La presente analisi non si pone quale lavoro accademico né esaustivo né vuole porre in essere una critica teologica o filosofica al testo dell’Esortazione, ma si limita a considerare secondo ragione, senza una competenza scientifica specifica, e secondo i Dogmi della Dottrina della Chiesa cattolica, alcuni passi dell’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium” scritta da Papa Francesco nel 2013 con lo scopo di sottolineare parti testuali nelle quali il linguaggio appare “eccentrico”, extravagante, irrituale, nel duplice senso di “non adatto” agli scopi che si prefissa la stessa Esortazione apostolica e nel senso di discostante rispetto al linguaggio religioso, vangelico e cattolico nei suoi stilemi generali e ricorrenti. Si tratta quindi di un’analisi culturale-linguistica generale, sia interna che esterna del testo, che mai pretende di interpretare il reale e più profondo pensiero del Pontefice né ambisce a dare una valutazione complessiva sul valore o sulla qualità dell’Esortazione, ma si limita a sviscerare selettivamente il testo quale oggetto narrativo in se stesso considerato.
Questa analisi si origina dall'osservazione spontanea, quale semplice lettore, di alcune difficoltà di comprensione del testo e si muove quindi secondo un intento di chiarificazione e di problematicizzazione privo di scopi secondari o particolari o ulteriori rispetto a a questa istanza di chiarezza e di comprensione. Penso che se si possa trarre una morale dall'impressione finale e complessiva ricavata in merito ai passi considerati essa sia la seguente: è difficile comunicare in modo efficace se non si risolvono prima questioni interne di identità e di consapevolezza. ll testo utilizzato è quello delle edizioni San Paolo, allegato a “Credere” e finito di stampare nel novembre 2013 in Seggiano di Pioltello (edizione rilegata). Considereremo solo alcuni passi, ma non marginali, i quali evidenziano l’utilizzo di un linguaggio eteronomo, importato, che veicola l’alto rischio di una sua scarsa efficacia rispetto ai fini indicati nonché l’alto rischio di generare strutturalmente ambiguità, incomprensioni, fraintendimenti. Evangelii gaudium: di che si tratta? Di una forma e di un testo che vogliono sia chiarire, insegnare, illustrare pubblicamente, in una parola: catechizzare, su cosa sia la gioia che viene dal Vangelo di Gesù Cristo, sia porsi quale insieme organico di linee guida precise per orientare e rafforzare le attività pastorali del clero cattolico e del laici cattolici nella prioritaria direzione di evangelizzare e convertire chi non crede. Iniziano dal paragrafo intitolato: “Un improrogabile rinnovamento ecclesiale” (punto 27), interno alla sezione II: “Pastorale in conversione”, facente parte del Capitolo “La trasformazione missionaria della Chiesa”. Già nell'utilizzo della terminologia delle intitolazioni notiamo una sorta di programmazione linguistica molto precisa e pressante, da manuale operativo di tipo politico o economico. Il termine “improrogabile” è un termine tipico della retorica politica e a sua volta derivante dal linguaggio giuridico. Denota un urgenza, induce allerta e scuotimento. Presuppone logicamente che ci sia un grave problema/pericolo in ciò che va cambiato. L’oggetto della critica e di questo annunciato cambiamento sembra essere l’insieme della Chiesa cattolica nel suo aspetto umano e organizzativo in quanto il testo recita: “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa”. Anche qui abbiamo uno stile linguistico tipicamente politico, oratorio, che mira di per sé alla persuasione diretta e non all'argomentazione.
Il termine “sogno” rinvia immediatamente, quasi in un’associazione di immagini e segni, ai discorsi di Martin Luther King e di J.F. Kennedy. Un lessico estraneo al linguaggio religioso (e cattolico in particolare). Possiamo parlare di un lessico che mescola intenzioni politiche a religiosità quale suggestione e metafora. Strutturale all'oratoria politica è la “vaghezza”. Cosa significa “scelta missionaria”? Su cosa si fonda la petizione di principio che ogni struttura ecclesiale sia improntata all’autopreservazione? Sembra scorgere fra le righe un allusione ad un accezione negativa del concetto di “struttura”, come se ogni struttura fosse di per sé negativa in quanto automaticamente autoreferenziale. Questa allusività introduce, senza dirlo espressamente, il tema dell’identità spostandone il baricentro dalla struttura al tema della “scelta”. Qui la “scelta” assume un ruolo non più individuale ma sociale, come si trattasse di una scelta collettiva che tutti dovrebbero prendere per il bene della Chiesa. Mentre viene facile lasciar andare l’immaginazione nella riforma degli “orari” in senso più missionario, ad esempio organizzando Messe serali più tarde e notturne (ma perché non suggerirlo espressamente allora?) riesco molto difficile pensare all'auspicata “riforma del linguaggio”. Si allude ai social network? Ma allora si tratta più che altro di strumenti di comunicazione, più che di linguaggio, già ampiamente diffusi tra il clero e i laici cattolici. Basti vedere la quantità e il dinamismo di siti web cattolici che svolgono una funzione simile alle agenzie di informazione, ai gruppi di discussione e alle riviste.
