Il Signore mi disse: Che cosa vedi, Amos?
Io risposi: un filo a piombo. Il Signore mi disse:
Ecco sto per porre un filo a piombo all’interno del mio popolo, Israele:
non gli perdonerò più. (…) Egli domandò: Che vedi Amos?
Io risposi: Un canestro di frutta matura.
Il Signore mi disse: È maturata la fine
per il mio popolo Israele, non gli perdonerò più. (…)
(Amos, 7,8; 8,1.2)
Nella Bibbia compare una modalità particolare di “racconto per immagini”, specialmente all’interno delle visioni profetiche di Geremia e di Ezechiele. Basta rileggerle per poter individuare alcuni caratteri di questa forma di narrazione che possiamo collocare a metà strada fra il concetto/fenomeno linguistico di “segno” e quello di “emblema”.
In Geremia specialmente compare un’articolata fenomenologia di immagini particolari che vengono poste all’inizio della comunicazione della visione profetica: il ramo di mandorlo (Ger. 1,11.12), la cintura di lino (Ger.13,1-9), il vaso e il vasaio (Ger. 18, 1.7), la brocca spezzata (Ger. 19, 1.2.11), le due ceste di fichi davanti al Tempio (Ger. 24,1-10), le corde e il giogo (Ger. 27, 1-12; 28, 10-17), l’acquisto di un campo (Ger. 32,6-8.15.43), l’incontro con i Recabiti (Ger.35). Anche in Ezechiele emergono simili visualizzazioni simboliche: la visione contro l’idolatria (Ez. 8, 5.9), la parabola-indovinello dell’aquila e del cedro (Ez. 17), l’immagine della spada del Signore (Ez. 21), le due sorelle (Ez.23), il simbolo della pentola (Ez. 24).
Vediamo di individuare le particolarità, le costanti e i motivi di interesse di questi moduli narrativi per poi accennare all’importanza della dimensione del “segno” nelle Sacre Scritture. Quasi tutti i passi citati presentano questa struttura generale: 1) mi fu rivolta questa parola dal Signore: cosa vedi? 2) risposi: un ramo di mandorlo (o le altre immagini citate) 3. Così agirà il Signore… = segue il racconto di un futuro, ma imminente, comportamento di Dio in rapporto al suo popolo, Israele, o ai nemici di Israele.
Possiamo identificare tre tipologie di “visualizzazioni profetiche”: a) quelle nelle quali si alternano e susseguono due visioni poste in parallelo, quella dell’immagine emblematica iniziale (brocca, aquila e cedro, la pentola, ecc.), certe volte ripresa più volte nel racconto, e quella che descrive il contenuto della profezia b) quelle nelle quali l’immagine iniziale si forma progressivamente in quanto Dio chiede al profeta di compiere un’azione, un gesto, o una “messa in scena” (il posizionare la cintura di lino vicino all’Eufrate, il mettersi il giogo, l’entrare nella stanza del vasaio, l’incontro con i Recabiti, ecc.) c) quelle in cui l’azione che compie il profeta, adempiendo una richiesta da parte di Dio, è un'azione onirico-simbolica, nel senso che avviene all’interno della visione, o, comunque, in uno “stato/luogo” che non è quello dell’ordinaria veglia (lo “sfondare la parete” nella visione di Ez. 8, ma anche: il divorare il rotolo divino in Ez. 2, 8.9 e 3, 1.3).
Perché Dio utilizza queste immagini? Per fare forza alla visione profetica affinché si imprima nella mente del profeta e dei suoi ascoltatori/destinatari? In alcuni casi abbiamo apparenti paradossi, come quando Geremia per adempiere al comando divino gira con un giogo sulle spalle predicando che il volere divino è di stare sottomessi alla nemica Babilonia, in quanto Israele deve compiere i suoi 70 anni di esilio per espiare i suoi peccati. Una profezia che sembra paradossale in quanto si oppone a chi vorrebbe ribellarsi alla tirannia idolatrica di Babilonia proprio per essere più fedeli all’Alleanza con l’unico Dio!
