Nell’autunno del 2006 avevo ventidue anni. Facevo il mobiliere part time per il mobilificio Pelega. In realtà lavoravo otto ore. Solo il contratto era a part time. Quasi tutto il mio lavoro era in nero. Fare il mobiliere poteva diventare molto pesante. Eravamo in due: io e il tizio che lavorava per il mobilificio da ormai quindici anni. Quel tizio era in gamba. Si chiamava Enrico. Era un abile montatore, e conosceva tutte le strategie migliori per caricarsi un mobile pesante e portarlo a braccia su per le scale. Fumava una sigaretta dietro l’altra, e parlava poco. A me piaceva che parlasse poco. I clienti lo trovavano sgarbato. Spesso gli chiedevano di non fumare. Più che altro per ripicca. Lui rispondeva di sì, e continuava. Sul volto di molti clienti si leggeva il pentimento per avere comprato i mobili da Pelega. Poi, a lavoro finito, i mobili e le stanze erano ancora più belli e perfetti di quando erano in esposizione. Enrico tagliava, levigava e adattava ogni cosa alle misure e alla forma delle stanze. Avrebbe potuto rendere accogliente una cabina del telefono.
Il mobilificio era enorme. Una sontuosa costruzione in vetro, come un autosalone. E invece delle auto, erano esposte intere stanze di case immaginarie. Le esposizioni dei mobili andavano cambiate spesso. Almeno una volta al mese. Così, appena finito di montare l’ultimo mobile dell’ultima stanza esposta, ripartivamo dall’inizio per smontare la prima stanza e montarne una nuova. Montavamo cucine intere, camere intere, salotti interi. Arredavamo le case per intero. Oppure ci toccavano i traslochi. Al mattino montavamo per i clienti; al pomeriggio, per il mobilificio.
Era uno schifo spezza schiena da sei euro l’ora. Lavoravo dalle otto alle cinque, tutti i giorni compreso il sabato. Vivevo in un orrendo monolocale buio e infestato dalle formiche. Non c’era modo di eliminarle. Quando trovavo una colonia e la facevo fuori, ne spuntava subito un’altra. Giravano sul piano della cucina, le avevo nel letto, nei mobiletti del bagno e nella doccia. Il monolocale aveva una sola finestra che dava sulla statale. Avevo un tavolo con quattro sedie di plastica, il letto e un vecchio armadio senza ante. Pagavo 350 euro di affitto al mese. Avevo una vecchia Fiat Brava del 96, a GPL. Cigolava come un carillon, e i finestrini non si abbassavano. Ma il motore era indistruttibile, e funzionava a meraviglia.
Avevo cominciato il corso di primo soccorso alla Croce Rossa. Facevo i turni di notte, come apprendista volontario. Spesso stavo al centralino. Stare al centralino non era divertente. Non uscivi con gli equipaggi. Prendevi solo le chiamate, compilavi il dispaccio che la centrale operativa ti comunicava, e dicevi all’equipaggio dove andare. Poi te ne restavi da solo, in tutta la sede. Era una noia. Qualche personaggio piacevole c’era, alla Croce Rossa. Non tanti, ma qualcuno c’era. C’era Filippo, che stava sempre zitto ma al biliardino era una spada. Vinceva, sempre. Ti lasciava credere di avere qualche speranza, e sul 9 a 9 ti infilava il goal. Non te ne accorgevi neanche. E c’era Marianna, che era sui trentotto quarant’anni, e se li portava come dieci meno. Era un’insegnante di fitness e una ex ballerina professionista. Aveva gran classe. Elegante nei movimenti e forte e decisa nei modi. Sapeva scherzare. Infilava un doppio senso in ogni cosa.
Una notte in cui gli equipaggi erano fuori, si era infilata nel mio letto. Ero al buio, l’avevo scambiata per un’altra. L’abbiamo fatto nella stanza del centralino. Quindi avevo cambiato i turni di notte. Cercavo di tenere le distanze. E per un paio di settimane ero riuscito a non vederla né sentirla. Poi, una sera poco prima di Natale, mi aveva scritto un sms. Aveva un bisogno disperato. Non riusciva più ad aprire l’armadio. Il mondo è pieno di mobilieri, avevo risposto. Ti do 250 euro, aveva detto. Cazzo, ho accettato.
