In occasione di Artelibro, la rassegna dell’editoria ospitata a metà settembre 2014 nel Palazzo di Re Enzo, cuore della Bologna medievale, è stato presentato nella Sala del Capitano il De Materia Medica di Pedanio Dioscoride, ristampato dal manoscritto del VI-VII secolo, conservato presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli (Ms. ex-Vindobonense Greco I).

Chi scrive, botanico presso l’Orto dei Semplici dell’Università pisana per molti anni, con l’onore di questa presentazione, ha avuto anche il piacere di ritornare a Bologna da Pisa, dove Nicola Pisano ha scolpito il famoso pulpito del Battistero di Piazza dei Miracoli e, poco dopo, la splendida arca per le spoglie di San Domenico nella omonima chiesa felsinea. Tra le due città vi sono stati numerosi punti di contatto che hanno riguardato - oltre l’arte - anche le scienze, incluse le naturali. Uno è quello della botanica legata alla medicina, visto che l’imolese Luca Ghini (fig. 2), lettore di Materia medica presso l’Università di Bologna dal 1527 al 1544, fu chiamato dal granduca di Toscana Cosimo I dei Medici a Pisa, dove realizzò tra il 1544 e il 1545 il primo Orto botanico della storia. Di questo antico “giardino dei semplici” non vi è più traccia, come è noto. Nell’ottobre 1990, a cinquecento anni dalla nascita, un convegno a Imola celebrò Luca Ghini, definito un cardine della cultura botanica del XVI secolo. In quella circostanza Lucia Tongiorgi, storica dell’arte a Pisa, evidenziò come “intorno alla metà del Cinquecento le scienze della natura subirono un profondo processo di rinnovamento che le porterà ad assumere la fisionomia di scienze moderne. Alla base di questo fenomeno furono la revisione critica delle opere classiche (in particolare del De materia medica di Dioscoride), l’ampliamento del panorama botanico dovuto al reperimento e alla descrizione di essenze vegetali fino ad allora ignote e, soprattutto, l’individuazione di nuovi criteri per classificare le piante secondo schemi più naturali”.

Nel 2007 venne pubblicato un Erbario miniato conservato nel Castello di Windsor appartenuto a Cassiano dal Pozzo, nipote dell’Arcivescovo di Pisa, città dove Cassiano aveva studiato e frequentato i circoli intellettuali granducali che avevano nell’Orto botanico, prossimo alla Piazza dei Miracoli, uno dei luoghi di elezione. Le tavole dell’Erbario - sorto in ambito linceo a Roma - portano annotazioni di riferimento alle opere di Tabernemontano del 1588, di Dodoens del 1582 ma principalmente all’edizione del 1568 dei Discorsi di Pier Andrea Mattioli (fig. 4) sulla Materia medica di Dioscoride. Mattioli cita molto spesso - quali fonti autorevoli per i suoi commenti e le sue integrazioni all’opera di Dioscoride, sia Ulisse Aldrovandi (fig. 6) - sommo naturalista bolognese - sia Luca Ghini, “collocato meritatamente – egli scrive - per la rara sua dottrina nella honoratissima accademia di Pisa a leggere e a insegnare questa così gloriosa facultà dei semplici”. Per “semplici” si intendono, come è noto, le piante o altri oggetti naturali, dai quali ricavare medicamenti e principi attivi da usare in medicina.

