La pantera nebulosa (felis nebulosa)
che attira chi la respinge e azzera chi la sfida
(Giorgio Caproni, La Preda / Il Conte di Kevenhuller)
Parlare delle tre celebri bestie del primo canto dell’Inferno di Dante rappresenta quasi un passaggio obbligato per chi ami l’iconografia, gli immaginari, i miti. Tre emblemi che non cessano di porre domande e suscitare perplessità nonostante tutto il dantismo e l’accademismo dantesco e pur nella semplicità della loro descrizione e del loro ruolo narrativo complessivo. Per me la questione si pone quale questione di metodo. Si tratta di un caso emblematico per qualsiasi ermeneutica. L’efficacia di queste immagini è data dal loro porsi quali veri e propri test per l’approccio ermeneneutico più che come oggetti da risolvere e contestualizzare.
Di fronte alla lonza, al leone e alla lupa la filosofia del linguaggio e della logica implicita in ogni ermeneutica si divide in due: da una parte ricerca centrifugamente, cioè per via analogica, modelli comparativi a cui riportare gli emblemi danteschi, dall’altra, ed è la via che preferisco, tenta centripetamente, di valorizzare l’unicità e l’irriducibilità di queste immagini narrative, anche a costo di rinunziare a esaustive risoluzioni. La differenza del dettaglio è la chiave illuminante. All’interno di questi due movimenti semantici abbiamo poi i tentativi di decrittazione diretta di tipo allegorico che prendono forza dalle varie teorie e concezioni su Dante o il “suo tempo” e che riportano il senso di questi animali a concezioni religiose e/o politiche: i vizi della Chiesa o dell’Impero.
Quello che sembra esser mancato fino ad ora è un’analisi che sappia ritagliarsi spazi di autonomia fra analisi testuale-narrativa e l’analisi iconologica pura. La prima rischia di svalutare le specificità di queste affascinanti invenzioni, l’altra rischia di evadere eccessivamente dall’architettura e dalla filosofia della Divina Commedia. E’ l’eterno problema del rapporto fra singolarità e modello. La domanda più efficace dovrebbe essere ad esempio: che pantera è la lonza di Dante (e non a che pantera assomiglia)? Ogni animale simbolico di rilievo, come questi tre, presenta infatti, nel tempo e nello spazio, un’ampia gamma di variazioni semantiche e aree di relazionalità immaginale, anche all’interno della medesima cultura medioevale e cortese.
Qui il problema è complicato dal fatto che i tre animali compaiono all’interno di un percorso narrativo. Esiste quindi, come sempre nella grandi opere, un rapporto di circolarità fra fenomeno endonarrativo e costruzione della narrazione stessa. I tempi, i modi e i valori che possono qualificare questo rapporto non appaiono evidenti e riconoscibili per nessuno. Fino a che punto le tre bestie concorrono a intessere la grande impalcatura del poema e fino a che punto la subiscono quali sue tessere e ingranaggi? Accade qui quello che accade in quasi tutta l’Apocalisse di Giovanni: non c’è certezza su dove ci troviamo e quindi non sappiamo che tipo di pietre da costruzione stiamo maneggiando non avendo una visione chiara dell’edificio completo. Che gli animali siano allegorie dei principali vizi e peccati umani appare un facile descrittivismo che non semplifica i discorsi morfologici e strutturali. Non sto dicendo che sia agevole rigettare questa consolidata vulgata, ma mi chiedo quanto derivi dall’associazione dell’immagine della bestia feroce con l’immagine della selva malvagia.
Perché non chiedersi se queste bestie non siano dei segnali che svolgono una funzione simile a quella di Virgilio e appaiano al suo ruolo complementari? Se poi Dante pone quattro sensi di interpretazione perché fermarsi per questo suo passo al senso allegorico e/o morale e non indagare un suo possibile senso anagogico, che sarebbe anche più pertinente dato il contesto generale del “tendere” proprio di questa scena iniziale? Una cosa è certa: ci sono stranezze nel racconto delle tre bestie. C’è chi ha messo in evidenza incongruenze e asimmetrie (Dante e le tre fiere nell'interpretazione figurativa, María de las Nieves Muñiz Muñiz) nel rapporto fra le tre fiere, prima tre e poi una sola nelle parole di Dante e di Virgilio, nella posizione della loro comparsa convulsa e nelle difficoltà di visualizzazione spaziale della scena e del suo epilogo.