Il quartiere in cui viveva Marianna era inavvicinabile, per i comuni mortali. Ogni via d’accesso aveva una di quelle poderose sbarre automatiche. Le ville più piccole si potevano vedere dalla strada. E ogni volta che passavo lì davanti pensavo che le cucce dei loro cani potevano essere più grandi di casa mia. Sono arrivato alle 22. E la sbarra poderosa si è alzata per me. Ho percorso la via principale del quartiere, sfilando con la mia Fiat Brava del 96. Le cucce dei cani erano più grandi di casa mia. I giardini sembravano campi da golf. La casa di Marianna era l’ultima. Oltre il suo cancello, c’era un lago con la barca a remi. La villa era tutta una vetrata. Due piani di castello di cristallo. Mi sentivo come Indiana Jones.
Ho aperto la porta d’ingresso principale e mi sono ritrovato in un salone buio. “Permesso”? Ho detto. “Marianna”? Il soffitto era puntellato di piccoli faretti che si sono accesi, appena. Una luce fioca. E Marianna è apparsa dal lato opposto del salone. Non la vedevo bene. Stava fumando. E sentivo il rumore dei tacchi echeggiare dal marmo del pavimento. Non aveva niente addosso, ad eccezione del microscopico perizoma nero, i tacchi, e la canna che teneva in mano. “Ciao”, ha detto. Poi si è avvicinata e mi ha infilato la canna tra le labbra. Si è seduta su una poltrona bianca, grande quando il mio letto. “Dov’è l’armadio”? Ho detto.
“Vuoi già andare in camera da letto”? Ha risposto, sorridendo.
“Voglio sistemare l’armadio. E voglio 250 euro”.
“Siediti sul divano, finisci di fumare, e andiamo. Vuoi una birra”?
Cazzo, era una visione. Facevo il duro, più che altro per me stesso. La sua pelle era più levigata del pavimento, dei vetri. Aveva una luce negli occhi che sarebbe bastata ad arrapare cinquanta uomini. Dovevo parlarle male, rivolgermi male. Dovevo difendermi. E l’erba che stavo fumando era da impazzire. Buona, profumata, scendeva nei polmoni più pura dell’aria. E saliva al cervello dolce come una ninnananna. I ricchi, ho pensato, case belle, macchinoni, laghi privati, e le droghe migliori. Si è alzata per andare a prendere la birra. Ho comandato al cervello di chiudere gli occhi. Troppo tardi. Troppo lento. Ho guardato quel culo camminare fino a sparire oltre una porta. Era fatta. Ero fatto.
Il posacenere sul comodino alla mia destra era colmo di cicche. Canne, più che altro. Qui non si rovinano con le sigarette. Ero ancora incantato a fissare il posacenere. Stavo pensando alle canne, al laghetto, alla poderosa sbarra. Le immagini erano nitide, non si mischiavano. Che erba strepitosa. Marianna è tornata, con la birra. Si è seduta alla mia sinistra. Ha fatto il gesto di appoggiare la birra sul comodino ed era sopra di me. Mi ha preso la testa tra le mani e ha affondato la sua lingua dentro la mia bocca come fosse un coltello nella carne. Niente camera da letto, niente armadio. L’abbiamo fatto due volte, sul divano. Non ho idea di quanto tempo fosse passato. Mi sono addormentato lì.
Il mattino dopo la birra era intatta sul comodino. “Ora è meglio che tu te ne vada”, ha detto. “Mio marito torna oggi pomeriggio”.
“E che cosa fa, tuo marito”? Ho risposto.
“Torna oggi pomeriggio. Sloggia”.
Non voleva dirmelo.
Sono salito in macchina. Qualcosa nella tasca posteriore dei pantaloni mi dava fastidio. Ho ficcato la mano in tasca. Era un rotolino di banconote.