Per introdurre la presentazione del "Dioscoride di Napoli", può essere divertente citare un “placito” di Luca Ghini, conservato tra i Manoscritti (n. 98) di Aldrovandi presso la Biblioteca Universitaria di Bologna. “Un vecchio di Bologna”, scrive Ghini in un latino approssimato,“certo il primo in quel tempo fra gli esperti di piante di quel luogo, soleva dire che l’etimologia del nome Dioscoride indica bene che tipo di uomo fosse, dal momento che Dioscoride non suona diverso da Deum discordiae, e certamente così stanno le cose come quel buon vecchio disse per fare una battuta scherzosa. Infatti Dioscoride ha lasciato molte descrizioni di piante così succinte, brevi e frammentarie che sarebbe impossibile, dai pochi tratti che esse offrono, arrivare ad una loro piena identificazione; da qui, tante opinioni diverse, tanti distinti giudizi da parte degli studiosi. Tra queste specie descritte in modo incerto c’è il talictro, delineato con pochissime e per di più imperfette osservazioni. Ecco perché Ruellio [che nel 1542 a Basilea aveva editato il De materia medica] indica come Talictro quella pianta che è chiamata Argentina, il Gessner [autore di una Bibliotheca universalis nel 1545] indica la Cotula fetida, altri quella pianta che alcuni chiamano in volgare Verde marco. Quale di queste piante sia il vero Talictro non può dirlo certo Davo, ci vorrebbe Edipo”. Davo è un personaggio della commedia comica plautina, sinonimo di indovino da strapazzo; Edipo è altra cosa, ha saputo rispondere all’enigma della Sfinge (fig. 5) su chi sia l’essere che durante la vita si appoggia prima su quattro punti, poi su due e infine su tre.

I riferimenti a Dioscoride da parte di Luca Ghini, che certamente non ne conosceva i codici miniati, sono numerosi. Di un arbustello “con spine lunghe ed acute, foglie più piccole del trifoglio, con fiore e seme di ginestra che cresce sulle coste del mare” (probabilmente la comune Calycotome spinosa), Ghini riporta che “i Greci lo chiamano qua e là asfalato, e ciò mi è confermato dalla mia domestica greca. Ma dal momento che questa pianta non ho potuto ancora assegnarla ad alcun autore, e d’altra parte Dioscoride non la descrive tra le sue, potrebbe essere menzionata - dice Ghini - come Asfalato secondo”. E ancora: “Anche se Dioscoride dice - scrive Ghini al Mattioli - che l’Androsace sia originaria delle regioni costiere della Siria, una volta me ne fu mandata una dalle coste dell’Illiria, ancora attaccata al sasso su cui era stata concepita. Me ne dette una simile un medico di Rimini e un anno dopo da Populonia o Piombino ho ricevuto una bellissima pianta di questo tipo che, postquem mihi dipingi iussi in eo tempore [dopo essermela fatta dipingere in quel momento], donai al mio patrono illustrissimo Granduca. Non ho alcun dubbio che questa sia la vera Androsace di Dioscoride”. Si tratterebbe di un’alga a forma d’ombrellino, Acetabularia mediterranea (oggi Acetabularia acetabulum), ma la certezza di Luca Ghini non è condivisa dai botanici attuali, che ne parlano con cautela, dando altre ipotesi identificative, visto che manca un’immagine adeguata al riguardo.

Tutto questo è stato detto per significare che comunque, come i fili radiali di una tela di ragno, tutte le argomentazioni più o meno mediate dai vari autori fino al XVI secolo ma anche dopo, portano a un centro quasi obbligato della tela, occupato da Pedanio Dioscoride. Bene ha fatto Mauro Giancaspro, direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli, ad intitolare il suo saggio introduttivo Immortalità di Dioscoride e centrato è il pensiero di Valentino Mercati, presidente di Aboca Museum, secondo il quale l’emulazione per Dioscoride si tradusse in una gara a superare criticamente i limiti imposti dalla stessa sua opera e servì a ravvivare gli interessi per gli antichi rimedi naturali.