In base a cosa si dovrebbe mutare il linguaggio ecclesiale? Secondo quale principio o criterio? Cercheremo invano nell'Esortazione apostolica indicazioni scritturali o razionali o di stile. Viene semplicemente posta una serie di petizioni di principio, spesso prive di un contesto di riferimento. Qui la petizione di principio, vuota di precisazioni, si declina nella direzione di un'immagine di “radicalismo riformatore” che ricorda molto il linguaggio politico. Il tema della riforma quale istanza strutturante, costante, prioritaria inizia nella storia europea con Elisabetta I e il suo suggeritore Francesco Bacone, i quali introducono una nuova mentalità politica ispirata al pragmatismo, all'attivismo, alla tecnocrazia. Con Elisabetta I e Francesco Bacone il pensiero magico-utopistico inizia a trovare riscontri di sperimentazione sociopolitica e culturale. Dal paragrafo 27 sembra quindi emergere quindi un tono di “missionarietà totalizzante”, collettivizzante. Non si parla invece della Chiesa quale amministrazione dei sacramenti e quale maestra di formazione. La prospettiva del racconto sembra focalizzarsi solo sull'urgenza di “uscire fuori e incontrare”, tema dominante nell'Esortazione apostolica. Il radicalismo implicito nella frase “trasformare ogni cosa” viene connesso quindi ad un'accezione sempre negativa del concetto di struttura insieme all'introduzione della novità lessicale della “conversione pastorale”. Questo neologismo va letto insieme all'altro della “trasformazione missionaria della Chiesa”, dove l’oggetto della trasformazione e della missione è la Chiesa stessa, e non i “lontani” della fede. Sembra di essere in presenza di una Chiesa che debba autoevangelizzarsi, e autoconvertirsi. La comunicazione a questo punto sembra davvero confusa. Vengono incrociate due polarità, due petizioni di principio: 1) la Chiesa quale prassi e struttura non va bene perché poco missionaria 2) la Chiesa quale azione pastorale deve convertirsi, come se la conversione non fosse questione individuale ma prima di tutto questione di scelte organizzative generali, come se la stessa “azione pastorale” della Chiesa fosse una persona bisognosa di conversione. Notiamo una possibile contraddizione: come poter convertire ed evangelizzare se le nostre attività pastorali già in essere abbisognano a loro volta di una profonda conversione? Come ripartire con slancio missionario se il giudizio che la Chiesa ha di se stessa è così negativo? Si può comunicare un identità confusa, divisa, molteplice?
La contraddizione potrebbe essere risolta entrando in profondità sul tema della formazione e della difesa/promozione dell’identità, tema che però non viene del tutto trattato. Per il primo punto inoltre non viene chiarito cosa ci sia nelle attuali strutture ecclesiali di così tanto negativo da impedire la missionarietà della Chiesa. Oltre a ciò il linguaggio sembra frequentemente confondere il piano della prassi della maggioranza cattolica (sia clero che laici), criticata a priori in quanto pigra, tiepida, e poco missionaria, e il piano delle scelte organizzative e strutturali generali, responsabilità di ristretti vertici ecclesiali e del Pontefice in primo luogo. Assistiamo ad un continuo e disorganico entrare ed uscire dell’argomentazione dal livello sociale a quello individuale-interiore. A p. 55 si conferma questa impostazione politico-ideologica parlando di “stato permanente di missione”, quale must programmatico, quale condizione organizzativa strutturale. Sembra quindi potersi riassumere il tema portante dell’Esortazione quale spostamento del baricentro della politica pastorale dalla dottrina all'organizzazione, dall'insegnamento al contatto, dal governo alla contaminazione sociale, dalla gerarchia alla creatività. Se la Chiesa è una realtà che va vista in continua trasformazione, come recitano i titoli di capitoli, sezioni e paragrafi citati, quale Chiesa che si sta convertendo mentre cerca di convertire gli altri, si apre come dicevamo un problema di identità, di autocoscienza.
