Mentre Astaroth tramontava, il cielo si faceva scuro per Peter: il pianeta che la mamma gli aveva lasciato in eredità sarebbe sparito per dieci anni dalla sua vista, la speranza sarebbe stata lontana dai suoi occhi e dal suo cuore. Peter godette dell’ultimo spicchio di Astaroth come una lucertola gode dell’ultimo sole in una sera d’estate, poi chiuse gli occhi. Sentì il suo cuore farsi triste e forte allo stesso tempo: "Partirò per Astaroth," disse. Aprì gli occhi. L’assalì il pensiero che se non si fosse mosso subito non avrebbe avuto un futuro. "Partirò per Astaroth," ripeté come pronunciando un voto, e corse verso il quartiere commerciale.
Nella vecchia officina arrugginita Peter batté le mani sul tavolo: "Aiutami a costruire un’astronave Nate, ti prego". Nate rise e i suoi baffi biondi vibrarono in modo buffo: "Non si costruiscono astronavi su questo pianeta".
"Ti prego! Tu sei l’unico ancora in grado di farlo."
"Ti costerà caro."
"Pagherò lavorando per te."
"Dovresti lavorare tutta la vita."
"Lavorerò anche di notte!"
Gli occhi di Nate brillarono: "I principi decaduti fanno di tutto al giorno d’oggi. Comincerai domani."
Peter si sporse sul tavolo: "Grazie!"
Quella notte Peter non riuscì a dormire: sognava e immaginava il suo futuro come una confusa, sfumata serie di immagini misteriose e magnifiche. Forse ad Astaroth sarebbe stato un vero principe, o avrebbe trovato se stesso, forse avrebbe avuto una famiglia, oppure degli amici. Finalmente sarebbe tornato al luogo da dove, così gli era stato detto, veniva, ma allo stesso tempo sarebbe partito per l’ignoto, per un mondo da scoprire.
Il giorno dopo Peter lavorò instancabilmente, e solo a notte fonda, quando crollò esausto, si fermò. Così fece anche il giorno dopo ancora, e quello dopo ancora, e via via sempre lo stesso. Ogni tanto Nate lo aiutava a costruire un pezzettino di astronave, e Peter, speranzoso, lavorava. Passò un anno, e Peter era davvero stanco, ma continuò a lavorare.
Passò un altro anno e Peter lavorò instancabilmente. Dopo cinque anni solo un sesto di astronave era costruito, ma quante, quante aspirapolveri terrestri Peter aveva completate e vendute! Il ragazzo, sfiancato e soddisfatto dal lavoro, non aveva tempo di pensare cose del tipo: "Voglio partire per Astaroth! Ora!". Eppure anni prima l’aveva scosso il pensiero che se non si fosse mosso subito non avrebbe avuto un futuro. Ma un futuro l’aveva, perché ogni giorno i tre soli sorgevano, e anche se Astaroth non si vedeva la vita continuava. Lavorando Peter si era fatto degli amici con cui scherzava e si confidava.
Ormai era un esperto in materia di elettrodomestici terrestri, e non gli era più difficile svegliarsi la mattina presto per avvitare bulloni, riparare centrifughe, dipingere lavatrici. Anzi gli faceva piacere rendersi utile a schiere di persone sempre diverse (infatti nessuno riusciva più a fare a meno degli elettrodomestici). Peter aveva imparato ad apprezzare i piccoli piaceri quotidiani: la birra fresca della sera con gli altri operai, l’odore di pioggia nel cortile polveroso, il sole sul balcone la mattina, il profumo di lenzuola pulite.
Gli anni rotolavano pigri, così altri quattro ne passarono. Durante il decimo anno di lavoro Peter non era più un ragazzino, ma un uomo di ventotto anni. Ormai insistere perché un altro pezzo di astronave venisse costruito gli sembrava un capriccio infantile; aveva chiesto invece, con successo, di avere un salario fisso. Con l’esperienza aveva guadagnato del tempo, e ogni giorno poteva prendersi qualche ora di riposo. A volte la sera si sedeva sul muretto davanti le colline. Durante quei lunghi minuti di vuoto fumava una sigaretta e pensava. La vita a volte gli sembrava insensata, certo non da buttar via.
