Prakriti e digiuno
La nostra costituzione biotipica di nascita (prakriti) definisce i confini del nostro digiuno. Ogni confine delineato può essere superato, ma conoscendo un metodo. Possiamo definire i tre giorni di digiuno completo un limite sicuro per tutte le costituzioni e in particolar modo per pitta e vata, ad eccezione di kapha che può arrivare fino a cinque giorni. Questa chiaramente non è una regola assoluta perché esistono costituzioni miste e condizioni dove i dosha squilibrati possono alterare la nostra prakriti. Se non esistono condizioni di squilibrio estremo dei dosha (dove è consigliabile non digiunare o eseguire semidigiuni o depurazioni a frutta, a verdure o monopiatti tipo kichari, o a solo riso) il limite dei tre giorni può essere considerato il periodo ottimale.
Digiuni prolungati ad oltranza al motto stoico di “interromperò- solo-quando-la lingua-sarà-pulita-e-rosa-come-quella-di-un-bambino” sono consigliati solo per situazioni patologiche e dovrebbero essere seguiti attentamente da un terapeuta esperto e/o in cliniche naturopatiche specializzate. Per non squilibrare i dosha è consigliabile eseguire digiuni brevi e ripetuti; eventualmente quando abbiamo acquisito più esperienza e conoscenza delle nostre condizioni energetiche, impostare un digiuno più prolungato condotto da persone qualificate, in un ambiente adatto. La conoscenza della nostra costituzione dovrebbe essere il punto di partenza per addentrarci in questa esperienza.
Pitta: il fuoco del pitta se non viene nutrito costantemente comincerà a “innervosire” i soggetti di questa costituzione. Per intenderci, nella vita quotidiana, quando vedete qualcuno che comincia ad essere a disagio chiedendo “Ma non è ora di pranzo?” “Non è il caso di mangiare qualcosa?” e impazientemente cerca di organizzarsi per apparecchiare o addentare qualunque derrata alimentare, siate certi che avete di fronte un pitta affamato; è la costituzione che “soffre” di più nel digiunare. La prakriti pitta dovrebbe evitare di vivere il digiuno come una competizione, atteggiamento frequente in queste tipologie.
Vata: è la costituzione soggetta a subire i danni maggiori di un digiuno troppo prolungato, comincerà a “smaterializzarsi”, a perdere il contatto con il piano corporeo. Generalmente i soggetti di questa costituzione hanno strutture fisiche molto asciutte, con poche riserve, ma la ripercussione più evidente, tale da poterli squilibrare anche in maniera incisiva, sarà sul piano mentale.
Kapha: la sua struttura, fornita di ampie riserve corporee e la sua stabilità psicofisica, lo aiuteranno a sopportare il digiuno. Digiunare sarà un utile sostegno per asciugare il suo “umido” costituzionale.
Digiuno e tossine
Dovremmo analizzare attentamente il nostro eventuale livello di intossicazione, le capacità reattive degli organi emuntori (deputati all’espulsione dei cataboliti) e la potenza di Agni (il fuoco metabolico) cioè la capacità metabolica. In altri termini: siamo metabolizzatori veloci, lenti o misti?
L’ayurveda considera come fonte di intossicazione del corpo e della mente la presenza di ama, cioè tutte le sostanze non “digerite” (letteralmente "rimaste crude") dal metabolismo fisico, emozionale, mentale che vengono così rimosse dall’azione purificante del digiuno. L’utilizzo di asana e tecniche respiratorie dell’hatha yoga stimola l’azione purificante e rigenerante del prana che sostituisce lo spazio occupato da ama. Organismi intossicati richiedono fasi preparatorie adeguate e fasi di completamento post digiuno accuratamente eseguite per proseguire la depurazione-eliminazione delle tossine circolanti.
Lo yoga e il digiuno
La regola corrente dello yogi è “riempi lo stomaco metà di cibo, un quarto di liquidi e quello che rimane… di aria” (cioè niente, lasciandolo vuoto). Questa è una semplice applicazione di restrizione calorica o digiuno mitigato diluito nel tempo; un simile suggerimento salutista ricorda “alzati da tavola con ancora una sensazione di fame” ossia mangia un pochino meno prima della sensazione di pienezza. O la saggia modalità: “mangia se hai fame non mangiare se non hai fame”.
Percepire ancora la presenza del pasto precedente attraverso gonfiore, pesantezza gastrica, assenza di appetito e obbligarsi a mangiare, è una forzatura innaturale del sano istinto dell’organismo (può essere utile eventualmente assumere una infusione di rizoma di zenzero o aspettare per il prossimo pasto). Digiunare secondo lo yoga è seguire modalità che non alterino Agni (il fuoco metabolico).
Ruolo importante durante il digiuno hanno le tecniche di purificazione dello yoga (shat karma), corpus di conoscenze che rappresentano il vero cuore dell’hatha yoga, che modulano profondi processi di purificazione e ringiovanimento, permettendo un'azione di rimozione delle tossine in tutti i distretti corporei (prime vie respiratorie, apparato gastrico e intestinale). Sono una sorta di idroterapia interna che completa il processo del digiuno, attivando, inoltre, uno sblocco psicosomatico su importanti punti di somatizzazione (naso, gola, stomaco, diaframma, intestini). Alcune di queste tecniche, in particolar modo quella definita shankprakshalana, favoriscono la pulizia intestinale, importante norma per la buona riuscita di un processo di purificazione o di un digiuno.
Il digiuno può anche trasformarsi in una potente via di tapas e di preparazione verso vie elevate di ascetismo come è testimoniato dall’esperienza di Baba Lokenath, grande yogi della tradizione himalayana:
Durante questo periodo di 35 anni Baba e Benimadhav osservarono una pratica di digiuno denominata Nakthabrata. In sanscrito Naktha significa notte. L’osservanza di questo voto richiede il digiuno durante il giorno; si possono consumare cibi leggeri la notte. Quando Guru Bhagawan riscontrò che Lokenath e Bemimadhav avevano raggiunto la padronanza del Nakthabrata, introdusse la pratica dell’Ekantara. Ekantara è digiunare per due giorni e mangiare del cibo leggero la seconda notte. Dopo l’Ekantara introdusse il Triratri, che comporta digiunare per tre giorni e mangiare la terza notte. La pratica successiva fu il Panchaha, digiunare per cinque giorni e mangiare del cibo la quinta notte. Questo voto fu seguito dal Navaratri, che consiste nel digiunare per nove giorni consecutivi e consumare cibo la nona notte. Dopo aver completato il voto di Navaratri, Lokenath e Benimadhav iniziarono il Dwadashah, che richiede un digiuno di dodici giorni e si rompe il digiuno la dodicesima notte. Questo voto del Dwadashah venne praticato per un lungo periodo e con il successo di questo voto si qualificarono per il voto successivo di Pakshah, che consiste nel digiunare per quindici giorni e mangiare del cibo la quindicesima notte. Entrambi i brahmachari compirono con successo questo difficile voto, qualificandosi così per quello più arduo, il Masabrata, che è il digiuno di un mese… Ciascuno di questi voti venne eseguito per lunghi periodi, per un totale di trenta o quarant’anni. Per quanto possa sembrare incredibile per la mente scientifica moderna, il corpo umano può effettivamente sopportare tali austerità, in quanto esiste una lunga tradizione di tecniche yoga che permise ai giovani brahmachari di eseguire pratiche così difficili.
Tratto da Una vita di uno yogi dell’himalaya di Baba Lokenath, Laris editrice.