L’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio è un fatto inaspettato, ma non una novità assoluta, poiché già nel Conclave del 2005 l’arcivescovo di Buenos Aires era stato la più votata alternativa “riformatrice” a Joseph Ratzinger. Eppure, la sua scelta è interpretata dalla stampa di tutto il mondo come il segnale di una forte discontinuità: la premessa di importanti cambiamenti all’interno della Chiesa universale e soprattutto della Curia romana.

Sicuramente la sua elezione rappresenta la sconfitta del “partito romano” o “curiale”, sostenuto da Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, e da Tarcisio Bertone, Segretario di Stato Vaticano, che puntavano su Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo del Brasile. Ma rappresenta anche la sconfitta dei candidati italiani, a cominciare dal superfavorito Angelo Scola, arcivescovo di Milano, la cui mancata elezione conferma il vecchio adagio che “chi entra Papa in Conclave ne esce cardinale”. Pur estraneo alla Curia, non gli ha giovato il fatto di essere italiano; è stato percepito come troppo vicino al governo vaticano, che negli otto anni del pontificato di Benedetto XVI è stato al centro di molte critiche, alimentando la speranza in un cambiamento radicale. Il fatto che sia stato infine eletto un cardinale italo-argentino può essere considerato, con pari ragioni, o un segno della previdente sapienza dello Spirito Santo o il risultato di un compromesso geopolitico tra le due anime più importanti del Conclave: l’euro-occidentale, che guarda a Roma, e la latinoamericana, espressione di una Chiesa di frontiera, in grado di ascoltare la sofferenza del Sud del mondo e di rilanciare l’opera di evangelizzazione.

Esiste un legame simbolico tra il “gran rifiuto” di Ratzinger e lo schermirsi di Bergoglio nel Conclave di otto anni fa, quando con la tipica ritrosia gesuitica dinanzi a cariche e onorificenze, fece alla fine convergere i voti riformatori proprio sul prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, probabilmente per evitare soluzioni ancora più conservatrici. Al Papa dimissionario di oggi succede chi con il suo passo indietro di ieri ne favorì l’ascesa; lo sconfitto Ratzinger cede il posto alla sua storica alternativa, a colui che lo aveva fatto vincere rinunciando a vincere. Capiremo nei prossimi mesi se la somma di due rinunce può condurre a una sintesi affermativa e soprattutto se Papa Francesco sarà in grado di operare davvero il rinnovamento delle gerarchie vaticane, facendo pulizia in una Chiesa lacerata dai veleni e dalle lotte di potere, dalle faide e dalle conseguenze negative di scottanti dossier: da quelli legati allo scandalo pedofilia a quelli riconducibili a Vatileaks e alla gestione dello Ior.

I segni della discontinuità sono però innegabili e riassumibili nei tre più vistosi: la provenienza geografica del nuovo Pontefice, la sua appartenenza gesuitica e il nome Francesco da lui scelto. Quanto al primo aspetto, è la prima elezione di un Papa latinoamericano, e ciò ha un significato geopolitico enorme, perché indica la consapevolezza della Chiesa che quella tra Nord e Sud del mondo è la contrapposizione decisiva del terzo millennio; essa subentra a quella tra Est e Ovest, ancora centrale all’epoca dell’elezione di Karol Wojtyla nel 1978, quando nel mondo diviso in blocchi l’elezione del Papa polacco non solo rappresentò l’evento premonitore della nascita di Solidarność e dell’ascesa di Lech Walesa, ma anche della successiva disgregazione dell’impero sovietico.

L’America Latina è una terra di frontiera, dove i cattolici sono più di cinquecento milioni (il 39 per cento della popolazione), ma dove soprattutto si combatte una battaglia decisiva: quella contro la penetrazione delle sette neoprotestanti, soprattutto pentecostali, che stanno spingendo migliaia di fedeli ad abbandonare la Chiesa di Roma. La ri-evangelizzazione anti-settaria del continente latinoamericano (quello che un tempo era chiamato il “continente della speranza”) è la sfida più grande che attende Papa Francesco. Il suo essere argentino può aiutarlo, ma anche ostacolarlo, se si considerano i suoi difficili rapporti con Cristina Kirchner, dovuti soprattutto alla ferma opposizione dell’arcivescovo Bergoglio alla legge argentina sulle unioni omosessuali, ma anche le immediate reazioni suscitate dalla sua elezione tra le “Abuelas de Plaza de Mayo”, che protestano contro le presunte complicità della Chiesa argentina con la dittatura militare di Videla alla fine degli anni Settanta.

Il punto è delicatissimo: vi sono giornalisti e attivisti per i diritti umani come Horacio Verbitsky (autore de L’isola del silenzio, Fandango, 2007) che non hanno dubbi riguardo alla responsabilità, diretta o indiretta, di Bergoglio nella drammatica vicenda del sequestro dei figli dei prigionieri desaparecidos e nella consegna ai torturatori argentini di due preti gesuiti (don Orlando Yorio e don Francisco Jallics), “colpevoli” di educare e sfamare i poveri nelle favelas di Buenos Aires e per questo ritenuti vicini alla Teologia della liberazione e alla guerriglia. Lo stesso Bergoglio, del resto, ha chiesto pubblicamente scusa a nome della Chiesa argentina, poiché essa non si sarebbe opposta con sufficiente determinazione alla dittatura e ne sarebbe stata troppo spesso complice silenziosa. D’altro canto, personalità come Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace, negano ogni complicità del nuovo Papa con la dittatura militare, mentre il brasiliano Leonardo Boff, tra i fondatori della Teologia della liberazione, vede in Francesco il Papa dei poveri e degli ultimi e lo saluta come “la primavera dopo il duro inverno”. Altri ancora, in Argentina, lo considerano un “conservatore popolare”, tipico esponente della destra peronista e alternativa conservatrice ai governi progressisti latinoamericani. Su questo terreno, in attesa di parole chiarificatrici da parte del Pontefice, si giocherà la sua credibilità agli occhi di un continente fondamentale per il futuro della Chiesa di Roma.