Un giorno, in una fresca serata primaverile, Peter uscì dall’officina, alzò gli occhi al cielo e vide Astaroth. Un’improvvisa malinconia afferrò il suo cuore, come quando torna a noi in un lampo un odore del nostro passato, inafferrabile nell’aria. Erano passati in un attimo quei dieci anni! Eppure ora ricordava quando dieci anni prima gli erano parsi un’eternità. Che aveva fatto per tutto quel tempo? A mala pena lo ricordava. Peter corse al cortile sul retro e si sdraiò nella polvere, il riflesso di Astaroth negli occhi spalancati e umidi. Il suo grande sogno era lì alto nel cielo, come aveva potuto dimenticarlo? La giovinezza era andata.
Nate stava controllando dei documenti quando decise di prendersi una pausa, si diresse così verso il cortile per sgranchirsi le gambe e guardare le stelle. Con grande stupore vide un uomo inginocchiato nella polvere, la testa tra le mani. Si carezzò perplesso i baffi grigi: era notte fonda, e nessuno avrebbe dovuto essere in officina all'infuori di lui. Nate s’avvicinò, s’accovacciò davanti all’uomo e gli diede un colpetto sulla spalla sinistra: "Che succede? Ragazzo, sei Peter vero?". Peter alzò gli occhi gonfi su di lui: "Guarda," bofonchiò indicando il cielo. Nate guardò, ma non vide nulla di straordinario. "Guarda" ripeté Peter indicando un punto viola fosforescente, "Astaroth."
"Ah giusto, il tuo pianeta."
"Sono passati dieci anni, l’astronave non è pronta, io non sono partito, sono vecchio…"
"Vecchio? Ragazzo mio, ma se non hai nemmeno trent’anni, riprenditi."
"Trenta tra poco, non realizzerò mai il mio sogno."
"Quasi quasi preferivo il ragazzino di dieci anni fa."
"Non sono più un bambino."
"No infatti," ridacchiò Nate, e tornò a lavorare.
Erano già passati dieci anni! I suoi baffi non erano più biondi, ma grigi, e aveva compiuto cinquant’anni da quasi due anni. Nate si guardò allo specchio e rise: "Caro mio, hai una crisi di mezz’età! Il primo passo è ammetterlo." Uscì di casa pensando a cosa potesse fare per divertirsi un po’ e dare un senso anche alla mezza età. Arrivato in officina vide Peter che lavorava borbottando come una teiera. Dopotutto il motivo per cui Nate aveva imparato a costruire le astronavi era che uno dei suoi sogni, un tempo, era stato viaggiare per l’Universo. Era stato prima o dopo rispetto a quando aveva imparato, o meglio, quasi imparato, a suonare la chitarra elettrica? Proprio non ricordava, ma doveva essere stato prima di aver comprato un pony per incrociarlo con l’ultimo rinoceronte nano e creare un mini-unicorno, che avrebbe spopolato più di un cd rock. Come era finito a vendere elettrodomestici terrestri? Nate di sogni ne aveva avuti, ne aveva, e avrebbe potuti averne un’infinità; così non aveva più pensato al viaggio nell’Universo e se n’era scordato. Ma in questo momento proprio un sogno gli serviva, e vedendo Peter riesumò quello dell’astronave. Preso da improvviso fervore si chiuse in laboratorio.
Peter, incuriosito dal fatto che per un’intera settimana Nate se ne fosse stato in laboratorio, decise di dare un’occhiata. E che vide! L’astronave costruita per tre quarti e Nate lì accanto a leggere un manuale sul tennis. Peter rimase a bocca aperta: "Nate… Finalmente" disse.
"Anche a te piace il tennis? Vorrei diventare bravino in una settimana per andare alle Olimpiadi della gente comune," rispose Nate sovrappensiero.
"Io parlavo dell’astronave."
"Giusto, l’astronave," rise Nate.
"Devi completarla subito! Ti prego!" tuonò Peter con una nuova ondata di calore in corpo. Si sentiva forte e appassionato, voleva combattere.
"Non so ragazzo, le Olimpiadi della gente comune sono tra una settimana…"
"Ti prego Nate! Ho aspettato così tanto! Lavorerò anche di notte se necessario!"
Nate rise di gusto: "Prima di tutto dovresti imparare a pilotare un’astronave..."
"Questa mi sembra una scusa, puoi insegnarmelo tu in qualsiasi momento."
"Vado a imparare da solo come si gioca a tennis nel mio ufficio, dove nessuno mi scoccia," lo salutò Nate uscendo dal laboratorio con il manuale in mano.
