È il 1925 quando Konstantin Melnikov firma il padiglione sovietico all’Exposition des Arts Décoratifs di Parigi. In città si parla solo di “jazz, calcio e Melnikov”. Un successo, insomma. E così, tornato nel suo paese, il poeta del Costruttivismo ottiene il permesso per costruire la sua casa nel pieno centro di Mosca. Dovrebbe essere un esperimento, il prototipo per una casa operaia. Finita di costruire nel 1929, sarà uno dei pochissimi edifici privati dell’era stalinista. I favori dell’Impero Sovietico non durano a lungo. Nel 1937, il governo mette fine alla carriera di Melnikov accusandolo di formalismo. Lui ha quarantasette anni. Vivrà il resto della sua lunga vita senza lavoro, o quasi, ma dentro la casa dei suoi sogni. Sulla facciata, un’orgogliosa scritta a caratteri cubitali: “Konstantin Melnikov Architetto”.
Due cilindri sovrapposti, di altezze diverse, che disegnano in pianta la cifra “8” orientata in direzione nord-sud. Cinquantotto finestre esagonali e grandi vetrate sulla facciata principale. L’edificio ha una forma rivoluzionaria, mai vista prima. Negli appunti di Konstantin: “Avevo organizzato la ripartizione dello spazio abitativo basandomi sul principio della funzionalità… così la stanza da letto è soltanto una, per tutti, e questo consente di avere un alto livello d’igiene”. Questa camera, illuminata da dodici finestre, non ha lampade da parete né da soffitto. Non ci sono mobili, a parte il letto matrimoniale e i due lettini per bimbi fatti di legno imbiancato. Il letto dei genitori è separato da quelli dei bambini soltanto da paraventi. Ci si cambia al piano terra in una stanza-guardaroba e si sale in pigiama per dormire. Nella cantina è sistemato il sistema di riscaldamento, che distribuisce aria calda alle stanze attraverso un sistema di tubi. Un canale collegato alla cucina permette di gettare i rifiuti direttamente dentro il focolare della caldaia. Elemento molto innovativo per gli anni 20 è anche lo schermo di vetro aspirante della cucina, importantissimo perché lì non ci sono le porte. Al piano terra ci sono due minuscole stanze dove studiano bambini. Quattro metri quadri e mezzo ciascuna, con due triangoli sul soffitto imbiancato: giallo per la femminuccia e blu per il maschietto.
Alla sua morte, nel 1974, Konstantin lascia la casa ai suoi due figli Viktor e Ludmila. Assegna un cilindro a ciascuno, a costo di distruggere l’essenza e l’unicità del design. Non può immaginare che la sua opera più celebre finirà nell’elenco UNESCO degli edifici a rischio di abbattimento, né che prima i suoi figli e poi le sue nipoti, Ekaterina ed Elena, si contenderanno l’eredità al Tribunale di Mosca. Il figlio di Konstantin - Viktor, un artista, ha vissuto e lavorato nella casa senza mai riuscire a farne il “Museo del padre e il figlio” che sognava.
Ora si spera nella figlia Ekaterina, che abita qui con il marito e mantiene la casa con la sua minuscola pensione, in attesa della decisione del Tribunale. Del nonno, Ekaterina si ricorda benissimo: “In famiglia lavoravano tutti, solo lui aveva poco lavoro. La mia infanzia è trascorsa sulle sue ginocchia, in questa casa dove sono nata e che oggi per me è come un essere vivente. Negli anni è cambiata pochissimo, solo al pian terreno, dove abito. Primo e secondo sono rimasti intatti… C’è sempre qualcuno che suona al campanello e chiede di entrare per una visita. Un po’ stancante, ma ci ho fatto l’abitudine… Non posso accogliere tutti, per ora hanno accesso qui solo poche persone di fiducia”. Finché la lite non verrà sanata, non potrà nascere il museo.
Da IoDonna del 5/11/2011