Anche l’iconografia ha riflesso questa difficoltà raffigurandole ora vicinissime, come manifestazioni di un'unica bestia, ora disseminate lungo l’erta come soglie e passaggi eroici o iniziatici. La Divina Commedia ha accolto animali simbolici già dati facendone uno specifico uso nell’economia del primo Canto oppure ha riformulato il bestiario simbolico organizzando un bestiario tutto dantesco? Dove questi animali sono fedeli alla tradizione mitizzante e dove sono invenzioni letterarie? Accenniamo ai sensi canonici di questi simboli e immediatamente confrontiamoli con le varianti e le specifiche del racconto della Commedia. La prima bestia non sappiamo neppure cosa sia veramente. Un leopardo? Una pantera? Una lince? Un lupo cervino, cioè simile al cervo per la presenza di un pelo maculato? Oppure la lonza va considerata, più semplicemente, nel senso gergale, popolare, muscolare e di macelleria (Lumbus, Longia), quale maiale selvatico o cinghiale femmina, che in Maremma possono mostrarsi anche magre e agili e coperte di macchie? Sul leopardo e la pantera rinvio a quanto già scrissi per un maggior approfondimento (Il Mito della pantera e Le Dionisiache) escluso che fosse già conosciuto l’americano Oncelot, qui appare più significativa l’ipotesi della lince, in quanto siamo in presenza di un'apparizione, di una visione e Dante mette l’accento sul vedere e sul fascino sottile del guardare.
La lonza infatti, pur impedendo il salire del poeta sul colle luminoso, tuttavia sembra ostacolarlo più con il fascino magnetico del proprio elegante e leggiadro aspetto che con un'azione violenta. La lonza si para dinnanzi al volto del viaggiatore. La lince è nel bestiari segno dell’omniscienza di Cristo il cui occhio divino è sempre aperto (Eb.4,13), come troviamo nel Bestiario moralizzato. Nel Bestiaire Divin di Guillaume le Clerc, composto nel 1211, troviamo una particolare attenzione ai colori della bestia, che peraltro viene indicata come love cerviere (lupa cerviera), testimoniando la confusione zoologica che si faceva spesso nei riguardi di questo animale: La beste qui a non pantiere, en dreit romanz love cerviere. Se la “lupa cerviera” è variopinta significa che si sta trattando della “pantera” non quale equivalente descrittivo del leopardo ma quale emblema cosmico: pan theros. Nel Dizionario storico mitologico di tutti i popoli del mondo di Pozzoli, Romani e Peracchi (Livorno 1824) la lupa cerviera viene descritta come dotata di macchie che la rendono simile al cervo.
Siamo in presenza di una “costellazione semantica” fluida nelle visualizzazioni e nelle denominazioni ma precisa e persistente nella matrice mitico-astrologica-simbolica. L’indeterminatezza della lonza non è infatti un caso unico. Ricordiamo anche l’indeterminatezza della bestia della costellazione dell’Altare. Gli estremi del cervo e del leopardo si avvicinano grazie al richiamo fascinoso, irresistibile per gli antichi, della specularità simbolica, verticale, fra macchie e stelle. Le tre bestie sembrano confondersi fra di loro già nella descrizione della prima di esse. I confini del male sono fluidi. Il Male è l’anomico, l’extravagante, il senza centro, ciò che è privato di baricentro, quindi anche metafisicamente non è senza ragione che la descrizione di questi animali simbolici non possa che restare abbozzata e non solo perché si tratta di emblema ma pure di maschere metamorfiche con cui il Male illude e suggestiona celando la medesimezza del proprio squallore.
Nel Bestiario di Philippe De Thaun il lupo cerviere viene chiamato Hyena, bestia impura e maligna, dalla vista acuta, citata anche in Geremia (12,9), presa allegoria del’avidità umana. Che lo stesso “lupo” sia poi codificato nei Bestiari in modo fantastico e non solo descrittivo lo conferma il Libro della Natura e degli Animali dove viene connotato non solo quale emblema, vangelico, di rapina, ma pure dotato di magici poteri come quello di far perdere la voce all’uomo da lui visto. Nel Bestiario moralizzato al lupo viene attribuito il potere ingannatorio e demonico di imitare il verso della mamma del capretto per meglio farne razzia. Forse la lonza è preferibile chiamarla lonza, e basta, senza decrittarla e gustando il senso di astuzia quasi implicito nella sua phonìa. Dopotutto la vista acuta non è lontana archetipicamente dal concetto di astuzia. La stranezza è che la Lonza/lince compare insieme al segno benaugurale dell’alba e del tempo primaverile. Inutile tentare derive gnostiche o sincretistiche. Dante ha sempre scritto e vissuto nell’ortodossia cattolica quindi appare ridicolo e vano farne un pensatore manicheo, zen o buddista.