Questo linguaggio creativo e polisemico rischia di destabilizzare e confondere, mentre una direttiva operativa richiede chiarezza, precisione e concretezza, al cui posto abbiamo invece un linguaggio che procede per forme eterogenee non coordinate: petizioni di principio, concetti astratti, argomentazioni retoriche, allusioni, metafore, toni poetici, stilemi politici, moduli da oratoria verbale. Paradossalmente il desiderio di vivere l’annuncio cristico “senza glossa”, come espresso in conclusione all'Esortazione, produce un testo che abbisogna di molte glosse in quanto appare indeterminato ed eterogeneo nei modelli culturali presupposti e nella elusa precisazione del rapporto mezzi/fini. La visione dell’esistente ecclesiale assume un bilancio valutativo del tutto negativo, ma non si affronta la questione delle cause e dei rimedi, affidando gli aspetti risolutivi ad una missionarietà vista quale panacea. Il testo parte quindi da una dura autocritica ecclesiale, fattore demotivante rispetto all'intenzione di rafforzare lo slancio missionario. Seconda possibile incoerenza interna la ravvisiamo nella focalizzazione totalizzante sul movimento dell’"uscire" quale tema simbolico innalzato quasi a paradigma archetipale. La questione identitaria emerge criticamente non solo dalle contraddizioni interne della visione dell’esistente, del “dover essere” e della comunicazione, ma pure nel dare come presupposta, eludendola, la dimensione dell’identità che si deve “portare fuori”. Il testo talvolta parla alla Chiesa quale istituzione umana come se fosse un singolo individuo che deve svegliarsi dal torpore per farsi sempre missionario (personalizzazione simbolica del discorso) e altre volte prende posizioni simili ad una “filosofia dell’organizzazione”, più allusa che esplicitata.
Sul banco degli imputati sembrerebbe sedere però sempre la Chiesa, sia nell'immagine del singolo credente che in quella di generico membro del clero o di anonima “struttura ecclesiale”. Il testo quindi indurrebbe a pensare che siano solo i pastori il cuore del problema e, quindi, l’oggetto principale che figura quale destinatario di riferimento della pastorale, della conversione, della missione. Abbiamo un testo che ricorda l’immagine di un ciclo discorsivo autoreferenziale che rischia di demotivare e confondere proprio i soggetti protagonisti dell’azione missionaria. La missione quale istanza totalizzante e permanente che viene assolutizzata omettendo la trattazione di altre dimensioni ecclesiali rischia di indurre effetti “ansiogeni” e di autocolpevolizzazione. Il presupposto di un rinnovato slancio missionario strutturalmente si rivela invece sempre in un’operazione di conferma dell’identità. Quale soggetto non può convincere gli altri a partecipare alla propria identità se non è convinto per primo egli stesso della stessa? Qui il testo invece sembra prestarsi ad essere letto nel senso di una fluidificazione e destabilizzazione dell’identità, sul presupposto di un dissidio fra identità e struttura, fra visione e realtà. Se si è divisi come si può persuadere gli altri? Va risolta prima la scissione interna, che questo testo invece incoraggia, potendosi leggere strumentalmente e faziosamente. Come poter realizzare la “conversione missionaria”? (p. 59) La missione non è conseguenza della conversione? O si intende che tutti dobbiamo convertici al ruolo di missionari? Il focus sempre attivisticamente posto sull'aspetto del “movimento”. Manca del tutto il tema della “cura delle anime”, cioè non si parla dell’esigenza quotidiana (strutturale a qualsiasi “Chiesa” o appartenenza) di offrire una direzione spirituale ai fedeli, una formazione e una conferma nella dottrina. Forse è qui che va cercato il deficit di missionarietà? Il testo non considera questo differente scenario ma si focalizza totalmente solo sulla prospettiva del proselitismo, come se la Chiesa dovesse essere prima di tutto una macchina bellica per la produzione di proseliti a cui va piegata ogni altra questione, e rispetto alla quale ogni forma e struttura rischia di porsi quale laccio/lacciuolo di intralcio. Questo linguaggio ricorda la retorica delle teorie economiche ottocentesche sulla liberalizzazione e privatizzazione del mercato e dell’economia. Il tono del linguaggio privilegia in misura dominante il concetto di conversione/annunzio/evangelizzazione/missionarietà quali fatti e azioni eclatanti, risultati sociali, chiavi di svolta, “salti di paradigma”, alienando dal discorso i temi dell’interiorizzazione, dell’ascesi, della santificazione.
Manca il senso dell’ordinaria amministrazione della vita spirituale. Se tutto deve riorganizzarsi attorno alla celebrazione del tema della conversione (non misurabile) allora si rischia di alludere al dissolvimento di ogni organizzazione sedimentata nel passato. Ma senza organizzazione non c’è identità. Il testo non si occupa di un tema organizzativo importante: come garantire la tesaurizzazione delle buone pratiche e delle saggezze che (nelle parrocchie ad esempio) si sono sedimentate nel tempo. Il rischio attuale e futuro è avere parroci “ad ore” e un'organizzazione svuotata dall'improvvisazione dell’emergenza pratica. Il senso buono del testo dovrebbe essere il ricordare che le strutture sono mezzi e non fini ma i moduli retorici utilizzati non sembrano efficaci e chiari. Certi “mezzi” infatti non sono eliminabili pena l’annullamento dell’identità della Chiesa quale il ruolo fondamentale dei sacerdoti e dei vescovi. Siccome i fini della Chiesa sono spirituali, cioè la salvezza delle anime, e non socioeconomici, non possono misurarsi-quantificarsi e quindi le questioni organizzative quindi dovrebbero assumere un livello meno importante della funzione catechetica e di governo delle anime. Il tema della dottrina invece non viene assorbito dal linguaggio dell’Esortazione. Anzi si alludono a non meglio precisate “dottrine” che ostacolerebbero la missionarietà della Chiesa (p.63). L’affermazione che la parrocchia deve “riformarsi e adattarsi costantemente” (p. 57), come se fosse un camaleonte e non un punto di stabilità, dimostra come l’assolutizzazione del movimento dell’"uscire" lasci vuoto lo spazio dell’identità, cioè, per parlare simbolicamente, lasci vuota proprio la Chiesa quale luogo sacro. La conversione corrisponde archetipicamente invece ad un “entrare” in Chiesa, cioè ad iniziare a partecipare ad una realtà già in essere e non sempre in perenne formazione.