Preparare questo intervento non è stato facile. Dopo la lettura delle prime pagine, delle quasi 1000 dell’opera, la preoccupazione di chi scrive si è manifestata appena visti i nomi dei contributori ai vari capitoli, da Paolo Caputo a Walter Lack, da Paolo De Luca ad Alessandro Menghini tra i tanti, tutti colleghi competentissimi che per anni hanno analizzato dell’opera i testi e le figure. Ciò detto, ecco il “discorso” sul Dioscoride napoletano che qui viene proposto. Innanzi tutto si deve dar conto dell’alta qualità dei saggi introduttivi, dai quali traspare la comune e condivisa sensibilità degli Autori di fare del loro lavoro un’ opera unica d’arte letteraria e di scienza, condotta non solo con il massimo scrupolo ma con una partecipazione appassionata che traspare da ogni capoverso. Piace immaginare questi esperti colleghi che a Napoli discutono tra loro come fanno i personaggi ritratti in una miniatura della Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, con Ippocrate al centro che ha alla sua sinistra Dioscoride e alla destra Platone; alla base due allievi seguono il dibattito.

Ne "Il Dioscoride di Napoli", titolo del capitolo introduttivo curato da cinque degli autori, una nota in calce precisa la paternità di ciascuno ma il lettore percorre il testo senza avvertire discontinuità tra i contenuti, anche se diversi. Del De materia medica come opera enciclopedica del sapere antico, della sua diffusione e sua trasformazione nel tempo; del riordinamento alfabetico rispetto a quello originale basato sulla similarità delle proprietà dei semplici e con le implicazioni, anche filosofiche, del loro impiego; del rilevante problema della nomenclatura botanica, della sinonimica e dell’identificazione delle specie, ricondotte, quando possibile, al binomio moderno; del ruolo dell’apparato iconografico, aggiunto sia nel manoscritto viennese (il famoso Codex Vindobonensis o Codex Aniciae Julianae del 512 d.C.), sia in quello napoletano, all’originale dioscorideo che ne era privo; della lingua e dello stile del testo, redatto, secondo quanto scriveva Wellmann all’inizio del 1900, in un greco “provinciale”, non considerando che Dioscoride ha badato a produrre un’opera, come scrive il filologo Roberto De Lucia, “non secondo i canoni della perfezione stilistico-letteraria ma privilegiando la sostanza del discorso; con le complicanze e le difficoltà della traduzione, eseguita direttamente sul testo della Biblioteca Nazionale di Napoli”; del confronto che i colleghi botanici napoletani hanno fatto con le opere di Teofrasto, di Plinio e, ovviamente, di Mattioli, rilevandone congruenze o discordanze; di tutto ciò e di altro sono ricche le prime due dozzine di pagine del primo volume, alle quali seguono due brevi ma densi contributi di Walter Lack, direttore dell’Orto botanico di Berlino, che ci fa conoscere nel primo, le vicende odeporiche del Dioscoride napoletano a partire dalla guerra di successione spagnola dell’inizio del 700, fino al rientro da Vienna a Napoli, nel 1923, con una sosta a Venezia; nel secondo, dei tentativi di pubblicare sia il Codex neapolitanus sia il Codex vindobonensis fin dall’inizio della seconda metà del 700, con la realizzazione di circa 400 incisioni, di cui furono fatte le prove di stampa. Ma si dovette attendere 250 anni per vedere stampato il facsimile del Codice di Vienna nel 1906 e ancora di più per quello di Napoli nel 1988, fino alla sontuosa edizione di quest’ultimo nel 2013.

Prima di commentare qualche immagine di quest’opera straordinaria e meravigliosa, che risale presumibilmente al VI-VII secolo, derivata da materiali del secondo secolo purtroppo perduti e senza immagini (si ricorda che Pedanio Dioscoride, nato intorno al 40 d.C., è stato attivo nel primo secolo), non si può non menzionare il capitolo di Pietro Baraldi e di Paolo Bensi relativo alle analisi dei materiali pittorici e alle tecniche usate quindici secoli fa per illustrare il Dioscoride napoletano. La spettrometria Raman, dal nome del fisico indiano che la descrisse e che gli valse il Nobel nel 1930, è una tecnica non distruttiva che ha consentito di evidenziare i tipi di materiali usati per eseguire le miniature. Si tratta di una lettura entusiasmante e istruttiva, in grado di far capire cos’è l’orpimento o auripigmentum, da dove si ricavavano la lacca gialla e l’indaco, e financo come si preparava la biacca.