L’anomalia apparente dell’accostare bene e male, è facilmente risolvibile dall’interno nella considerazione delle parole stesse della Commedia. Il tempo primaverile, il viaggio della Commedia inizia in aprile, e la sua costellazione dell’Ariete, rinviano al tempo di Genesi e di Eden. La lonza trattiene il poeta con la torbida bellezza e quindi si sta alludendo in questo passo alla concupiscenza del guardare quale primo peccato di Eva nell’accondiscendere alla voce del serpente e, quindi, al fascino della violazione del precetto divino. La lonza è leggera e anagogicamente questa “leggerezza” va intesa quale inconsistenza ontologica, come “paion sì al vento leggeri” Paolo e Francesca (Inf. V,75) e come ancora leggere appariranno le anime infernali nella visione dell’Inferno a Fatima. Alchemicamente questa “lince” è l’aria o l’etere, per la sua agilità e fluidità, che ricorda anche gli attributi della divina Sapienza nell’omonimo libro biblico.
Ma la lonza è anche l’eidolon che tende a sostituirsi all’imago del “dilettoso monte”. La sua stessa indeterminatezza visiva e denominativa, la sua sovrapponibilità e confondibilità richiama l’incertezza e l’ibrido quali manchevolezze ontologiche come nella pantera apocalittica della bestia che viene dal mare dell’Apocalisse (Ap. 13,2), come la terza bestia di Daniele (Dn. 7,6). Il leone similmente, come tutti i più importanti animali simbolici, appare anch’esso un emblema ambiguo e bifronte. Ma si tratta di una bipolarità netta, diversa dalla flessuosa e fluida indeterminatezza della lonza. Nella sua declinazione malvagia è segno dell’anticristo, del demonio (libera nos ab ore leonis), per la sua proverbiale e presunta voracità, oziosità, libidinosità, e il suo aspetto superbo. Il cammeo dantesco è breve ma folgorante. La furia del leone viene associata alla fame e al suo incedere contro il poeta. Un leone igneo, fiammante, tanto che il suo ardore violento fa come vibrare l’aria di paura. E’ lo stesso leone scritturale e demonico che gira giorno e notte sveglio per divorare le anime, come un drago (Prima Lettera di Pietro, 5,8). Ma la sua testa alta rinvia a quel passo salmico riferito al Messia e al torrente Cedron (salmo 109), e qui ripreso e invertito in senso anticristico. La costellazione del drago è vicina a quella del leone. Il tema dell’aria che vibra è tema diffuso nel dolce stil novo, così ricco di radiamenti e irradiazioni. Ci basti rimembrare il celebre passo: Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, che fa tremar di chiaritate l’âre di Guido Cavalcanti, contemporaneo di Dante.
Il leone che fa tremar l’aria di paura sembra eco allusivo all’essenza ignea del leone quale emblema umorale e cosmico. E’ il fuoco che domina l’aria in cui si cela, secondo la dottrina degli elementi. Se la lonza indugia elegante il leone irrompe impetuoso e altrettanto velocemente scompare. La lupa sostituisce velocemente il leone e la lonza e sembra assommare e moltiplicare in sé ogni malvagità, comprese quelle delle due bestie precedenti. Il lupo era associato ad Apollo e al sole, ma pure a Marte quale allegoria della cieca violenza del nume-pianeta rosso. Qui è un lupo femmina, allegoria gergale delle prostituzione, allusione mitizzante all’amplesso di Ares con Afrodite. Secondo Igino ed Eratostene la stella di Marte segue quella di Venere. La Lupa quale emblema storico è naturalmente Roma, a sua volta emblema di ogni Impero umano nella sua accezione non cristiana, violenta, idolatrica. In questo senso Dante sembrerebbe qui seguire Gioacchino da Fiore per il quale ogni potere è mondano e, in quanto tale, è Babilonia, anche se il profetico abate ne insegnava la necessaria sopportazione in attesa paziente dei tempi escatologici.
