Il nostro viaggio, in cammino per i ghiacci dell’Antartide, continua attraverso le esperienze e le competenze dei componenti italiani del PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide), i cui Enti attuatori sono il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) per gli aspetti scientifici e l’ENEA (Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) per l’organizzazione logistica. Un modo per capire il lavoro che si fa in quelle inospitali ed estreme latitudini e il valore che la ricerca laggiù ha nel nostro vivere quotidiano e nei progressi necessari nel rapporto con il nostro pianeta, le potenzialità e i limiti che l’azione umana sta mettendo in forte sofferenza, facendo ormai parlare apertamente di una nuova era geologica che viene indicata come “antropocéne”, ossia il segno che l’umanità sta imprimendo sulla terra!
I dati, gli elementi, la loro analisi sono molteplici e lo studio di quanto accade e dei fenomeni che si generano sovente non semplici o chiaramente intellegibili a un esame sommario. A volte persino gli esperti e gli scienziati devono misurarsi con la variabilità e complessità del sistema che è il pianeta e dell’universo che lo circonda.
Questa volta, la parola va a Luciano Milano. Nato a Ferrara, nel marzo del 1965, è perito elettronico e lavora presso il Servizio di Elettronica del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra della sua città. Un lavoro che lui stesso definisce in questi termini “mi occupo della progettazione e della realizzazione di schede elettroniche e/o apparecchiature complete partendo dal rivelatore e arrivando alla ricezione dei dati su computer, questa strumentazione viene utilizzata nell'ambito di collaborazione tecnico scientifica con differenti gruppi di ricerca operanti principalmente nell’ambito della fisica delle alte energie, della fisica medica, della fisica dei semiconduttori e della fisica ambientale”. A Base Concordia, è attualmente winterover (ossia passa laggiù l’inverno antartico) e opera secondo le sue competenze in qualità di elettronico per la scienza.
Dunque, Luciano, cominciamo subito con la domanda più ovvia, ma devi aiutarci subito a capire il valore e il compito che ti è affidato. Come definisci, al di là del tuo profilo che abbiamo delineato, un elettronico per la scienza?
Si tratta di una persona a cui viene affidata la responsabilità di alcuni esperimenti, quest'anno personalmente ne seguo undici, che pertanto deve operare affinché siano sempre attivi e inviino correttamente i dati in Europa. Inoltre, alcuni di questi, richiedono periodiche calibrazioni e altri periodiche misurazioni che devono essere eseguite manualmente mediante appositi strumenti. Se questi esperimenti fossero installati in un luogo meno ostile di Dome-C, probabilmente funzionerebbero senza problemi, invece, le particolarità ambientali di questo luogo, obbligano l'elettronico per la scienza ad effettuare continui interventi.
Un elettronico per la scienza che cosa fa e che apporto può dare alla ricerca in Antartide. In che modo interagisci con gli altri scienziati e tecnici presenti nella base?
L'attività principale dell'elettronico della scienza è mantenere attivi gli esperimenti che gli sono stati affidati ed eseguire le periodiche calibrazioni e misurazioni, tuttavia non dobbiamo dimenticare in quale luogo ci troviamo, e il fatto che la base è isolata dal resto del pianeta per nove mesi. Questo significa che tutti noi dobbiamo provvedere da soli a qualunque problema tecnico o medico dovesse presentarsi, se si rompe qualcosa non possiamo chiamare l'assistenza, l'assistenza siamo noi… In questi casi tutti portano il loro contributo, elettricista, elettronico, meccanico e idraulico lavorano insieme focalizzati alla soluzione del problema. Personalmente collaboro molto con l'elettricista della base e insieme ripariamo tutto ciò che richiede assistenza tra gli impianti tecnologici, ad esempio le schede elettroniche per l'impianto di riciclaggio dell'acqua, per la caldaia di riscaldamento, oppure riparando strumentazione scientifica non direttamente sotto la mia responsabilità ma che necessita di assistenza.
