La medicina antica era sostanzialmente caratterizzata da tre sistemi terapeutici: i pharmaka, il ferro e il fuoco. Se con il termine pharmaka si indicavano tutti i rimedi – dall’empiastro alle bevande e ai cibi con effetto diuretico, lassativo, emetico, ecc. – atti a riportare il corpo all’iniziale stato di salute, col ferro si indicavano gli interventi chirurgici e con il fuoco le cauterizzazioni.
La tradizione antica illustra dettagliatamente la preparazione dei pharmaka: si trattava nella maggior parte dei casi di composti ottenuti mescolando le sostanze medicamentose a un eccipiente che fungeva da base. Gli eccipienti principali erano costituiti dall’olio, dal vino, dall’aceto, e talora anche dall’acqua piovana e dal latte. Tra gli eccipienti un posto di rilievo aveva il vino impiegato sia nella preparazione di empiastri atti a curare le ferite, sia nella realizzazione di bevande o di cibi medicamentosi. Tra i vini più pregiati impiegati sia nel banchetto che in campo medico, la tradizione ricorda il vino Falerno: si trattava del principe dei vini che una leggenda riportava direttamente al dio Dioniso/Bacco. A raccontarla in dettaglio è il poeta Silio Italico (I-II secolo d.C.) che, nella sua opera Le guerre puniche, afferma quanto segue:
“Sebbene debba divagare dal mio grande tema, tuttavia, o Bacco, non posso qui sorvolare sui tuoi benefici. Devo parlare del dio che diede agli uomini la divina bevanda, per la quale le viti cariche di nettare non danno alcun nome che possa essere anteposto ai tini falerni. Il vecchio Falerno, in questo tempo felice nel quale non si conoscevano le spade, lavorava le pendici del monte Massico. Allora i campi erano brulli e nessuna vite protendeva ancora un’ombra verde sui grappoli. Abituati a estinguere la loro sete all’acqua pura di una fonte, gli uomini non sapevano ancora come rendere le loro bevande più gradevoli attraverso il succo di Bacco che libera dagli affanni. Ma quando Bacco si trovò nel corso del suo viaggio sulla costa di Calpe al tramonto, il percorso e l’ora fortunati lo condussero qui come ospite. E il dio non ebbe remore a entrare nella casetta e a porsi sotto il modesto tetto. La porta annerita dal fumo diede il benvenuto all’ospite. Il cibo fu servito di fronte al focolare, come si usava fare in modo semplice a quel tempo. Il padrone di casa, felice, ignorava di avere ospite un dio, ma, come erano soliti fare i suoi antenati, andava di qua e di là con grande zelo sfruttando le forze che la vecchiaia gli aveva lasciato, fino a quando non ebbe preparato il banchetto festoso: la frutta in ceste ben pulite e le primizie ancora umide di rugiada che rapido raccolse nel suo giardino ben irrigato. Poi adornò le appetitose vivande con latte e favi di miele e portò i doni di Cerere su un tavolo che mai sangue aveva macchiato. Da ogni piatto per prima cosa toglieva una parte da dedicare alla dea Vesta, che provvedeva a gettare al centro della fiamma. Contento del servizio offerto dal vecchio uomo, Bacco decise che il suo succo non poteva mancare su quella mensa. Improvvisamente si verificò un miracolo. Per ricompensare il povero uomo della sua ospitalità, le coppe di legno di faggio si riempirono di succo di uva, nel modesto secchio usato per la mungitura cominciò a scorrere vino rosso e il dolce succo ricavato dall’uva profumata riempì i crateri ricavati dal legno di quercia. «Prendi il mio dono», disse Bacco. «Ora ancora non ti è noto ma da ora in poi prenderà il nome dai doni del vignaiolo Falerno». Il dio non si nascose ulteriormente. Perciò l’edera cinse la sua fronte splendente di luce purpurea, le sue chiome si adagiarono sulle spalle, un boccale stava appeso alla sua mano destra e viti nascevano dal suo tirso verde ammantando il tavolo della festa con le foglie di Nisa. O Falerno, non fu facile resistere al piacevole sapore. Dopo che bevesti più volte coppe di vino, la tua lingua balbettante e i tuoi piedi barcollanti risvegliarono l’allegria. E con la testa sconvolta tentasti di ringraziare e pregare il dio della degna ricompensa con parole appena comprensibili, fino a quando il Sonno non si impadronì dei riluttanti occhi, il Sonno portato come tuo compagno, o Bacco. Quando le unghie dei cavalli di Febo dispersero la rugiada di Fetonte, tutto il monte Massico divenne verde ricoperto dai vigneti, ammirato per le viti e i grappoli che brillavano alla luce del sole. La fama delle montagna crebbe e da quel giorno il fertile Tmolo e il nettare di Ariusia e il vino forte di Metimna diedero tutti la precedenza ai tini di Falerno” (Le guerre puniche VII 162-21).
Un prodotto, il Falerno appunto, che con il farro della Campania, il frumento della Puglia e l’olio Venafro faceva dell’Italia tutta un ‘frutteto’ secondo la felice definizione di un noto scrittore come Varrone Reatino (II-I secolo a.C.).
Dello stesso autore:
G. Squillace, I balsami di Afrodite. Medici, malattie e farmaci nel mondo antico, San Sepolcro, Aboca Museum, 2015