La Lupa dantesca mescola quindi efficacemente l’eros disordinato della concupiscenza carnale con la fame quale manifestazione di una manchevolezza ontologica, entrambe mixate in un cocktail esplosivo con il facile e furioso “ammogliarsi”, quale segno biblico e scritturale di idolatria, adulterio, tradimento ed empietà. La Lupa assomma quindi nel suo ruolo esistenziale le tre concupiscenze edeniche (Gen. 3,6; Prima Lettera di Giovanni, 2,16) e la sua funzione manifesta essa stessa un climax maligno: impedire la salita al dilettoso monte, ricacciare verso la selva oscura dove il sole tace, spargere miseria, desolazione spirituale, schiavitù morale, spegnere il senso della speranza. La Lupa è la selva oscura, è la sterilità dei demoni muti e oscuri, è come il Nulla della Storia Infinita di Ende. Il tema del lupo, già vangelico quale contrapposizione al Cristo Agnello (Mt.10,16; Gv. 10,11-18), è diffusissimo nel medioevo. Il lupo contende al drago e al leone l’allusione al Maligno. Quando San Francesco scende a Gubbio con il lupo miracolosamente docile predica agli abitanti della città la più classica teologia dell’inferno e del peccato, rinnovando la semplice associazione fra immagine del lupo e dannazione. Il lupo è anche allegoria dell’eresia; nella sua rapacità appariva infatti emblema analogico di quella diminuzione (airesis) e spogliazione dell’integrità della Verità rivelata che struttura ogni concetto di eresia. Questa sfumatura si collega alla profezia del Veltro quale liberatore dalle eresie e corruzioni del mondo.
La Lupa non solo uccide ma, ancor peggio, è demone lucifugo in quanto uccide l’idea di Dio recando disperazione. In questo la Lupa si agita con violenta ebbrezza come la Prostituta dell’Apocalisse che mescola ira, libido, e violenta brama di insaziabile dominio. Un ibrido di fecondità malefica, terribile ossimoro, e di sterilità. E’ magra, cioè vuota, mancante, come la lonza ma carica in più di pesante cupezza, segno plumbeo, da metallo sporco, rozzo. Altro ossimoro: leggera in quanto priva di un anima che non sia oscura, svuotata di luce, e pesante in quanto forza che spinge verso il basso, che trae verso l’Inferno. La sua pesantezza è quella delle anime colpevoli nelle psicostasie egizie e medioevali nell’iconografia di San Michele.
Curiosa questa opposta visualizzazione fra leggerezza e pesantezza riferita al medesimo campo semantico della dannazione dell’anima. La sua igneità è richiamata dal suo aspetto di emblema alchemico nel riferimento all’antimonio. L’Ariete della Lonza, la costellazione del Leone e quella della Lupa, come costellazione vicina al Centauro/Sagittario, rappresentano il trigono di fuoco e dividono l’anno in tre parti uguali. E’ il Male, non quale fuoco non controllato e degenerato, e in quanto tale scimmiottano la trinità divina. L’Opus simbolico-spirituale di Dante è controllare “il fuoco” per evitarne la distruttività. Solo così potrà ascendere alla terra di mezzo del Paradiso terrestre. Il Male nella sua essenza metafisica e nel suo senso anagogico, più sottile e profondo di qualsiasi riduzione allegorico-morale a cataloghi di singoli vizi individuali.
La forza di queste tre immagini viene specialmente sia dalla loro posizione simbolico-narrativa, all’inizio del racconto e del cammino di Dante sia dalla loro funzione di impedimento dell’avanzare. Tre fiere a metà di un colle che sopravanzano il pellegrino e su di lui incombono. Una trovata scritturale assai efficace in quanto di solito la fiera, come nel romanzi arturiani ad esempio, compare nel folto della selva e non su un altezza ben visibile. Questa è l’inversione: l’anima pellegrina in basso e la triplice bestia in alto. Ma è proprio nei romanzi arturiani che troviamo dei precedenti all’animalità simbolica dantesca nei leoni, draghi, cervi che svolgono una molteplice funzione ibrida fra emblema, simbolo, prova iniziatica e snodo narrativo.
Le bestie attaccano il poeta in quanto riconoscono nella sua anima un combustibile adatto al loro fuoco disordinato. Le bestie testano Dante e dimostrano la sua non adeguatezza per salire direttamente il colle verso il dilettoso monte. Lo attaccano in quanto vedono se stesse nei vizi della sua anima. Per vincerle dovrà compiere la sua catabasi infernale. Tre bestie infernali assurgono quindi ad un ruolo simile alle tre teste di Cerbero: la vanitas, l’istinto del divorare e la fame di dominio. I gradi di sviluppo di questa apparizione apocalittica anticipano i gradi della catabasi infernale e la giustezza del loro inquadramento escatologico è confermata dalla stretta connessione fra la Lupa, quale sintesi della dimensione infernale, e la profezia del Veltro, quale completamento temporale delle promesse messianiche.