Quanto al secondo aspetto – il suo essere gesuita – si tratta di una novità altrettanto importante: la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio da Loyola nel 1543, ha una storia complessa e contraddittoria, fatta di voti speciali di obbedienza al Papa circa missiones, ma anche di rapporti conflittuali con la Santa Sede, sino al punto di essere stata soppressa da Clemente XIV nel 1773. Riabilitati negli anni della Restaurazione, i gesuiti sono stati a fianco del papato contro la minaccia laicista degli Stati liberali ottocenteschi. Nel Novecento, alcuni tra i teologi più importanti del Vaticano II sono stati gesuiti, mentre nell’età postconciliare il conflitto con le gerarchie vaticane si riaprì a causa di padre Pedro Arrupe, preposito generale dal 1965 al 1981, il quale si diede come compito quella di realizzare lo spirito autentico del Vaticano II, inaugurando il dialogo con la Teologia della liberazione e con il marxismo e mostrando disponibilità al coinvolgimento nei movimenti di liberazione latinoamericani. Commissariati da Giovanni Paolo II nel 1981, i gesuiti entrarono in conflitto anche con Benedetto XVI, finché nel 2008 elessero preposito generale il moderato Adolfo Nicolàs. I gesuiti sono specializzati nell’evangelizzazione, nelle “missioni” e nell’educazione, vantando una fortissima propensione culturale e una spiccata spiritualità.

Bergoglio è sempre stato distante dalla Teologia della liberazione e negli anni del commissariamento operò per spostare la Compagnia su posizioni conservatrici, in piena sintonia con Giovanni Paolo II, di cui per molti aspetti può essere considerato l’erede spirituale. Anche su questo terreno si tratterà di capire come Papa Francesco intenda vivere l’eredità e lo spirito gesuitici: se tenterà un recupero delle istanze sociali radicali avanzate da Arrupe, o se invece, come appare più probabile, vivrà lo spirito missionario e la difesa dei poveri soltanto in chiave caritatevole e non politica, ricucendo così la lacerazione tra la Compagnia di Gesù e la Santa Sede.

Per quanto riguarda il terzo aspetto, è stato da tutti sottolineato come Francesco non sia soltanto un nome, ma un programma: quello di una Chiesa povera e vicina agli ultimi, lontana dagli arcana imperii vaticani e aperta al mondo, in cui deve ritornare a camminare. I segni e i gesti del cambiamento sono stati in questo caso molto eloquenti, sin dal momento in cui Francesco è apparso sulla loggia di Piazza San Pietro, indossando solo la talare bianca senza la tipica mozzetta rossa, e si è rivolto agli astanti con parole semplici e familiari, non appellandosi mai “Papa”, ma soltanto “vescovo di Roma”, mai “padre” ma “fratello”, evocando così non la Chiesa dei “sovrani pontefici” e del vicario di Cristo; non la Chiesa gerarchica, ma una Chiesa come comunità ecclesiale e comunione dei fedeli: la Chiesa delle diocesi e della collegialità episcopale. Ha colpito molto anche l’invito rivolto ai fedeli a invocare la benedizione di Dio per il Papa, e dunque il nesso tra la Chiesa e il “popolo di Dio”, tra il popolo e il suo “pastore”, all’insegna della fratellanza, della pace e della misericordia. Parole incisive e semplici, cui hanno fatto seguito atti altrettanto naturali, ma in qualche modo rivoluzionari, come l’aver voluto pagare l’albergo in cui aveva soggiornato o l’aver rifiutato la berlina d’ordinanza. Gesti che confermano lo stile di vita sobrio cui l’arcivescovo Bergoglio era abituato anche nella sua Buenos Aires, dove abitava da solo in un normale appartamento e non nei palazzi vescovili, e dove si muoveva utilizzando i mezzi pubblici.

Se ricomponiamo le tessere del mosaico sin qui delineato, ne scaturisce la figura di un Papa conservatore in dottrina, ma potenzialmente rivoluzionario nella ridefinizione degli equilibri di potere all’interno della Curia romana; un Papa umile, ma determinato, in grado forse di riprendere quel processo riformatore che Benedetto XVI è stato costretto a interrompere troppo presto; un Pontefice che avrà forse il coraggio di riaprire anche il tema dell’eredità del Concilio Vaticano II, ben oltre i limiti cui si era arrestato il suo predecessore. Un Papa carismatico e popolare, forse meno angustiato dalla dittatura del relativismo e più impegnato nell’opera di evangelizzazione e di dialogo interreligioso e interculturale; meno preoccupato di questioni teologiche e dogmatiche e più attento alle miserie e alle ingiustizie prodotte dal neoliberismo.

Testo di Furio Ferraresi