Nella “perla dell’Oriente”, all’ombra dei grattacieli dove si decidono alcune delle sorti finanziarie dell’intero pianeta, si gioca (anche) a calcio. A Hong Kong la tradizione del “football”, approdata insieme ai coloni britannici, sopperisce ai miliardi – di abitanti e di monte ingaggi - della “madrepatria” cinese e oggi i “rossi” della nazionale locale sognano una storica qualificazione alla Coppa d’Asia del 2019.
Era il 12 febbraio 1886 quando per volontà di Sir James Haldane Stewart Lockhart venne fondato l’Hong Kong Football Club, la squadra più antica della città, e una tra le più antiche non solo del continente asiatico, ma di tutto il mondo, tanto da essere membro, insieme ad altre 15 compagini, le più vecchie dei propri paesi, del “Club dei Pionieri”. Oggi gli antesignani del calcio a Hong Kong sono una polisportiva che annovera ben tredici discipline, tra cui badminton, squash, hockey su prato e anche triathlon, tutte accomunate dalla sigla HKFC, presente su tutte le divise, indipendentemente dal proprio sport di pertinenza. I “padroni” originali del marchio giocano nella “serie B” locale, la First Division, dopo essere retrocessi la scorsa stagione, e si contendono il primato con una neopromossa dalla terza serie, il Mutual, che altro non è che la filiale locale del club olandese dello Sparta Rotterdam.
In un pomeriggio d’autunno (ma a ottobre le temperature a Hong Kong raggiungono tranquillamente i 30 gradi) non più di una trentina di tifosi assistono alla vittoria per 1-0 sul Sun Hei. Perciò laddove non arriva il colpo d’occhio sugli spalti, colpiscono il visitatore occidentale altri dettagli di colore. In primis la location dello stadio, inserito all’interno dell’ippodromo di Happy Valley, per la gioia dei più incalliti scommettitori (ma gli eventi non si sovrappongono quasi mai) e la netta distinzione fra le rose delle due squadre in campo: forte della sua eredità britannica l’HKFC schiera interamente giocatori “occidentali”, mentre gli arancioni del Sun Hei sono tutti locali e cedono un buon numero di kg e cm ai loro avversari, fatto che risulterà poi decisivo nel neutralizzare gli ultimi disperati attacchi, portati con palloni alti e profondi, facile preda dei centrali difensivi dell’ HKFC.
A Hong Kong la stagione sportiva, a differenza di quella cinese che si avvia alla conclusione, segue l’andamento europeo, quindi i campionati sono solo all’inizio. Il massimo dell’attenzione lo catalizza la nazionale A, impegnata nei match decisivi per la qualificazione alla Coppa d’Asia del 2019. Forte di una storia longeva – fondata nel 1914, l’Hong Football Association batte in anzianità le più titolate Giappone (1921), Cina (1924) e Corea del Sud (1933) – i maggiori fasti la nazionale dei “Dragoni rossi” li ha raggiunti a metà del secolo scorso, quando, con Hong Kong ancora colonia britannica, ottenne il terzo posto alla Coppa d’Asia del 1956, da paese ospitante, e il quarto nell’edizione del 1964 disputata nello Stato d’Israele. In seguito ci fu spazio ancora per un quinto posto nel 1968 in Iran prima di un lungo blackout.
Da allora a oggi mai nessuna qualificazione alla fase finale del massimo torneo asiatico, ma solo una notte di gloria. Quella del 19 maggio 1985, quando i rossi di Hong Kong gelarono i 70 mila dello Stadio dei Lavoratori di Pechino, infliggendo alla Cina un’inaspettata sconfitta per 2-1, che li estromise dai giochi per la qualificazione ai Mondiali di Messico 1986. Oggi, inseriti nel girone B insieme a Nord Corea, Libano e Malesia, i Dragoni guidati dal ct sudcoreano Kim Pan Gon, vedono per la prima volta la possibilità di accedere al massimo torneo del continente asiatico.