Che rapporto quindi possiamo delineare fra le bestie dantesche, i quattro sensi interpretativi che Dante fa propri (letterale, morale, allegorico, anagogico) e le principali figure retoriche-logiche (simbolo, allegoria, metafora, ecc.)? Prima di rispondere occorre fare un breve volo d’uccello sulle bestie simboliche nelle Sacre Scritture. Abbiamo bestie quali metafore del male quale infedeltà a Dio e della conseguente desolazione (Isaia, 13,21-22), bestie quali immagini semplicemente narrative in quanto icastiche (Geremia, 13,23), animali quali strumenti purificatori della giustizia divina (Geremia 19,7), un’aquila variopinta fra allegoria e parabola profetica (Ezechiele, 17,3) le bestie selvatiche con cui stava Gesù nel deserto (Mc.1,12), letterali quanto edenicamente anagogiche, e le bestie apocalittiche che non si possono neppure descrivere quale segno del misteryum iniquitatis: la bestia scarlatta che porta la prostituta nell’Apocalisse (Ap.17,3), la quarta bestia della visione di Daniele (Dn.7,7), e la seconda bestia che viene dalla terra (Ap.13,11).
Il vertice del linguaggio mistico e della visione non a caso è chiamato a utilizzare immagini di animali nel tentativo di raccontare l’Indicibile metafisico: ecco i quattro Esseri Viventi della visione di Giovanni (Ap.4,6-8). Questi misteriosi Esseri, così vicini al trono di Dio, difficili da comprendere e da descrivere, appaiono simili a leone, toro, uomo e aquila. L’apparizione non scioglie l’enigma ma autoimpone gli Esseri che si irradiano dall’Essere. L’immagine animale aiuta il profeta nella ricezione di una visione sovraumana. Il vertice dell’anagogia tramite l’analogia, oltre ogni figura retorica. Al Tetragramma ebraico seguono i quadruplici Esseri in quanto con il Cristianesimo la visione si veste di carne come il suo Salvatore.
Tornando alle nostre tre bestie dantesche, parodia antitrinitaria, possiamo aggiungere linguisticamente il necessario confronto fra i quattro sensi interpretativi e i moduli tradizionali della lingua confermando il loro alto tasso di anagogicità, quale cioè figure spirituali che manifestano l’essenza metafisica del male e dell’inferno, cioè la colpevole carenza d’essere che si oppone alla gloria di Dio e al naturale destino umano ad essa rivolto. A livello linguistico queste tre bestie appaiono più fluide e profonde di un'allegoria morale ma pure più specifiche e delimitate rispetto al fenomeno del simbolo. Possiamo qualificarle meglio come esemplari del fenomeno “emblema”, seppur spirituale e non temporale.
Le tre bestie ci aiutano a comprendere come l’emblema sia centripeto, assorbente, tendendo a trarre tutto il senso a se stesso, mentre il simbolo tende a rinviare ad altro. L’emblema, similmente al talismano e al rebus, si muove autoproponendosi e autopromuovendosi, il simbolo è più altruista, fugge dal centro che pur pone. L’emblema rappresenta un fatto narrativo che non esce dalla propria immagine e si ripete indefinitamente, come accade per i segni narrativi dipinti nei teloni dei cantastorie ambulanti, e si può visualizzare come una spirale che si avvolge mentre il simbolo va schematizzato invece come una spirale che si svolge. L’emblema muove gli affetti e richiama in causa un’appartenenza, mentre il simbolo conserva sempre in sé un minimo di “vuoto”, aperto a nuove funzioni, usi e concezioni. Entrambi appaiono come forze performanti.
