Compie lo Spirito la fusione, il Padre la consumazione, il Figlio è la tintura che fa l’oro e lo trasfigura.
(Angelo Silesius, Il pellegrino cherubico, I, 246)
Chi onora Maria sua Madre fino a sottomettersi a lei e obbedirle in tutto, diventerà presto molto ricco, perché accumula tesori ogni giorno, per mezzo del segreto di questa pietra filosofale.
(San Luigi di Montfort, Trattato della vera devozione alla Vergine [capitolo 156])
Possiamo trovare inaspettatamente allusioni e riscontri di quel sapere filosofico-sperimentale naturale che fu chiamato alchimia, e che si fondava su di una tradizione vissuta di esperienze sapienziali, che si richiamavano alle Sacre Scritture, anche in tempi ormai vicini alla modernità e nei scritti di pensatori e figure insospettabili dal punto di vista alchemico.
Ho raccolto quattro tracce che mi sembrano utili a dimostrare come il sapere alchemico fosse considerato una delle spontanee espressioni di un sapere cristiano che era ritenuto derivare dalla grazia e dalla redenzione di Cristo: negli scritti di Girolamo Savonarola, Angelus Silesius, San Luigi di Montfort, San Giovanni Bosco, fino alla controversa personalità di Maria Valtorta. Nella sua opera La semplicità della vita cristiana (Ares, Milano, 1996) il fervente e ascetico domenicano Girolamo Savonarola utilizza più volte quale metafora del cammino di crescita spirituale dell’anima immagini tratte dalle simbologie metalliche. Il concetto di trasformazione e purificazione dei metalli diventa così specchio della conversione interiore, del passaggio dal piombo del peccato all’oro dell’amore mistico. Gli stessi quattro elementi della Natura (terra, aria, acqua, fuoco) vengono citati quali metafore dei tipi morali principali sula via della purificazione cristiana. La via cristiana a Dio è illustrata con le similitudini della “riduzione ad essenza”, a semplicità pura e assoluta, lessico proprio anche del linguaggio alchemico.
Analogamente e ancor più esplicitamente il mistico seicentesco Angelus Silesius (tanto amato da Junger), cattolico ortodosso ma non lontano dalla teologia negativa e paradossale di un Meister Eckart, riprende e rilancia la grande tradizione del misticismo cristiano in una serie affascinante di aforismi ascetici e contemplativi nella sua stupenda opera Il pellegrino cherubico. Qui l’autore paragona la liquefazione mistica del cuore al crogiuolo metallurgico e cita espressamente la Pietra filosofale e il lavoro dell’alchimista quale dinamiche assai simili alla sublimazione e alla trasfigurazione dell’anima che tende a Dio. L’autore usa la conoscenza dell’esperienza alchemica in senso dialettico/imitativo a scopo di visualizzazione ascetica, ora ironizzando, “Perché batti il metallo? Nella pietra angolare (cioè Gesù) soltanto c’è salute, oro, e tutte le arti” (Il pellegrino cherubico, I,87, si veda anche III, 119) ora con profondo rispetto: “Pietra filosofale è l’amore: oro da fango separa, del nulla fa il qualcosa e mi trasforma in Dio” (Il pellegrino cherubico, I,244).
La stessa autorivelazione dell’immensità e profondità di Dio si manifesta in modi e forme che l’autore esprime con acutezza e somma sensibilità proprio usando termini e immagini tratte dall’immaginario e dal sapere alchemico, che mostra così di padroneggiare con disinvoltura. “(Il pellegrino cherubico) Silesius recupera la medioevale fede cristiana nella concordanza fra macrocosmo e microcosmo, entrambi opera di Dio: “Che Dio sia uno e trino, te lo mostra ogni erba dove in uno si vedono sale mercurio e zolfo”(Il pellegrino cherubico, I,257). Il concetto quindi “alchimia cristiana” e di “alchimia spirituale” non è un interpretazione postuma, deviante, ideologica, ma è radicata nella storia dell’alchimia quanto nella storia del misticismo cristiano, specie cattolico. Silesius insiste sul parallelismo trasformazione data dalla fede e trasformazione alchemica: “Il saggio crea l’oro, trasforma ferro e pietra, se pianta la virtù e angelici ci rende” (Il pellegrino cherubico, III, 208) e ancora: “Stimo nell’arte alchemica sperimentato maestro chi per amor di Dio trasforma in oro il cuore” (Il pellegrino cherubico, III,120). L’interiorizzazione della Pietra filosofale è canone della stessa alchimia fin dal XII secolo. Silesius semplicemente ha il merito di una forma più poetica e sintetica: “Uomo discendi in te! Non si può prima cercare la pietra filosofale in paesi stranieri” (Il pellegrino cherubico, III,118).