Girando per le strade affollate della New York asiatica a fatica si immagina di vedere broker e manager dismettere giacca e cravatta per indossare la sciarpa e la maglia rossa della nazionale, ma la sera del 10 ottobre scorso per la partita contro la Malesia l’Hong Kong Central Stadium ha fatto registrare un’affluenza record di 11 mila persone (la media spettatori delle partite della Premier League non supera le mille presenze). Quasi tutti erano vestiti di rosso, ma quasi nessuno aveva indosso una sciarpa. A Hong Kong si fa di necessità virtù e per trovare sollievo dall’umidità senza rinunciare ai propri colori, per tifare al posto delle sciarpe si usano gli asciugamani. Non è (ancora) trend, ma verosimilmente lo diverrà in caso di qualificazione: vuoi perché la fase finale della Coppa d’Asia si disputerà negli Emirati Arabi Uniti o vuoi per la scritta “FIGHT FOR HONG KONG”, che stuzzica soprattutto i tifosi più giovani.
Anche in occasione della partita con la Malesia, prima del fischio d’inizio gli ultras locali (quasi tutti adolescenti sotto i vent’anni) ignorando gli appelli dello speaker, hanno fischiato come in passato la “Marcia dei Volontari”, l’inno cinese che viene suonato prima del fischio d’inizio per la nazionale di Hong Kong. Siccome l’“incidente” si ripete piuttosto spesso, ora la Federcalcio di Hong Kong, che aveva già pagato delle multe per questo comportamento dei suoi tifosi, cerca di far pendere l’ago della bilancia dalla propria parte, agitando davanti ai suoi tifosi la minaccia che la nazionale venga punita con una penalizzazione in classifica, che potrebbe significare l’addio ai sogni di gloria.
Per continuare a coltivarli, invece, i Dragoni, secondi con 5 punti nel loro girone, dovranno strappare un punto nelle ultime due partite. La prima li vedrà impegnati in casa a novembre contro il Libano (primo con 10 punti), mentre la seconda sarà la delicata e decisiva trasferta in Corea del Nord (terza con 2 punti) nel mese di marzo del prossimo anno. Lì a Pyongyang, nello stadio più grande del mondo, i rumorosi “Hong Kong boys” difficilmente troveranno posto. Ci proverà sul campo la nazionale, che nell’incontro con la Malesia ha schierato un undici formato da sette nativi e quattro stranieri naturalizzati. Il capitano è il ventisettenne portiere Yapp Hung Fai, il beniamino dei tifosi invece è il numero 22, l’inglese di nascita Jaimes McKee. Nipote di un ex giocatore del Birmingham, è cresciuto a Dubai prima di arrivare a Hong Kong con i suoi genitori all’età di dieci anni. Era il 1997 e mentre il piccolo James tirava i primi calci al pallone nelle giovanili dell’HKFC, Gran Bretagna e Cina si accordavano sul passaggio di proprietà della ex-colonia, ceduta a Pechino, ma con ampie autonomie, all’insegna del motto “1 paese 2 sistemi”.
Oggi Mc Kee ha trent’anni ed è un’ala vecchio stile: grinta, polmoni, numero 22 sulle spalle e la chioma bionda in testa con cui corre da una parte all’altra del campo, acclamato dai tifosi che lo incitano sempre e solo per nome, Jaimes: “Per le partite della nazionale ho i capelli dritti fin da prima di uscire dal tunnel degli spogliatoi. Sinceramente, non mi aspetto mai l’accoglienza del pubblico, ma è un’emozione incredibile. Mi gasa e mi spinge a dare ancora di più. Io ce la metto sempre tutta e puoi stare sicuro che dopo una partita di Hong Kong sono a pezzi, non riesco a muovermi” - ha detto dopo la partita con la Malesia, in cui ha segnato il gol del definitivo 2-0.
Ora, anche grazie a lui Hong Kong è a un passo da poter riscrivere un’altra pagina di storia, questa volta calcistica. Il motto viene quasi da sé: “un paese, due nazionali” alla prossima Coppa d’Asia.