Se un visitatore inesperto dell'esposizione Klimt alle origini di un mito di Palazzo Reale a Milano, dovesse entrare dall'uscita, dove è allestito il bookshop, sarebbe senza dubbio frastornato dal profluvio dei più svariati oggetti da ricordo-regalo o da arredamento: vassoi, tazzine, scatole, poster, arazzi dove spiccano le tessere dorate di ascendenza bizantino-ravennate e dove sensuali figure femminili si avvitano in una sinuosa torsione. E' un piccolo esempio dell'“equivoco Klimt” che, possiamo dire, ormai da un secolo, annebbia e fuorvia la personalità e la poetica del grande artista viennese.
Che nell'epoca dell'industria culturale un'opera d'arte possa diventare anche oggetto di commercio e di consumo, ormai non scandalizza; per rimanere alla sola pittura oltre a Klimt e più di Klimt, hanno avuto un successo di pubblico e di vendite riproduzioni e gadget di Van Gogh e Renoir, per non parlare di Modigliani e Picasso. Comunque, anche questo aspetto di “costume” può essere utile per scoprire o riscoprire un artista che, al di là delle apparenze più esteriori, affonda le radici in quella cultura mitteleuropea di fine Ottocento a cui tanto dobbiamo nella storia dell'Occidente contemporaneo.
La “sfortuna” del pittore cominciò già in vita, quando, da una parte fu avversato dalle istituzioni e dai tradizionalisti come promotore della “Sezession”, dall'altra fu scambiato, in particolare in Italia, per un abile decoratore creatore di una moda decadente. Nel raffinato catalogo dal klimtiano taglio dorato, pubblicato da 24 Ore - cultura ideatore della mostra stessa, si sottolinea che “Per più di mezzo secolo l'opera di Klimt naviga nel buio, marchiata di decadentismo e confinata nella marginalizzazione della cultura austriaca dopo la Prima guerra mondiale”; per non parlare del dileggio di vociani e futuristi, culminante nell'anatema di Boccioni: “Tutta la miserabile calligrafia plastica tedesca-austriaca-ungherese ci ha un po' pesato sopra … l'austriaco Klimt, impasto commerciale di bizantino, di giapponese, di zingaresco, era da noi considerato come un aristocratico innovatore dello stile”.
Bisognerà aspettare gli anni sessanta e poi la chiarificatrice esposizione Le arti a Vienna in occasione della Biennale del 1984 perché la genialità di Klimt fosse definitivamente sdoganata e gli si riconoscesse un ruolo addirittura anticipatore del surrealismo e dell'astrattismo. Questa ambivalenza, d'altronde, è proprio uno degli elementi caratterizzanti la nascita e lo sviluppo dell'arte di fine secolo e inizi '900 nell'area asburgica, densa come poche di autori e opere fondamentali. Il tutto nel drammatico crogiolo della “finis Austriae”, dove stava tramontando “l'età dell'oro della sicurezza borghese” per diventare il “terreno di prova per la distruzione del mondo”. La società asburgica era infatti il laboratorio dove si andava delineando la crisi antropologica che investì quasi tutta l'Europa, con lo scricchiolio delle antiche strutture patriarcali e familiari, la crisi dei ruoli sociali, professionali e della stessa sessualità con la messa in discussione della positivistica percezione oggettiva e razionale della realtà.
Non per niente è qui che decolla la psicoanalisi freudiana, con la sua teorizzazione dell'ambivalenza umana nella contrapposizione tra energie vitali e istinto di morte. La mostra milanese, allestita in stretta collaborazione con il Belvedere di Vienna, “Propone - come ha scritto Domenico Piraina direttore del Palazzo Reale – alcuni aspetti spesso sottovalutati dalla critica klimtiana: gli anni dell'apprendistato artistico … l'amore per la manualità artigianale e per la preziosità dei materiali, derivato dal padre, il legame artistico con i fratelli Ernst e Georg, la fondazione di un autonomo sodalizio artistico, le prime commissioni pubbliche, senza tralasciare, naturalmente, la Secessione viennese e alcune vette artistiche riguardanti il Klimt maturo”.