Il concetto infine di “riforma” e di “adattamento” presuppone un termine di riferimento e dei principi di indirizzo, altrimenti è termine vuoto e rimanda allo spontaneo e inevitabile mutare del divenire nel tempo, fatto e non valore. Se non si interpreta correttamente questo testo sembrerebbe che il divenire di per sé sia superiore all’essere ma già Aristotele aveva capito che la logica vuole il contrario: il divenire presuppone l’essere quale suo riferimento superiore, altrimenti non sarebbe neppure pensabile. Se si sostituisce il concetto di identità con quello di “percorso” e di “esperienza” avremo percorsi ed esperienze sostanzialmente diverse e alienanti rispetto al punto di partenza. La Chiesa, come ogni realtà organizzata, presuppone un'identità stabilizzante attorno alla quale si ci possa aggregare e attorno alla quale si possa crescere. Il mito del percorso quale tema assoluto impedisce una vera organizzazione e una vera crescita. Un altro aspetto di de-formalizzazione e de-strutturalizzazione (sul presupposto aprioristico che tutto ciò favorisca la missionarietà) che emerge con forza riguarda il racconto della visione del ruolo del Pontefice. Eccentricamente anche il “papato” viene ridotto ad oggetto passivo di una necessaria conversione (p. 61). Qui l’ambiguità del testo sembra derivare dalla confusione fra concetto di riforma con quello di conversione. Il “papato” per definizione non può convertirsi in quanto non è una persona, né ha un anima, se non Gesù Cristo stesso se parliamo di “anima del Papato” in senso metaforico-assiologico. Se si intende “conversione” del Papato quale sua necessaria riforma organizzativa il testo però non spiega però i motivi di questa petizione di principio. Cosa non funziona nel ruolo papale in rapporto alla missionarietà della Chiesa?
I fatti evidenti degli ultimi papati ci dimostrano l’esatto contrario: cioè come siano stati solo i Papi i protagonisti maggiori dello slancio missionario cattolico, specialmente da Giovanni Paolo I in poi, pure in assenza di grandi riforme interne, e questo al di là di difficili-impossibili valutazioni in termini di successo, ma semplicemente a livello di impatto comunicativo. Se un aspetto organizzativo nella Chiesa ha avuto successo negli ultimi 30 anni è proprio la verticalizzazione e non la collegialità. Un chiaro esempio sono le GMG. Il testo confonde fra Papa quale istituzione/ruolo e Papa quale persona che lo ricopre, quale credente/peccatore. Il testo infine non si occupa della natura divina dell’istituzione papale ma la tratta solo a livello di tema organizzativo sul pregiudizio ideologico che “collegiale è meglio”. Né siamo messi in grado di comprendere perché le conferenze episcopali debbano esercitare un nuovo ruolo dottrinale (p. 62). Da un certo punto di vista la dottrina è sempre coinvolta nei lavori degli organismi episcopali. Se si vuole attribuire ad essi un nuovo e superiore ruolo dottrinale questo non può che accadere a scapito del ruolo unificatore e conformatore/confermatore del Papa. Tertium non datur. Ne scaturirebbe un altro rischio: la territorializzazione dell’espressione della dottrina. Che la centralizzazione ecclesiale sia “eccessiva” e che tutto ciò “complichi la vita missionaria” appare un'ennesima opinione non motivata comunicata come se si trattasse di un'evidenza matematica. A seguire la ragione appare il contrario: l’attuale scarsa dinamicità missionaria (se è tale) troverebbe un valido aiuto organizzativo in una maggiore verticalità organizzativa ecclesiale mentre nei fatti caos, immobilismo, debolezza, lentezza, burocratizzazione spesso fanno rima con “collegialità”. Se si frantuma il processo decisorio si indebolisce la forza missionaria. Questo è dato ovvio per qualsiasi organizzazione. Questo linguaggio sembra confondere la Chiesa quale “comunione mistica” con la Chiesa quale Istituzione gerarchica, dissolvendo la seconda in una visione solo sociologica e orizzontale della prima. Ma il carisma non è organizzazione e l’organizzazione non garantisce né carisma né alcuna aura. Se compito del Papa è “rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del ministero (papale) che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali del’evangelizzazione” (p. 61) ci troviamo di fronte al possibile aprirsi di un'ennesima costellazione semantica ambigua e fuorviante.
