A una domanda del genere provarono a rispondere alcuni dei massimi esperti di diritto d'autore, ormai più di 15 anni fa. Nel frattempo, il mondo cambiava vorticosamente attorno a noi: di lì a poco il concetto di opera (originale, derivativa) sarebbe stato completamente stravolto dall'avvento di Internet e della condivisione teoricamente illimitata dei contenuti.
Lawrence Lessig, esperto giuridico in diritto d'autore e docente all'Università di Stanford, nel 2001 si trovava impelagato in un processo che coinvolgeva la Corte Suprema degli Stati Uniti proprio sul tema della proprietà intellettuale. Fu allora che fondò Creative Commons, un'organizzazione no profit che da allora si occupa di stabilire ed eventualmente modificare nel tempo i termini per una corretta condivisione e riuso delle opere d'ingegno destinate all'utilizzo pubblico. Con l'avvento di Internet infatti, la questione sulla proprietà intellettuale si era di fatto polarizzata: c'era chi voleva continuare ad avere un approccio restrittivo rispetto alle opere e quindi mantenere il puro copyright, convinto del sacro diritto a disporre completamente della propria opera d'arte; dall'altra ci si stava rendendo conto che questa stessa impostazione non solo non aiutava la condivisione delle opere, ma era oltremodo fuori dal tempo. Di lì a poco una miriade di contenuti (testo, audio, immagini, video) sarebbe stata rovesciata sulla più grande piattaforma di condivisione esistente al mondo, il Web.
Era il tempo del download selvaggio, dei milioni di utenti che grazie ad alcuni servizi come Emule, Napster, Kazaa, Soulseek e altri aveva cominciato a scaricare e condividere enormi quantità di opere artistiche musicali, cinematografiche, letterarie. Era chiaro che la situazione poteva dirsi illegale: opere coperte da copyright venivano selvaggiamente scaricate, ascoltate, diffuse dagli utenti. Era chiaro altresì, che il "all rights reserved" avrebbe avuto poca fortuna, la Storia moderna della comunicazione digitale avrebbe spazzato via qualsiasi pretesa di governare il diritto d'autore in modalità otto-novecentesca, quando esistevano solo carta e bachelite. D'altra parte, la proliferazione incontrollata del download e della condivisione, non solo si configurava come comportamento illegale, ma metteva in seria difficoltà il creatore dell'opera, detentore del diritto d'autore sull'opera e incapace di monitorare l'andamento e la diffusione della stessa se non con metodi approssimativi e non certo trasparenti.
Creative Commons giunse a regolamentare tutto questo ed ebbe come obiettivo principale quello di uscire dall'illegalità. L'idea era quella di uscire dalla logica dicotomica del copyright e di entrare in quella del copyleft, e cioè nella direzione della salvaguardia dell'open content, del contenuto aperto, il concetto che avrebbe dominato gli anni a venire e sarebbe entrato nella quotidianità di centinaia di milioni di persone: la possibilità della condivisione, della modificabilità collettiva, della produzione collettiva di contenuti, del miglioramento continuo di protocolli e standard in grado di reggere l'avanzata veloce di nuovi sistemi digitali (Internet 2.0, Internet of Things). Creative Commons dunque, era un progetto completamente calato nella realtà web che si stava profilando all'orizzonte.