Un secolo dopo troviamo alcuni importanti accenni perfino nel capolavoro di sapienza mariana che è il Trattato della vera devozione alla Vergine di San Luigi di Montfort, dove l’ispirato autore, che così profondamente influenzò la spiritualità di Giovanni Paolo II, paragona l’opera di semplificazione e facilitazione che la Madre di Dio compie nella conversione dei cuori fedeli alla lavorazione degli elementi naturali: “Come vi sono segreti di natura per fare in poco tempo, con poca spesa, e con facilità certe operazioni naturali, così vi sono segreti nell’ordine della grazia”. Qui si sfiora uno degli concetti base dell’arte alchemica, cioè la visione che l’alchimia ha di se stessa quale opera di velocizzazione del lavoro della natura tramite l’evocazione di energie più profonde, ignee, sacralmente corrispondenti, dal lato religioso, al fuoco celeste di Dio.
Passa ancora un secolo e possiamo apprezzare nell’opera di San Giovanni Bosco Storia sacra (S.E.I., Torino, 1954), limpido compendio della Bibbia ad uso educativo dei giovani, un accenno illuminante che ci dimostra come il grande educatore padroneggiasse ancora la medesima “filosofia della natura” al cui interno si era sviluppata otto secoli prima la tradizione alchemica. L’autore commentando la Genesi e risolvendo in anticipo una facile obiezione razionalistica, inserisce una breve spiegazione del fatto di come sia possibile che vi sia stata la luce nell’universo, creatura di Dio, prima della successiva creazione del sole. La Genesi è spesso stata considerata dagli alchimisti emblema del lavoro alchemico che doveva rinnovarne le dinamiche a livello microcosmico. San Giovanni Bosco autorispondendosi ricorda l’esistenza dell’etere, quale sostanza luminosa universale, presente in tutti i corpi e in tutti gli elementi: “Bisogna sapere che nell’aria, ne’ corpi e nelle viscere della terra è sparso un fluido lucido detto etere, il quale, tocco da’ raggi del sole o da una fiamma, diffonde luce. Il fluido lucido fu creato nel primo giorno… ”.
Ebbene l’etere è uno dei aspetti fondamentali dell’alchimia, come ha messo in rilievo un recente ottimo saggio: Divo Sole, la teurgia solare dell’alchimia a cura di Alessandro Boella e Antonella Galli (Mediterranee, Roma, 2011) in cui gli autori evidenziano l’importanza nell’alchimia della luce nelle sue proprietà sottili, ultravisibili, essenziali. L’intima associabilità fra dimensione mistica e dimensione alchemica offre tracce di persistenza quasi fino ai giorni nostri. Nel Poema dell’Uomo Dio, Vol. I, par. 26, di Maria Valtorta, (Edizioni Pisani, 1975) troviamo questo affascinante e sorprendente passo: “Come acqua regia che prova l’oro e bilancia d’orafo che ne pesa i carati, quella pianta, divenuta una 'missione' per comando di Dio rispetto ad essa, ha dato la misura della purezza del metallo d’Adamo e di Eva”.
Queste testimonianze così profonde e preziosamente significative ci portano a tre riflessioni conclusive: 1) l’alchimia era conosciuta dalle élités culturali europee per svariati secoli, e non era quindi un sapere marginale o eccentrico 2) non era avvertita alcuna incongruenza fra cristianesimo e tradizione alchemica 3) gli scambi profondi (semantici, strutturali, lessicali, valoriali) fra il linguaggio mistico e quello alchemico sono una costante per entrambi i linguaggi. Che la Cerca continui!