Il senso della proposizione citata non è chiaro. Sembra alludere al fatto che l’attuale ruolo divino del Papato si sia allontanato da quanto aveva deciso il suo divino Fondatore. Affermazione molto grave e rilevante, ma non spiegata o motivata. Se fosse vero ciò si ammetterebbe uno scisma o un eresia già in atto ai massimi vertici oppure si vorrebbe alludere ad una critica pesantemente negativa dei pontificati precedenti. Se il Papa e il Papato hanno bisogno di aiuto per capire chi sono e cosa devono fare ritorna ancora il tema dell’identità ma ritorna in modo eccentrico quale riconoscimento massimo di una grave crisi di identità ecclesiale congiunto alla sua accettazione quale regola di comportamento. Detto in parole povere: non ci sono più Papi come Gesù voleva e aspettiamo di sapere come dovranno essere. L’uso poi del verbo al passato in riferimento all'istituzione del papato da parte di Gesù Cristo sembra rafforzare una visione del Papato quale fenomeno storico, relitto del passato. Una domanda potrebbe allora sorgere spontanea: ma Gesù vuole ancora il papato?
Questa domanda non vuole essere un’ irriguardosa provocazione ma semplicemente la precisazione di un possibile “sottotesto” incluso allusivamente nel linguaggio utilizzato. La formula organizzatoria su cui si insiste conclude affermando “anche il papato e le strutture centrali hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale”. Può così ritornare il paradosso che le istituzioni che più sono deputate alla missionarietà della Chiesa siano essere stesse bisognose di formazione/conversione missionaria. Non è chiarito però da chi o da che cosa venga questo affermato appello di conversione missionaria a cui devono adeguarsi persino il Papato e la Curia papale. Dall’opinione pubblica? Da chi non è cristiano? Dal popolo dei fedeli? Siamo costretti a restare nelle nebbie delle congetture. Non troviamo lumi di decrittazione di affermazioni che restano testualmente o autoreferenziali o esotericamente codificate. L’unico obbiettivo preciso sembra essere un target di tattica organizzativa e viene identificato nel raggiungimento di sempre maggiore collegialità sul presupposto implicito e sillogistico che maggiore collegialità produca maggior missionarietà. Il testo appare deficitario nell’omissione della trattazione dei reali destinatari della missione: i non credenti.
I cenni che attengono ai territori umani dei non credenti appaiono fugaci e generici. Se ne accenna ad esempio alle pp. 98-99 quando si parla delle metropoli multiculturali quali sfide missionarie da affrontare. L’unica criptica indicazione appare però quella di “arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città”. La prospettiva del linguaggio è squisitamente sociologica, non spirituale. L’anima che sembra interessare non è la singola anima del non credente ma la metaforica “anima della città”, e l’ambito di intervento e/o il destinatario di un'azione pastorale mirata sembra un ambito elitario per “addetti ai lavori”. Si parla infatti di una sorta di “genesi del racconto” e si usa il termine di “paradigma”, termine utilizzato nella psicologia sociale, nell’antropologia e nella psicoanalisi. La battaglia sembrerebbe quindi specialmente linguistica e mirante ad entrare nella produzione di modelli di massa di comportamento. Questo eccentrico tema della battaglia del linguaggio fatta entrando nei mondi del linguaggio (e non attraendo i mondi del linguaggio in quello della religione) trova altri cenni nell’Esortazione. A p. 69 viene proposto in sintesi un tema tipico del linguaggio politico degli anni sessanta-settanta: il “mito dell’”aggiornamento” rispetto alla velocità dei cambiamenti socioeconomici e culturali. Il sottotesto deriva dalla logica e dal linguaggio consumistico della moda e delle “mode” le quali cambiando incessantemente chiedono a chi le segue un continuo “aggiornamento”. Il modello missionario deve quindi subordinarsi a un confronto con i linguaggi non religiosi per apprendere nuove forme di comunicazione della novità vangelica. Il testo non spiega come sia possibile che un linguaggio non religioso possa insegnare al linguaggio religioso l’efficace comunicazione della perenne novità del Vangelo.
