L'estate è la stagione del mare e chiunque si tuffi nelle sue acque per lunghe battute di pesca o semplicemente per rinfrescarsi, non può non venire sfiorato, anche solo per un attimo, dal pensiero di incontrare uno squalo, il che, immediatamente, evoca il più ancestrale degli incubi : essere divorato vivo da una creatura che emerge dagli abissi. Ebbene, da subacqueo consumato, gli squali non solo li ho visti ma me li sono proprio andati a cercare nei mari del mondo e ho incrociato i loro occhi con ammirazione e sgomento.
Emergevano dalla caligine verdeblu verso la luce splendente dei coralli a guardarmi per poi sparirvi nuovamente con lenti colpi di coda, oppure mi seguivano sul margine della scogliera corallina che si tuffa nel blu quando non mi accorgevo di loro per sparire nuovamente se mi giravo perché ne avvertivo la presenza.
È da mezzo miliardo di anni che guardano il loro mondo cambiare mentre i loro occhi neri rimandano gli stessi opachi, freddi, bagliori Devoniani. Ne hanno visti di mostri inconcepibili nelle ere passate e hanno o sono stati loro stessi divorati da creature di cui rimane solo qualche frammento pietrificato nella marna o nel bitume. Ma per fortuna gli squali sono ancora qua a fissarci con il loro sguardo antidiluviano e l'enigma che incarnano, sfidando la nostra giovane, effimera baldanza.
La progenie degli squaliformi ha annoverato tra le sue fila una delle creature più incredibili che sia mai esistita: il Megalodon il cui nome significa, appunto, grandi denti. È il nome dato dai paleontologi a uno squalo vissuto circa venti milioni di anni fa di cui ci rimangono soltanto denti giganteschi poiché lo scheletro cartilagineo non subisce il processo di fossilizzazione e si dissolve. Il problema è che paragonando quei denti fossili a quelli identici ma in scala ridotta dell’animale vivente erede diretto, il grande squalo bianco, e ricavando da questo paragone un rapporto dimensionale, si materializza un mostro di 20 metri e del peso di 30 tonnellate con fauci come quelle della morte bianca, solo venti volte più grandi. Mascelle larghe 2 metri e mezzo e alte altrettanto con denti triangolari di quasi 30 centimetri di lato, affilati come rasoi e capaci di esercitare una forza di morso stimata fino a 180 mila newton, vale a dire diciotto tonnellate, per centimetro quadrato.
Dall'abbondanza di denti fossili rinvenuti pare inoltre che un simile mostro fosse assai diffuso. Ma allora, quali immensi branchi di prede potevano mai nutrire tanti simili predatori? Probabilmente degli sterminati banchi di balene stipate come merluzzi che pascolavano in mari di una ricchezza oggi inimmaginabile. Come se in quel mondo di titani la Vita, nella sua massima espressione di forza smisurata, avesse posto nelle mascelle dei suoi campioni, proprio i più formidabili strumenti della sua peggior nemica e al contempo principale alleata: la Morte.