Tanti sono i pezzi, celebri o meno, che rendono affascinante l'itinerario nelle sempre affollate sale dell'esposizione, ma senza dubbio la “summa” della poetica e, ancora, dell'ambivalenza klimtiana, è senza dubbio la ricostruzione del Fregio di Beethoven, realizzato nel 1902 nel viennese Palazzo della Secessione. Qui tutta la contraddittorietà dell'esistenza umana si trova condensata nei preziosi pannelli pittorici che rappresentano la lotta tra l'anelito alla felicità che si scontra con le forze avverse e che può essere sublimato solo nella poesia. Inevitabile il parallelismo tra la tripartizione freudiana di Io-Es-Super Io, ma qui si può vedere anche in filigrana l'influenza della triade che sottese la formazione culturale dell'artista viennese: Nietzsche, Schopenhauer, Wagner. Se poi ci soffermiamo sui gruppi e sulle singole figure, spicca un intrigante repertorio di archetipi femminili che rappresentano, da una parte figure salvifiche, dall'altra la lussuria, l'impudicizia e l'incontinenza, circondate da forme di falli e vulve.
Era proprio l'ambiguo “archetipo” del “grande femminino” (madre-puttana-femme fatale-femme fragile) che aveva scatenato il contrastato interesse di artisti e psicologi della grande Vienna: se per Schnitzler non c'era nessuna possibilità di sentirsi sicuri di fronte alla donna, e per Kraus la femmina era essere menzognero, ipersessuale e antisociale, Reik era convinto del ruolo umanizzante della donna e Groddeck si aspettava dal nuovo sesso “in ascesa” un'arte “nuova e più profonda: l'arte di essere donna”. Ed è così anche in Klimt con le sue figure femminili erotizzate nel loro serpentino fluttuare in un eden liquido, oppure contornate da pollini, pistilli, come da ovuli e spermatozoi, dove si manifesta una panteistica esaltazione del sesso. Però, dietro questa gioiosa visione, ecco emergere dall'inconscio le inquietanti rappresentazioni di una primitiva, indomabile forza che spinge l'uomo all'autodistruzione e di cui la donna, con i suoi poteri magici si fa vettrice.
D'altronde, oltre che nell'impero e nella società austriaci, il tarlo della contraddizione si muoveva all'interno della stessa psiche del pittore, angosciato da sensi di colpa e vittima di crisi depressive nascosti dietro una vita tranquillamente borghese e una gelosa difesa della propria intimità. Dietro il suo sostanziale pessimismo, che l'aveva portato a rappresentare nei pannelli per gli affreschi dell'Università di Vienna la medicina, la filosofia e il diritto avvolti in un'aura di mistero e d'ambiguità in modo antitetico alle aspettative celebrative della committenza che poi rifiuterà il suo progetto, c'era in lui il desiderio di fare diventare l'arte e la bellezza parti integranti della vita dell'uomo, così come aveva preconizzato l'Arts and Crafts di William Morris e così come la sua Secessione dall'arte accademica e “biedermeier” aveva propugnato fin dal 1897. Il tragico ciclone della Prima guerra mondiale e il crollo dell'Impero danubiano dovevano porre fine anche a questa generosa utopia e nell'ultimo periodo klimtiano la fantasmagoria di ori e astrazioni decorative verrà gradualmente meno, per attingere a una policromia più sobria; alle donne seducentemente curvilinee si sostituirà, come nell'ultima Eva, composta nel 1917 a un anno dalla morte, una visione del corpo femminile meno erotico e più materno. Sarà poi il suo grande discepolo Egon Schiele a portare alle estreme conseguenze espressioniste l'atmosfera tragica in cui il cataclisma bellico aveva sprofondato tutta l'Europa.
Una mostra, questa milanese, che conferma che l'interesse per Klimt e l'Art Nouveau, non è stata un'effimera ventata di moda esplosa negli anni settanta, ma che, attraverso la ricostruzione delle “origini di un mito”, può portarci a scoprire e scandagliare un mondo più profondo, dove l'arte può dischiudere la coscienza e la conoscenza anche di parti nascoste del nostro Io. Infatti l'opera d'arte è opera di svelamento e si avvicina dunque a quelle verità che solitamente il pensiero razionale non riesce a cogliere nella loro interezza, mentre la mente sognante dell'artista, come dice Freud ,“nelle conoscenze dello spirito sorpassa di gran lunga noi comuni mortali, poiché attinge a fonti che non sono state ancora aperte alla scienza”. Gli artisti, e Klimt è uno dei più emblematici in questo senso, sono dunque dei “sognatori” che sanno porsi di fronte all'ignoto e all'inaudito rendendolo raffigurabile e riconoscibile tramite le loro visioni e dove l'inconscio non è rappresentato così com'è, ma secondo l'intuizione freudiana, subisce “una trasformazione che ne mitiga l'aspetto urtante … ne cela l'origine personale e offre agli altri, rispettando regole estetiche, seducenti premi di piacere”.