"Sempre allegra la ragazza!" Ecco cosa penso di me e di quello che scrivo. E dire che fin da bambina la bellezza e l'allegria abitavano la mia casa. Erano ospiti quotidiane, ed ero io che aprivo loro la porta. E per lungo tempo ho continuato a frequentarle con grande ostinazione. Ancora oggi per la bellezza e l'allegria la mia porta è aperta ma vengono a trovarmi sempre più raramente. Non frequentiamo più le stesse strade. A volte ritornano frammenti, echi, che se ne vanno via velocemente così come sono venuti perché è, per loro e per me, insostenibile quello che accade nella realtà che mi circonda. Come l'ira di mia madre che partiva dalla sua stanza, saliva ai piani superiori, invadeva la città e conquistava territori più vasti, così la passione (passus,part. passato di patire) per la sistematica devastazione dei miei paradisi qui in terra si allarga e si dilata dentro e fuori di me e annienta la mia vocazione alla bellezza e all'allegria.
10 settembre 2015
Devo organizzare l'ultima ripresa del video, quella della ragazza, che dopo l'urlo di Vitaliana imprigionata in una plastica bianca e trasparente come un velo da sposa, entra in scena con l'ombrellone e si distende a prendere il sole sull'isola di plastica. Domani pomeriggio ho appuntamento con Giacomo, (l'operatore video) Natalia e altri amici e così vado in bicicletta alla Chiusa di San Marco per controllare la situazione dell'acqua e della spiaggia. Arrivo a quella che da più di vent'anni è, insieme alla valle, all'acqua marina e alla pineta, la mia casa all'aperto, e come spesso accade la realtà è più crudele dell'immaginazione.
Avevo immaginato un mondo di plastica al limite di un argine verde, rigoglioso, ricco di alberi secolari e di cespugli. Pensavo a un contrasto: ora è così ma può diventare così. Una finzione. Ed eccomi di fronte al deserto: tutta la vegetazione dell'argine destro del fiume Montone rasa al suolo. Chilometri e chilometri di terra nuda. Alberi di età diverse hanno le radici rivolte al cielo e la loro chioma già appassita è giù nel vuoto dell'argine. Mi distendo in mezzo a loro: piedi e gambe rivolti al cielo e testa e braccia giù finché tutto il mio sangue precipiti nel cervello. Sono stati miei compagni in vita e condivido la loro morte. Mi sento di farne parte al punto di essere io stessa albero.
Più volte ho scritto che in bicicletta, lungo l'argine del fiume il mio sguardo abbracciava le vecchie case, i fiori dei fossi, gli alberi, le piante che ospitavano altri esseri viventi e l'acqua che assorbiva il colore del cielo e dei verdi diversi della vegetazione. Le vecchie case vivevano. Da sole. Con i loro volumi protetti dai mattoni, dai "coppi" dei tetti, dai camini, dalle porte e dalle finestre ben disegnate che al solo guardarle mi rallegrava l'animo. Dall'esterno vedevo palpitare gli spazi interni. Le hanno ristrutturate quasi tutte. Sono diventate grigie. Tristi e insieme pretenziose. Mi rimanevano i papaveri che si davano al vento. I meravigliosi cardi mariani, le margheritine, i non ti scordar di me, gli alberi con i loro nidi, e la vegetazione che si rispecchiava nel fiume. Con loro dialogavo. Di fronte a tanta bellezza la mia mente, in un'aria diversa, si allargava sulle terre, volava in alto fino alle stelle sopra le differenti regioni della memoria e guardava le vicende mutevoli delle nuvole e delle altre creature.
Producevo pensieri -lampi di genio- che poi nel pomeriggio in studio cercavo di tradurre. Ora tutto è distrutto e la mia anima se ne è andata insieme al mio corpo. Quello che mi circonda è uno sguardo obliquo, maligno, disposto alla cecità per l'esistente e non mi prevede. Sono rimasta la sola testimone. Sono vent'anni che fotografo le vecchie case, i papaveri, il fiume, gli alberi: le pareti della mia dimora perché so che se ci sono luoghi nei quali mi trovo bene nell'esserci, ecco che mi vengono tolti. E anche oggi fotografo la morte dei miei fratelli nell'indifferenza di chi cammina o corre lungo l'argine ridotto a cimitero. Chissà se sanno che un albero abbattuto è un frammento della nostra vita che se ne va.
Ogni giorno vedo Ravenna distratta da altro, corrompere la propria bellezza. Questa città convive con due realtà che procedono parallele senza mai incontrarsi. Chi percorre la strada che da Ravenna porta a Marina Romea ha alla sua destra la cloaca industriale e alla sua sinistra la pineta millenaria e la valle che ospita gli aironi rosa. E anche qui alla Chiusa di San Marco l'argine sinistro è lussureggiante e l'argine destro completamente devastato. Questi sono solo due esempi.
Potrei continuare, ma oggi piango i miei alberi: "Sembravate Dei scesi dall'Olimpo per farci felici. Affondavate le vostre radici nella terra per ricavarne la maggiore linfa vitale possibile per restituirla al microcosmo che vi circondava. Ora non vivete più accanto alle stelle e la luna d'avorio non culla più la vostra e la mia anima".