L’ambiguità linguistica di questo passo può portare a credere che il linguaggio religioso sia inferiore rispetto all’efficacia e all’importanza dei linguaggi non religiosi. Non viene considerata l’opposta possibilità che la missionarietà ecclesiale sia poco efficace proprio perché utilizza un linguaggio non sufficientemente e non adeguatamente religioso, e che, quindi, si confonde con l’indistinto rumore di fondo del “mondo”. Permane l’elusione del tema della formazione e delle priorità e dinamiche di approccio in rapporto ai “grandi assenti” dell’Esortazione: i destinatari dell’evangelizzazione. L’Esortazione ci ricorda che “una cosa è la sostanza e un'altra la maniera di formulare l’espressione”. Questa affermazione introduce un elemento di discontinuità e scissione fra forma e significanza, a detrimento della prima secondo il mito e la retorica della sostanza quale res indipendente dalla forma. Questo mito riceve forza dalla propaganda liberale ottocentesca nei temi politici e sociali, ricca di sentimentalismi e di idealismi. La comunicazione efficace e avente un senso è invece la risultante di una forte coerenza fra forma e sostanza. Destrutturare la comunicazione, svalutandone la forma, significa farne evaporare il senso. I mezzi attuali di comunicazione insegnano in senso opposto invece la prevalenza del mezzo, della forma, del significante sul contenuto, sulla sostanza, sul significato. La forma imposta da un sms condiziona qualsiasi cosa si voglia trasmettere.
Se c’è quindi un insegnamento che il mondo può dare è quello di confermare l’idea cattolica tradizionale della prevalenza della forma all’interno della comunicazione ecclesiale. L’Esortazione invece introduce una petizione di principio estremamente eccentrica, anche a livello di filosofia spicciola della comunicazione: “Con la santa intenzione di comunicare loro la verità su Dio e sull’essere umano in alcune occasioni diamo loro un falso dio e un ideale umano che non è veramente cristiano. In tal modo siamo fedeli ad un formulazione ma non trasmettiamo la sostanza. Questo è il rischio più grave” (p. 69). Questa affermazione sembra introdurre un enigmatico paradosso. Non si comprende come sia possibile che un annuncio vangelico dottrinariamente perfetto e condotto con buona intenzione non possa veicolare la sostanza del Vangelo. Sembra un caso di scuola, un’ipotesi astratta e rara, che viene però assunta paradigmaticamente quale esempio per dimostrare che la forma non è essenziale ma lo è solo la sostanza. Questo modo di argomentare ricorda la stessa tecnica persuasiva utilizzata da Lutero per relativizzare i sacramenti con l’esempio degli abitanti di una terra lontana, o del deserto, rimasti privi di sacerdoti, come fu il Giappone per un secolo. Siccome continuavano nel credere e nella preghiera al ritorno dei sacerdoti quegli abitanti andavano considerati ancora cattolici/cristiani. Questa argomentazione deduce suggestivamente dalla possibilità del caso extra-ordinario la non superiorità della regola/realtà ordinaria. Si confonde possibilità con valore, eccezione con regola, in una logica di livellamento verso il basso, di semplificazione di un’identità data muovendosi verso la costruzione di una nuova identità. Il problema filosofico alla radice, qui implicato, è che non esiste a rigore di logica una sostanza senza forma, cioè indeterminata, infinita, in quanto solo Dio quale Spirito perfettissimo è infinito. Solo Dio è sostanza senza accidenti, ma lo è in quanto Persona. Persino in Dio esiste la forma, che è quella trinitaria. E Dio predilige la forma. La Croce è forma, è formante.
Anche nel rapporto fra Padre e Figlio entra il concetto di forma. San Paolo ci ricorda che il Figlio è impronta del Padre, suo irraggiamento. Non possiamo fare a meno dei concetti aristotelici e tomistici se parliamo infatti di forma e di sostanza, perché sono concetti che in quel pensiero sorgono e vengono sistematizzati. L’esaltazione paradossale della “sostanza senza forma”, inesistente perché la forma garantisce il significato, trasla in una dimensione di alienazione e svalutazione lo stesso concetto di religione il quale si fonda sempre sui concetti e realtà formali: i dogmi, i sacramenti, il sacrificio, l’offerta, la liturgia. Senza forma si perde il limite e quindi diventa evanescente sia la coscienza che l’identità. Non si comprende infine perché i cambiamenti socioeconomici debbano spingere a cambiare il linguaggio missionario. Il testo elude qualsiasi valutazione sulla qualità e sul valore di questi cambiamenti, assumendone come petizione di principio un valore condizionante inoppugnabile, dogmatico, che destabilizza di per se stesso la certezza psicologica delle ragioni della Fede. Se infatti non sono in grado di comunicare il messaggio qualcuno potrebbe pensare che il messaggio in se stesso non abbia grande valore, siccome oggi domina una società dell’ipercomunicazione, anche se superficiale e non mediata/meditata.