Ma non si espose ideologicamente, frustrando gli autori e mettendo al centro solo l'abbandono del coyright e non stimolò mai lo scaricamento selvaggio, anzi: espresse la volontà di cambiamento a partire dal maggior responsabile dell'opera, il suo creatore. Creative Commons infatti è un'insieme di licenze che salvaguardano la possibilità per un autore di decidere se e cosa condividere della propria opera, le modalità della condivisione, la possibilità di un riuso, ed eventualmente anche un utilizzo a fini commerciali. Quindi l'autore dell'opera viene rimesso al centro della decisione: al momento dell'uscita sul mercato o sulla "piazza" web, può decidere, sfruttando le CC e non più il copyright, come delimitare, secondo la propria volontà, l'accesso e il riuso della propria "creatura". Una regolamentazione appropriata permette all'autore di diventare il vero decisore sulla propria opera e di conseguenza, abbassando di fatto il livello di illegalità che si veniva a creare ogni volta che si scaricava/riutilizzava un'opera d'ingegno. Il copyright infatti, compiva un'operazione brutale: da un lato fissava in modo drastico a chi appartenesse la proprietà intellettuale e i diritti conseguenti (monetari, soprattutto), dall'altro non riusciva, per i motivi che possiamo immaginare, a rincorrere tutte le nuove forme di comunicazione e condivisione che la Rete Internet aveva sviluppato. A strumento brutale corrispondeva illegalità selvaggia, e le Creative Commons arrivarono per spezzare questo loop. Ma come funzionano? Entriamo nel dettaglio.
Intanto le CC sono un cluster di licenze, non una sola licenza. Perché l'autore può in qualche modo "comporre" la propria licenza, a seconda di parametri che sono l'attribuzione, la commerciabilità, la possibilità di derivare un'opera a partire da quella esistente, e in ultimo, la condivisione. Esistono a tutt'oggi sei tipi di licenze Creative Commons (giunte alla versione 3.0), che vanno dalla più liberale alla più restrittiva, e che quindi possono essere combinate ad hoc a seconda della tipologia di opera e dei piani dell'autore rispetto alla sua diffusione. Per fare solo degli esempi, possiamo trovare licenze che permettono la condivisione, la modifica e anche la commercializzazione dell'opera, altre che permettono qualsiasi intervento sull'opera ma non la commercializzazione, altre che impongono restrizioni sulla modificabilità, altre che impongono a opere derivate da quelle originali di mantenere la stessa licenza, eccetera. In tutti i casi, il passaggio obbligatorio è l'attribuzione (e cioè l'indicazione dell'autore dell'opera originale), mentre può succedere che l'autore di un'opera licenziata CC permetta di usare e condividere la propria opera (a fini commerciali e non) mantenendosi restrittivo sulla possibilità di creazione di opere derivative. Per un elenco completo delle licenze possibili si rimanda al sito ufficiale [1].
Da questo punto di vista il livello di tutela di CC per i propri autori è molto alto, e soprattutto rappresenta uno degli strumenti in grado di farci uscire dalla completa illegalità (e il problema non è morto con la scomparsa di Napster, è di qualche giorno fa la notizia che il servizio di musica streaming Grooveshark è stato chiuso perché i proprietari non si erano accordati con i detentori del diritto d'autore sui pezzi musicali). Le licenze CC hanno avuto e stanno riscuotendo sempre maggior successo e attenzione, e negli ultimi anni alcuni servizi di streaming musica, video, testi e altri siti che producono informazione a vari livelli hanno cominciato a usufruirne. Di certo non si tratta di una rivoluzione su scala mondiale ma una serie di progetti (universitari, industriali, culturali, istituzionali) hanno deciso di sfruttare il servizio, che viene naturalmente monitorato e modificato grazie alla comunità internazionale di esperti che si riconosce nel copyleft e che costruisce e adatta le licenze alle giurisprudenze nazionali che vedono coinvolto il diritto d'autore. Esse sono licenze a tutti gli effetti, e come tali vengono riconosciute legalmente, hanno delle proprie regole che possono essere consultate sia dall'originale che in lettura semplificata per non addetti ai lavori. La comunità CC ha inoltre attivato dei presidi di consulenza e monitoraggio per chiunque, creatore o fruitore di opere dell'ingegno, voglia capire quale sia la licenza che meglio si adatta all'opera e alle intenzioni dell'autore, è il caso del servizio del Politecnico di Torino [2].
Le Creative Commons come frontiera della condivisione regolamentata, come apertura alla creazione di contenuti e di sapere condivisi, nella sfida principale che l'Internet Economy sta già affrontando (vedi i casi NSA, Wikileaks e altri), e che risponde alla domanda: di chi è la mole di informazione che si trova in rete?
[1] http://www.creativecommons.it
[2] http://selili.polito.it