di un vero trattato di gastronomia, De honesta voluptate e valetudine dato alle stampe tra il 1473 e il 1475, dove traduce numerose ricette in latino dalla lingua volgare.
Ecco una ricetta di “misticanze” e aromatiche: “L’insalata mista si prepara con lattuga, lingua di bue, menta, finocchio, prezzemolo, crescione, origano, cerfoglio, cicoria, tarassaco e altre erbe aromatiche, tutte ben lavate, scolate e condite con sale, olio e aceto”.
Non possiamo esimerci di citare il gradevole trattato: Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe, di tutti frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano compilato nel 1614 da Giacomo Castelvetro. “Bisogna lavarle bene, cambiando l’acqua. Poi vanno asciugate con panni di lino, o fatte sgocciolare a fondo nel caso siano state bollite. Si procede quindi a condire con sale, olio in abbondanza e poco aceto o succo di limone, completati da un po’ di pepe”. Inoltre: “Non fare come di tedeschi e altre straniere generazioni le quali, appresso avere un po’ poco l’erbe lavate, in un mucchio le mettono nel piatto e su vi gittano un poco di sale e non molto olio, ma molto aceto, senza mai rivolgerla, non avendo eglino altra mira che di piacere all’occhio: ma noi Italici abbiam più riguardo di piacere a monna bocca”.“Insalata ben salata, poco aceto e ben oliata e chi contro a così giusto comandamento pecca, è degno di non mangiar mai buona insalata”. “Bisogna guardarsi, come tanti stranieri fanno, dal mettere l’aceto prima dell’olio, perché l’erbe di già abbeverate d’aceto, non possono pigliar l’olio; se poi non si mescolano, la maggior parte di quelle si rimangono pura erba, buona da dare a’ paperi”.
Una nota regola per condire una insalata: Un avaro deve pensare all’aceto, un prodigo all’olio, un saggio al sale, un giudizioso al pepe, mentre il compito di rimestare il tutto deve essere affidato a un folle. In questa era di globalizzazione alimentare livellata, con una dolorosa perdita di biodiversità vegetale, potrebbe essere utile la riscoperta di specialità alimurgiche selvatiche (tuttora su 20.000 piante alimentari ne consumiamo solo 300 specie).
Perché l’uso delle piante alimurgiche:
- Distribuzione geografica costante - Facile riconoscimento (ma attenzione alle piante velenose!) e reperibilità - Risparmio energetico. Da Plinio una regola di risparmio energetico più attuale che mai “Tra i prodotti dell’orto piacciono soprattutto le verdure che non richiedono cottura e fanno quindi risparmiare legna, poiché sono un cibo sempre pronto”
- Stagionalità: ci ricordano infatti la giusta e sana ciclicità degli alimenti - Freschezza e genuinità, prodotto biologico (se lontano da fonti di inquinamento diretto)
- Apporto calorico ridotto
- Incremento di fibre naturali (equilibrio e nutrimento del nostro microbioma) - Alto valore nutrizionale dovuto all’abbondanza di fitocomposti benefici: vitamine, oligoelementi, enzimi, clorofilla; riflettiamo sulla ricchezza nutraceutica delle bacche e dei frutti selvatici: olivello spinoso, rosa canina, corniolo, more di rovo, ciliegie selvatiche, fragole di bosco, frutti di gelso, ecc. Ricordiamo che un nutraceutico è un “alimento-farmaco” con principi attivi naturali e con proprietà curative, detto anche farmalimento - Alimento nutraceutico depurativo e disintossicante, vedi le cure depurative primaverili con rinomate piante officinali (tarassaco, carciofo, cicoria. ecc.), consumate cotte o crude, drenanti le tossine
- Legame con le tradizioni alimentari locali, recupero e conservazione delle tradizioni erboristiche popolari, contadine e di cultura gastronomica tradizionale. Nella Dieta Mediterranea (alimentazione tradita ormai da un italiano su due), patrimonio della umanità dell’Unesco, il suo ideatore Ancel Keys valorizzò anche la presenza di oltre cento piante officinali da utilizzare a tavola
- Incremento della biodiversità alimentare, come la rivalutazione della frutta secca (nocciole-mandorle-noci-pinoli) e delle numerose specie dimenticate spesso per logiche commerciali - Contatto con la natura, con invito ad osservare le piante attorno a noi: spontanee, selvatiche, casuali, stagionali e stimolo alla consapevolezza sull’indispensabile presenza delle piante per la vita sul pianeta
- Considerazione delle piante selvatiche come ricettacolo delle forze cosmiche, le piante come antenne ricettive delle forze dell’universo: vedi le segnature planetarie dell’alchimia vegetale (spagiria) - Utilizzo alimentare dei fiori: floriterapia alimentare e vibrazionale
- Rivalutazione delle piante aromatiche spontanee e coltivate, le nostre spezie mediterranee: timo, rosmarino, salvia, santoreggia, alloro, agli selvatici, issopo, ginepro, mente, finocchio, ecc.
A noi uomini occidentali vergognosamente spreconi, che mangiamo con l’ansia e la compulsione da carestia, questi vegetali spontanei riescano ancora a donare quel verde (da cui verdura), quel viridis, quella forza vitale, quella vis medicatrix naturae, che vada ad alimentare il legame indissolubile con madre natura e la nostra riconoscenza al mondo vegetale.
Fonti e riferimenti
Storia delle carestie. Ed. Il Mulino
Insalate nella storia di Renzo Pellati
Ritorno alle radici. Ed. Aboca