Il saggio di Alessandro Menghini, botanico farmaceutico di Perugia, merita una particolare attenzione. Il suo contributo si intitola La modernità del pensiero dioscorideo attraverso il Codex neapolitanus. Egli dispiega il suo racconto iniziando dalla Historia plantarum di Teofrasto per giungere al De materia medica di Dioscoride, del quale mette in evidenza il metodo razionale tipico della cultura greca, la chiarezza dei suoi intenti fitoterapici, la necessità di conoscere, anzi di ri-conoscere, attraverso una descrizione dettagliata, la pianta o le sue parti da utilizzare per la terapia, le forme di somministrazione, la posologia, la preparazione, la conservazione del farmaco e quant’altro di utile o interessante, non molto dissimile da quanto prevede un qualsiasi testo di botanica medica di oggi. In questo sta la modernità di Dioscoride. Ma un altro aspetto va sottolineato, esemplarmente trattato: il problema della sinonimia, con l’adozione di un lemma greco al quale Dioscoride [ritratto con un allievo in un codice redatto a Baghdad nel 1224 e - pochi anni dopo, ancora in abiti orientali - in uno che è al Topkapi di Istanbul, datato 1229] relaziona le varianti nomenclaturali assegnate alla stessa pianta, o uno stesso nome a piante anche diversissime, nell’ambito di un Mediterraneo multietnico, con le conseguenti ambiguità di usi e di abusi, di possibili tossicità o di effetti non voluti.

Alessandro Menghini si è trovato molte volte in imbarazzo nell’identificare le piante, come Luca Ghini a proposito dell’asfalato menzionato all’inizio, ma i dubbi li ha risolti con eleganza, o - in qualche caso - lasciandoli ai posteri. Numerosi e puntuali gli esempi da lui richiamati, che rimandano infine, quando possibile, all’opera di Carlo Linneo (fig. 8) del 1753, con l’adozione di un binomio specifico che riassumerà le espressioni polinomiali di tutti i predecessori, sostituendo l’ordine al caos. Scegliere tanti esempi tra le 409 specie medicinali che occupano quasi 900 pagine dell’opera, a supporto di quanto detto, è impossibile. Ci si può limitare ad alcuni casi come quello dell’aneto (Anetum graveolens), ben noto – scrive Dioscoride - presso gli Egizi, i Romani, gli Africani e i Daci. E’ diuretico, calefacente, fa bene per la bocca e lo stomaco, il decotto della chioma e del frutto secco stimola la produzione del latte, fa cessare le coliche viscerali e le flatulenze, stimola la diuresi e placa il singhiozzo…

Dell’acanto (Acanthus mollis), che cresce nei parchi e nei luoghi sassosi e ricchi d’acqua, le radici sono usate per cataplasmi, per curare bruciature e slogature… Due piante molto conosciute, la timbra (oggi Satureja montana) e il timo (Thymus capitatus), sono specie aromatiche usate in decotto contro i vermi e per stimolare le mestruazioni; mescolate al miele rendono facile l’espettorazione… Ma - aggiunge Dioscoride - nel cibo fanno bene anche nei momenti di buona salute, come condimento. In un’elegante tavola vi è un primo Delfinium (Delphinium peregrinum, fig. 1), una ranuncolacea le cui foglie scisse e allungate sono simili ai delfini, da cui il nome; il seme, bevuto con vino, cura le punture dello scorpione, e un secondo Delfinium (oggi Consolida regalis fig. 1), con le stesse proprietà ma, secondo Dioscoride, meno efficace. La Dragontea (Arum maculatum) con il pungitopo (Ruscus aculeatus) e la “dafnoide” (Daphne laureola), sono specie tutte descritte con attenzione anche per quanto riguarda le loro proprietà sia farmacologiche che alimentari. Vi è poi il Cencro che i Romani chiamano miglio (Panicum miliaceum); preparato in forma di polenta frena il ventre e stimola la diuresi. Mondato e messo in sacchi, riscaldato a vapore, è d’aiuto per le coliche viscerali e i dolori; e il Ciamo, che i Romani chiamano fava (Vicia faba), dannoso per lo stomaco e alquanto capace di produrre flatulenza, ma moltissimi sono i benefici: la farina in cataplasmi mitiga i flemmoni da contusione, fa bene alle mammelle, con miele e fieno greco elimina le parotidi, impastato con vino sistema le contusioni oculari, come empiastro cura le emorragie provocate dalle sanguisughe… Il Lepidium, pianta della famiglia dei cavoli, il cui seme sconvolge il ventre, riduce la milza, uccide i feti ed eccita il desiderio sessuale; la colocintide (Citrullus colocinthys), dai Romani chiamata cucurbita selvatica, purgativa e pericolosa per lo stomaco, usata nel mondo arabo come abortivo.