Pertanto il principale apporto che si può dare alla ricerca in questo luogo è mantenere operativa la base in tutti i suoi aspetti, solo se questa condizione è soddisfatta allora gli esperimenti possono funzionare correttamente. Gli esperimenti installati presso, e in prossimità della base Concordia, sono tutti ben definiti quindi, di norma, non è richiesto un loro miglioramento o evoluzione, almeno per quanto concerne il loro principio di funzionamento. Tuttavia alcuni possono mostrare alcune criticità o vulnerabilità a seguito di blackout imprevisti o alla temperatura alla quale operano, ecco, in questo caso è compito dell'elettronico della scienza proporre suggerimenti ai PI (Principal Investigator) affinché queste vulnerabilità possano venire rimosse e, questo, può essere un altro contributo che si può dare alla ricerca qui in Antartide.
La tua giornata tipo è fatta di impegni e compiti standardizzati, di un piano di operazioni da eseguire, oppure va anche incontro a imprevisti, a necessità improvvise e che richiedono risposte rapide per accompagnare il funzionamento degli apparati e il lavoro degli altri impegnati nella Base e nella campagna di ricerca?
Entrambe le cose… Normalmente la giornata inizia con il controllo degli esperimenti e, se questi mostrano anomalie, allora si deve provvedere a effettuare gli opportuni interventi, alcuni possono essere attuati dalla base mediante il controllo remoto, altri invece richiedono operazioni presso lo shelter (ossia la struttura di protezione) in cui sono installati e pertanto si deve uscire. Inoltre ci sono le periodiche calibrazioni e misurazioni da effettuare, e tutto questo è ancora la normalità. Vi possono essere poi grossi imprevisti che richiedono risposte immediate con qualunque condizione meteo, ad esempio se uno shelter risulta non essere più alimentato, questo significa che si sta raffreddando e che quindi tutta la strumentazione al suo interno sta correndo seri rischi. Si consideri che in poche ore la temperatura di uno shelter può passare dai +5°C ai -40°C e se non si agisce rapidamente può arrivare a raggiungere la temperatura esterna che può essere tranquillamente oltre i -70°C, e questa è una condizione inaccettabile!
Come dicevo prima l'elettronico della scienza non si occupa solamente di seguire i propri esperimenti ma anche di intervenire su problematiche inerenti gli impianti tecnologici della base collaborando con gli altri tecnici, oppure su strumentazione del personale scientifico presente in base che richiede assistenza e quindi, ogni giorno è diverso dal precedente, in effetti sì, bisogna essere flessibili per lavorare in questo luogo, spesso la giornata inizia tranquilla ma col passare delle ore si arriva a dover saltare il pranzo o la cena per lavorare a un imprevisto che va gestito immediatamente.
Ti viene in mente un episodio tipo che possa darci il polso della tua azione, un’emergenza affrontata, il modo in cui agisci in coordinamento con gli altri?
I vari esperimenti sono installati come dicevo in shelter che sono posizionati a varie distanze dalla base tra questi, SuperDarn è il più lontano, circa 1,5 km. È capitato che, una domenica durante la notte polare, mi sono accorto che la temperatura di questo shelter era scesa di alcuni gradi sotto lo zero, mentre deve rimanere a +5°C, pertanto si è reso necessario recarsi sul posto per verificare cosa stava accadendo. La norma è che, per uscire con il buio, bisogna essere sempre in due e in continuo contatto radio con la base. Quindi dovevo trovare qualcuno disposto a uscire con me e qualcuno disposto a rimanere alla radio. Non è stato difficile: Vito si è reso disponibile ad accompagnarmi e Floris di stare alla radio. Così dopo pranzo, Vito e io ci siamo incamminati, la visibilità era scarsa a causa di un po' di vento e la temperatura era circa -75°C. Dovete sapere che con temperature di oltre i -45°C non è possibile utilizzare nessun mezzo di locomozione, ad esempio le motoslitte, non sono progettati per operare a queste temperature limite, così durante l'inverno ci si sposta unicamente... a piedi.