Il linguaggio dell’Esortazione mostra un ulteriore eterogeneità e incoerenza proprio nella metafora della città (p. 99) in quanto da una parte la si esalta come luogo privilegiato di missione, dall’altra se ne parla più a livello di territorio del dialogo e dell’osservazione piuttosto che quale destinataria dell’annuncio. La metafora della città sembra indicare una Modernità che la missionarietà è chiamata ad ascoltare per impararne i linguaggi. Ma come evangelizzare un territorio che si riconosce quale autonomo soggetto formante e narrante? Tertium non datur. La missione evangelizzatrice sembra affidarsi ad un autoesaltazione sociale e comunitaristica. Assai eccentrico è il termine “mistica del vivere insieme” (p. 111), che sembra ricordare il pensiero di Bergson e il “culto del divenire”. Sembra riconoscersi un valore intrinseco al dinamismo sociale in quanto tale. Il sottotesto emerge con chiarezza: è male l’isolamento, è bene la contaminazione sociale. La psicologia del testo potrebbe portare a pensare che vi sia una lettura molto fisicizzante del male (l’isolamento) e del bene (il comunitarismo), come se si fosse mossi da un horror vacui che rende impossibile gestire una vita spirituale interiorizzata nel rapporto con Dio e la propria anima ma abbisogna sempre di un esteriorizzazione sociale.
Se l’isolamento è egoismo il testo apre ad una logica domanda: i monaci e i frati sono degli egoisti? E’ la stessa domanda che si fecero i liberali anticlericali ottocenteschi. L’aspetto missionario della Chiesa viene fisicizzato e inteso quale processo dinamico di propaganda e di socializzazione. Una logica molto simile a quella del proselitismo. Notiamo su questa scia un'incoerenza fra il titolo del paragrafo, “Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo” (p. 111) e il testo seguente dove non si usa un linguaggio cristiano o comunque religioso ma ci si limita ad apprezzare il valore di situazioni tecnico-sociali (i nuovi mezzi di comunicazione) già date in se stesse considerate, nella loro pura esistenza, e non quali occasioni di evangelizzazione. Lo scopo indicato sembra essere quello non di diffondere l’identità cattolica ma quello di diffondere “la mistica del vivere insieme”, cioè sembra volersi propagandare una società della comunicazione più fraterna e più affettuosa in una logica apparentemente del tutto immanente. Il tema della sfida sembra volersi “autofondare” cioè porsi senza il proprio polo negativo, o invertendo la logica missionaria. Se infatti la situazione sociale a livello di comunicazione è ottima, ha un grande valore, offre una grande opportunità, e la questione è solo vivere l’esistente prendendo coscienza del suo valore, viene a mancare il lato competitivo della sfida, la quale presuppone due contendenti. A fronte della potenza della società della comunicazione la “sfida” sembra allora avere l’evangelizzazione stessa quale termine passivo e negativo. L’evangelizzazione cristiana sembra che debba imparare dalla società di oggi e non viceversa. Le celebrate “relazioni nuove” sembrano allora derivare dai mezzi nuovi di comunicazione e non da Gesù Cristo come annunciato nel titolo del paragrafo.
Il tema del dinamismo/proselitismo si carica di una forte valenza politico-sociale quando il testo parla dell’obbiettivo della “costruzione di un popolo” (p. 228). Il termine rivela una connotazione politica molto forte, quasi demiurgica, e ricorda i temi retorici del liberalismo che possiamo sintetizzare nell’ultimo aforisma di Cavour, quasi suo simbolico testamento spirituale: “fatta l’Italia dobbiamo fare gli italiani”. Il pensiero di “costruire un popolo”, e di farlo tramite quattro postulati filosofico-politici, appare un tema assai eccentrico in quanto estraneo al linguaggio e alla dottrina cattolica, mentre si avvicina ad una mentalità ideologica che si muove in uno scenario immanente, esclusivamente storico e sociale. Il testo non spiega come dai postulati della Dottrina sociale della Chiesa cattolica possano derivare questi altri quattro postulati ritenuti di grande valore per orientare la società e, implicitamente, l’evangelizzazione. Da un postulato non si può infine ricavare alcun altro postulato in quanto il postulato per definizione non è scomponibile ma deve porsi quale realtà autoevidente, basica, fondamentale, prioritaria a qualsiasi successiva sequenza di sviluppo.
Analizziamo ora il linguaggio di questi “postulati” i quali vengono illustrati come fossero dei “principi”, cioè delle idee/valori direttivi e ordinanti. Ma il postulato non è un principio. Il linguaggio usato è un linguaggio filosofico divulgativo che mostra quali siano le proprie lontane matrici di origine culturale: un pensiero collettivista, olistico, pacifista, in una parola: hegeliano. La struttura dell’argomentazione appare extravagante in quanto ciascuna illustrazione dei 4 “principi” si articola in due parti: la prima è sostanziata da un discorso di tipo filosofico-politico e la seconda rinvia a citazioni vangeliche le quali vengono utilizzate quale sostegno persuasivo alla bontà delle tesi espresse nella prima parte. Assistiamo quindi ad un’inversione narrativa dove il baricentro è posto su istanze ideologiche, intellettualizzanti, mentre il linguaggio religioso svolge un ruolo ancillare, marginale, strumentale. Queste quattro affermazioni totalizzanti si fondano infine su un dissidio dialettico in quanto si strutturano per contrapposizione. Assai eccentrico appare orientare processi di comunicazione, partecipazione e orientamento tramite scissioni concettuali e speculative, come se per se stessi godessero di un autonoma efficacia dialettica.