Non poteva mancare la mandragora (Mandragora autumnalis), alla quale è dedicato un lungo capitolo; è chiamata da Pitagora, scrive Dioscoride, pianta antropomorfa per la struttura della radice che simula le estremità inferiori e i genitali del corpo umano. Dioscoride è attento anche alle felci: nella fig. 3 osserviamo la comune Pteris aquilina o Pteridium aquilinum, la scolopendria (Phyllitis scolopendrium) e un polipodio, probabilmente Polypodium cambricum. Il narciso (Narcissus tazetta), che cresce più bello e profumato nelle località montane, e il Nartex che i Romani chiamano Ferula (oggi Ferula communis), antiemorragico, utile contro il morso delle vipere e contro le coliche viscerali se mescolato al vino. Un’elegante immagine è quella dell’ossicheno (il giunco aguzzo, Juncus acutus), ritratto con due specie di origano (Origanum onites e O. vulgare), fig. 9. Tra una pianta indeterminata e l’erba querciola, Teucrium chamaedris, vi è una Ephedra distachya i cui semi globosi sono circondati da brattee rosse (fig. 7). Questi “acini”, come scrive Dioscoride, bevuti con vino, aiutano chi soffre di celiachia e di flussione di ventre. Infine l’alchechengi (Physalis alkekengi) con due specie di Verbascum (V. sinuatum e V. thapsus), di cui vengono ricordate le proprietà astringenti, antidiarroiche, e i benefici contro la tosse, il mal di denti, gli edemi, le ulcere, e così via.

Due ulteriori brevissimi cenni. Nella postfazione del secondo volume, Alain Touwaide, storico della botanica, scrive un bellissimo saggio - che sembra un moderno raffinato romanzo - sul ruolo che le traduzioni del Dioscoride in siriaco e poi in arabo, con interessanti traslitterazioni, aggiunte e commenti, ma anche con aspetti controversi, hanno avuto nella diffusione in Oriente della medicina greca.

Infine va menzionato l’elenco analitico - istruttivo e divertente - delle patologie e dei rimedi riportati nel Dioscoride napoletano: più di 700 voci, da “abbassamenti di vista”a “bruciature”, da “dimagranti” a “fortificanti”, “da herpes”a “punture di scorpione”, da “tendinite”a “vitiligine”. Espungere tutte queste voci deve essere stato un lavoro da… Eremo dei Camaldoli, un luogo da dove si può godere una panoramica straordinaria del golfo di Napoli, e dove un giardiniere tedesco ha descritto nel 1832 un eucalipto australiano chiamando Eucalyptus camaldulensis.

Per concludere: si impiega un bel po’ di tempo per leggere - e ammirare - questo Dioscoride di Napoli, impeccabile impresa culturale ed editoriale, ma ne vale la pena.

Testo a cura del Prof. Fabio Garbari, Università di Pisa.

Per maggiori informazioni:
De materia medica