Peter sentì l’improvviso bisogno di fare qualcosa! Subito! Era arrabbiato e non voleva più sentirsi impotente, quindi frugò tra i libri e gli appunti di Nate finché non trovò un paio di tomi enormi: Costruire e Pilotare un’astronave 1 e 2, poi subito andò a comprare quattro begli evidenziatori di diversi colori per sottolineare. Dopo aver pranzato si chiuse in laboratorio e cominciò a studiare, ma solo la prefazione era lunga 20 pagine, e dopo averla letta saltando qualche pezzo Peter si sentì abbastanza soddisfatto da dirigersi alla macchinetta del succo di mango.
Angelica stava aspettando che il suo succo fosse pronto quando vide Peter: subito rimase colpita. Il ragazzo era radioso, contento, camminava impettito; eppure aveva passato gli ultimi giorni con un muso nero da far paura. "Che succede di bello?" gli chiese. "A breve partirò per Astaroth," rispose Peter, e aprendosi come un fiore le raccontò di tutti i suoi sogni, le sue speranze, i suoi errori e le sue paure. Angelica l’ascoltava con gli occhioni verdi spalancati. La vita di Peter le pareva una fiaba: un principe decaduto in cerca della propria identità, teso verso il cielo, pronto a volare verso il futuro ma intrappolato nella routine del mondo reale, come colpito da una maledizione… Angelica decise di amarlo e aiutarlo.
L’amore fu per Peter come un sogno tiepido e inconsapevole che poco alla volta diviene vero, grande e inarrestabile. A momenti dimenticava ogni altra cosa. Ma secondo Angelica era importante estendere al mondo e alla vita interi la nuova grande capacità di amare risvegliata da una passione erotica che era sì bellissima, ma anche troppo caduca e limitata per divenire il suo modo di interpretare la vita. Così lei e Peter fecero pratica nell’amare se stessi, il mondo e la vita (anche se ogni tanto, come è normale, avrebbero giurato di odiare se stessi, il mondo e anche la vita.)
Angelica un giorno annunciò a Peter che aspettavano un bambino, lui si scoprì molto felice. Ormai avevano imparato a prendersi cura l’uno dell’altra ed erano fiduciosi che sarebbero stati capaci di amare anche una terza persona. Comprarono una casa vicina al centro e si divertirono ad arredarla in attesa del bebè. Nacque una bambina, Kate, con gli occhi verdi di Angelica e i capelli neri di Peter. Peter le voleva molto bene e lo emozionava vederla crescere e crescere con lei. "Tanto Astaroth mi aspetta," pensava ogni tanto. Dopo qualche tempo Angelica gli fece trovare i manuali Costruire e Pilotare un’astronave 1 e 2 sul comodino. Peter, giorno dopo giorno, li studiò con pazienza.
Peter finì di costruire l’astronave al momento giusto: quando Kate aveva poco più di diciassette anni ed era dunque abbastanza matura per capire che anche i padri hanno i loro sogni. In realtà Peter l’avrebbe completata prima se la scomparsa sospetta di qualche componente non l’avesse rallentato... Chiese ad Angelica e a Kate di partire con lui, ma Kate non voleva lasciare la scuola e Angelica era occupata nello sviluppo di un nuovo tipo di combustibile sostenibile. Angelica a momenti non voleva che Peter partisse, ma per restare coerente a sé stessa decise di sfogare l’impulso “sabotare sogno altrui” nell’operazione “festa di buon viaggio”. Kate, che all’inizio era triste e arrabbiata, disse a suo padre: "Torna presto, la prossima volta verrò con te."
Peter indugiò qualche mese, perché andando via avrebbe abbandonato la sua vita, faticosamente e amorevolmente costruita in tutti quegli anni. Ma sapeva che non partire avrebbe significato rinunciare definitivamente a una parte della sua storia altrettanto importante, sognata così a lungo da non poter essere ignorata.
Conclusi gli ultimi preparativi Peter e Nate partirono: due pance piene d’emozione in un cielo immenso.
Dunque se prima o poi volete realizzare i vostri sogni:
1. Appuntateli nel cervello con un bel pennarello brillante.
2. Aspettate che abitando a lungo nella vostra testa si trasformino in veri e propri bisogni.
3. Mettetevi comodi: il viaggio comincia prima della partenza, dura molto e conviene goderselo.