Altre volte l’immagine profetica, che diventa come un emblema morale, un modello pedagogico nel momento in cui viene divinamente rivelata, assume i contorni di una rappresentazione dinamica, vivente come quando il profeta si deve recare nella stanza di un vasaio o come quando deve incontrare il popolo del Recabiti che divengono come un “simbolo vivente” di fedeltà ai padri, e, quindi, a Dio. Secondo ulteriori sfumature ci avviciniamo all’apologo e alla parabola nel caso del racconto delle “due sorelle” dove l’immagine allegorica serve solo a rendere più icastica la narrazione rivelativo-profetica dell’infedeltà di Israele. Sembra quasi che Dio abbia bisogno di “raccontare per immagini”, (e lo fa scegliendo immagini semplici, concrete, nette, evidenti) per educare gli uomini, il profeta prima e poi tutti gli altri israeliti, alla ricezione profonda della Sua stessa profezia tramite il compimento di gesti, l’assimilazione di un modello visivo, in modo che la visione divina si faccia subito azione, movimento, corpo.
Altro discorso è il perché si scelgano certe immagini rispetto ad altre. In alcuni casi il testo sembra riferirsi al conosciuto valore simbolico dell’immagine utilizzata (il mandorlo, che rinvia alla Menorah) mentre in altri casi la scelta resta nel mistero di Dio, oppure è ancora da studiare, possiamo dire! Certo è che la ricchezza linguistica biblica appare immensa e sconfinata: dalla solennità dei fichi posti davanti al Tempio, che richiamano la maturazione spirituale e messianica di Israele a profezie “di rassicurazione”, quasi prosaiche, come quella che utilizza l’immagine dell’acquisto di un campo per rincuorare Israele: “ancora si acquisteranno campi in Isreele!” Questo particolare “modo profetico di raccontare” possiede poi un'altra connotazione particolare: nel momento in cui sono poste queste immagini concrete, all’inizio della visione profetica, esse stesse si trasformano linguisticamente in “tipi” che saranno da modello per l’insegnamento biblico futuro, per la meditazione sulla Scrittura propria di Israele.
Accade quello che magnificamente spiega San Paolo in questo celebre passo: “Non voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare [tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale], tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (1Cor.10).
Viene posto un nuovo fenomeno linguistico-spirituale dato dalla fusione fra typos e tropos, fra figura e prefigurazione, fra “segno” ed “emblema” e in questa nuova via performativa i tempi si condensano come nei fenomeni rituali e iniziatici. L’emblema dopotutto è già una condensazione semantica visualizzata e focalizzante, mentre il segno è un incontro/significazione che appare più concreto e più performativo rispetto al “simbolo”. Il segno è assai importante nella Sacra Scrittura: l’arcobaleno con Noè, la circoncisione con Abramo, il Sabato e la Tenda della Testimonianza con Mosè, il Tempio con Salomone.
È scritto: “Santificate i miei sabati e siano un segno fra me e voi, perché si sappia che sono Io, il Signore vostro Dio” (Ez. 20,20). Il segno è luogo di incontro e di alleanza fra Dio e il suo popolo, fra il Suo Spirito e l’anima umana. Simile al segno: il sigillo. Anche nel Nuovo Testamento il segno è assai importante. Tutto il percorso di Cristo può inscriversi fra due segni: il bambino di Betlemme e la Croce del calvario. Non a caso vengono chiamati segni, semeion, nei Vangeli dell’infanzia e nel Discorso escatologico dei Vangeli quando Gesù allude profeticamente al “segno del Figlio dell’uomo” (cioè la Croce) che comparirà nel cielo alla fine dei tempi.
La rivoluzione cristiana sembra aver realizzato in pieno la dinamica degli “emblemi profetici” di Geremia e di Ezechiele in quanto i pastori di Betlemme incontrano il segno che viene loro annunciato: il divino bambino. In Gesù quindi l’immagine simbolica e profetica si fa corpo e relazione e il segno/simbolo acquista una veridicità semantica piena e centrale colmando lo iato fra semantica e prassi.