Ma come si fa ad allontanarsi di 1,5 km dalla base nel buio, nel freddo, con scarsa visibilità, e riuscire a raggiungere il luogo desiderato? Utilizzando una sorta di “filo di Arianna”. Tutti gli shelter hanno una linea elettrica che li alimenta, questo cavo è collocato su di una passerella a un metro circa di altezza dalla neve pertanto, seguendo la linea giusta, si arriva infallibilmente dove si desidera. Devo dire che le prime volte fa un po' effetto… Procedere alla cieca, nel bel mezzo del niente in un luogo sconfinato, sapendo che il tuo unico riferimento è quel cavo elettrico che a volte si vede e a volte no a seconda dell'intensità del vento. Perché alla cieca? Perché, nonostante la base sia illuminata, se non è sereno, dopo pochi minuti di cammino voltandosi indietro non la si vede più, così come non si vede nemmeno la destinazione, anche a causa della maschera su cui si forma uno strato di ghiaccio dovuto al respiro e che non ti puoi togliere a causa del freddo. Ad ogni modo, dopo circa quaranta minuti di difficoltoso cammino sulla neve (qui non esistono strade ma sentieri di neve battuta che d'inverno vengono ricoperti da neve fresca) siamo arrivati sul posto, abbiamo provveduto a ripristinare la corretta temperatura dello shelter, ci siamo riscaldati pure noi, e siamo rientrati alla base dopo un'altra suggestiva passeggiata…
Qual è la tua personale impressione e valutazione che dai dal punto di vista professionale, su questa tua esperienza?
Qui svolgo un'attività completamente diversa da quello che effettuo abitualmente presso l'Università di Ferrara, direi complementare. Di norma lavoro alla realizzazione di strumentazione ed esperimenti, qui gestisco esperimenti e strumentazione realizzata da altri. Senz'altro è un'esperienza che mi sta arricchendo professionalmente sia grazie ad aspetti legati alla complementarietà, ma anche dal punto di vista della constatazione diretta di che tipo di tecnologia può essere applicata in ambienti ostili quali abbiamo qui a Dome-C, principalmente a causa delle basse temperature e della bassa pressione atmosferica; quali sono le metodologie per riuscire ad operare in luoghi come questo, e quali sono i limiti dei materiali di cui l'uomo dispone. Faccio qualche esempio tanto per intenderci: la maggior parte dei materiali plastici, a queste temperature diventa fragile come un sottile vetro, i cavi elettrici diventano rigidi a causa dell'irrigidimento del loro isolamento e se si prova a piegarli si spezzano, un comune tubo al neon a queste temperature non funziona! O meglio emette una debole luce rosa per svariati minuti fino a che il gas al suo interno non arriva a scaldarsi (e non sempre ce la fa). Insomma qui bisogna ragionare diversamente e non si può dare per scontato nulla di ciò a cui siamo abituati a latitudini più favorevoli.
In un’esperienza come quella di cui parliamo, in una realtà così particolare, quale impressione ti senti di poter condividere con chi ci legge, sull’aspetto umano di questo lavoro inusuale?
Non nascondo che, al di là dell'aspetto professionale e delle particolarità ambientali di questo luogo, un'altra forte motivazione che mi ha spinto a fare quest'esperienza è stato proprio l'aspetto umano. Da subito mi ha affascinato l'idea di vivere in un ambiente multiculturale per un anno e in isolamento dal resto del pianeta per nove mesi. Essere una piccola comunità indipendente in tutto e per tutto, collocata nel bel mezzo del niente di un continente sconfinato, legati necessariamente gli uni agli altri da un rapporto di interdipendenza reciproca. Siamo indipendenti nella produzione dell'energia, dell'acqua potabile, nella gestione delle possibili emergenze tecniche e mediche, e in tutti gli aspetti legati alla gestione e manutenzione e sicurezza della base. Perché ciò sia possibile è necessario che siano presenti le principali figure professionali: l'elettricista, l'elettronico, l'informatico, il meccanico, il cuoco e un medico chirurgo.
Presso la nostra base sono presenti quattro nazionalità: cinque italiani, cinque francesi, un belga e un olandese, la prima sfida pertanto è comunicare in modo efficiente. Ecco anche questo aspetto è stato per me di stimolo: migliorare le lingue. Noi italiani e l'olandese ce la caviamo sia con il francese che con l'inglese, i francesi e il belga parlano un po' di inglese, quindi quando il francese non ci è sufficiente si passa all'inglese, soprattutto quando si lavora a stretto contatto su aspetti tecnici ed è necessario comprendersi perfettamente. Prima di venire qui ci conoscevamo appena, giusto una settimana di corso presso l'Agenzia Spaziale Europea ma, piano piano, lavorando insieme, abbiamo avuto modo di stimarci reciprocamente, prima dal punto di vista professionale, e successivamente dal punto di vista umano, riuscendo a stabilire un rapporto di amicizia che oserei definire fraterno per la maggior parte di noi. Non potevo sperare di meglio!