Ecco il meraviglioso paradosso del genio dantesco: inventare nuovi emblemi, che non si identificano del tutto né con i bestiari tradizionali e né con l’immaginario scritturale, per visualizzare il “non visualizzabile”, cioè il senso della rivolta spirituale contro Dio quale radice metafisica del male. Per meglio comprendere il senso unitario delle tre bestie nella loro natura infera e apocalittica occorre, come sempre, uscire dal testo per poi ritornarvi più consapevoli. Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso ci regala un mostro ibrido e allegorico che sembra richiamare fortemente la lupa dantesca quale ricapitolazione delle altre due bestie e di ogni vizio umano e di ogni forza demonica.(XXVI, 31-36). L’episodio è già metalinguistico in quanto si tratta della descrizione di alcune sculture presenti nella fontana di Merlino la cui lettura viene presentata da Malagigi a Marfisa e Ruggero. Ebbene questo mostro scolpito in un efficacissimo “racconto per immagini” si manifesta con tale sembiante e tenore: “Quivi una bestia uscir de la foresta parea, di crudel vista, odiosa e brutta, ch’avea l’orecchie d’asino, e la testa di lupo e i denti, e per gran fame asciutta; branche avea di leon; l’altro che resta, tutto era volpe: e parea scorrer tutta e Francia e Italia e Spagna ed Inghelterra, l’Europa e l’Asia, e al fin tutta la terra.” Un essere ibrido, un male universale, storico quanto metatemporale, quasi impossibile da raccontare, che rappresenta un emblema negativo nell’essenza ma positivo quale memento morale.
Il caso meraviglioso e rarissimo è dato dal fatto che questo mostro dantesco, la cui composizione sproporzionata e ibrida denota il male quale manchevolezza insoddisfatta e prepotente, è stato dipinto più che fedelmente in tre scene affrescate nella sala d’onore di Palazzo Besta di Teglio, capolavoro valtellinese del migliore Rinascimento (Orlando Furioso in Valtellina, Soprintendenza Beni Architettonici di Milano, 2009). E’ proprio questo passaggio figurativo che ci aiuta a illustrare i sensi profondi della lupa di Dante. Nel diciottesimo e nel diciannovesimo riquadro ariostesco compare un mostro appunto con testa di lupo, orecchie d’asino, zampe di leone e coda screziata il quale viene colto in tre azioni: 1) mentre fa strage di vari personaggi, fra cui Re e Papi 2) mentre viene adorato in cima a una colonna vermiglia da una folla simile a quella appena massacrata 3) mentre viene colpito da quattro figure che brandiscono una colonnetta di marmo, una lancia, una spada, un maglio e un compasso, probabili allegorie delle virtù cardinali ma anche possibili allusioni alchemico-astrologiche.
La prima scena ricorda le danze macabre e i Trionfi della Morte e possiamo associarla al “molte genti fa viver grame” (Inf. I,51). La seconda scena rinvia al senso idolatrico ed escatologico del mostro quale apocalisse del misteryum iniquitatis e al passo “molti son li animali a cui s’ammoglia” (Inf. I,100) dove l’infedeltà a Dio e alla virtù viene descritta biblicamente come promiscuità e fornicazione. La terza scena rinvia al passio ariostesco dove sono i quattro più illuminati sovrani del tempo, (Carlo V, Francesco I, Enrico VIII, Massimiliano d’Austria), celebrati in un sogno umanistico di restauratio auri seculi, ad uccidere il mostro e a questo passo può associarsi al simile epilogo dantesco (Inf. I,110). Lo scenario complessivo avvicina molto l’enigmatico passo ariostesco, e la sua stupenda visualizzazione artistica, al simile senso profetico e spirituale della narrazione di Dante. La graduale e progressiva manifestazione del male si incrocia sempre con i tempi della manifestazione del bene attingendo a quel meraviglioso giacimento spirituale ciclicamente ritornante che è la “messianicità non ancora attuata” propria del Cristianesimo sia quale nuova religione che quale gemmazione da Israele (L’ultimo Messia. Profezia e sovranità nel medioevo, Luca Potestà, Il Mulino).
Se Ludovico Ariosto sognava una nuova età dell’oro intravedendola nell’amichevole pace, che durò poco ma vi fu, fra i quattro ottimi sovrani europei, capace di distruggere il mostro della corruzione e della radice demonica del potere, Dante la sognava idealizzando Arrigo VII e la sua discesa in Italia che avrebbe dovuto liberare sia la Chiesa che ogni regno e popolazione dalla corruzione e dalla decadenza morale. In entrambi i casi siamo di fronte a manifestazioni della profezia del Veltro quale emblema dell’Ultimo Sacro Impero, versione cattolica della messianica restaurazione del Regno di Israele. Il mistero del male resta assorbito nella proiezione profetica nel futuro della visione dell’Eterno. Senza Cammino nessuna bestia.