I 4 principi sono i seguenti: 1. il tempo è superiore allo spazio 2. l’unità prevale sul conflitto 3. la realtà è più importante dell’idea 4. il tutto è superiore alla parte. Bastano questi titoli per manifestare uno stile narrativo che appare del tutto alieno dalla cultura religiosa e dalle concezioni della Dottrina cattolica. Il testo non esplicita a quali teorie o fondamenti filosofici ci si voglia ispirare. La logica generale è quella di una “tecnica filosofica” programmatica utile a “costruire un popolo” che viva i valori della pace, della giustizia e della fraternità. Quello che colpisce è l’evidente irrelazione fra il valore-scopo e i mezzi, fra queste 4 petizioni di principio e le argomentazioni discorsive a loro suffragio, nonché l’intrinseco scarto incolmabile fra il carattere speculativo e astratto delle 4 “affermazioni cardine” e l’opinabilità empirica di un linguaggio discorsivo che vorrebbe porsi quale prova retorica delle stesse. 1. il tempo è superiore allo spazio. Il testo non chiarisce in quale senso si voglia parlare di “tempo” o di “spazio”. La fisica nucleare e l’astrofisica ad esempio ci hanno abituato a pensare ad un tempo e ad uno spazio relativo, multidimensionale, e pure con Einstein a pensare allo “spaziotempo”, cioè a vedere non più contrapposte queste due dimensioni che sono sia filosofiche che scientifiche ed esperienziali, ma a pensare in senso unitario ed organico, pure nella loro “fluidità”. Questa generica petizione di principio sul valore maggiore del tempo rispetto allo spazio sembra qui rifarsi esplicitamente al pensiero utopistico in quanto il tempo viene metaforizzato quale Polarità assoluta, prospettiva, risolutiva, al posto dell’Eternità, rispetto all’altra polarità dialettica data dalla tensione individuale. L’idealismo di fondo del discorso valorizza quale target assiologico il tema della “pienezza”, cioè la versione immanentistica e dinamica della totalità. Il testo appare politico anche in senso letterale in quanto parla dei “cittadini” quali referenti soggettivi del discorso stesso. L’eccentricità qui diventa globale in quanto si esce dal tema dell’evangelizzazione cristiana. La logica aristotelico-tomistica e lo stesso senso comune non ha mai diviso invece il tempo dallo spazio ma si ha sempre visti in compresenza: hic et nunc.
Scherzosamente possiamo dire che lo spazio al contrario è più importante del tempo in quanto se faccio un viaggio è lo spazio che mi determina i tempi. L’Incarnazione sembra riunificare tempo e spazio insieme all’eternità. Sembra apparire un’incoerenza di fondo data dall’assenza di spiegazione di come il tempo possa porsi quale scenario di valore in una strategia di promozione/manipolazione sociale. Il sottotesto potrebbe presupporre che la tensione individuale e sociale di sviluppo ha come naturale alleato il tempo in quanto spontaneamente tutti i limiti che si frappongono al raggiungimento della pienezza saranno prima o poi superati. Se così andasse letto il testo allora questa filosofia politica assumerebbe toni propri di un progressismo prometeico, quasi nicciano. Saremmo di fronte ad un’“ideologia dell’entusiasmo” connotata da un intenso pragmatismo programmatorio. I rinvii scritturali, vangelici contenuti a sussidio nel punto 225 appaiono “di contorno” non connessi sostanzialmente con la tesi dichiarata. Il valore del tempo non appare uno dei punti chiavi dei passi vangelici citati e sembra strutturalmente difficile usare passi del Vangelo per giustificare un determinato stile di azione politica invasivamente riformista. 2. L’unità prevale sul conflitto. Anche qui l’affermazione apodittica non è seguita da una sua qualificazione o contestualizzazione, né si precisa se siamo nel campo degli auspici o dell’osservazione storica. La comune esperienza del contrario (i conflitti producono divisioni e non si ravvisa un “unità superiore” implicata) porta ad interpretare la tesi come fede nell’unità quale valore totalizzante e quale risultato processuale all’interno di un pensiero dialettico-evolutivo.
Le argomentazioni condotte si possono apprezzare nel linguaggio della negoziazione, nella cultura della mediazione, quali indicazioni di “filosofia dell’approccio e della visione”. Il testo lascia aperta la lettura quindi secondo la logica del pacifismo e secondo una cultura olistica. Il punto 2. è strettamente connesso con il punto 1 dalla comune fiducia che nel tempo e grazie a certe tecniche si raggiungerà l’"Unità", qualunque cosa voglia significare questo termine. Il concetto di “unità” infatti presuppone la precisazione di due identità, che qui vengono lasciate anonime. Non è data infatti una sorta di “unità di contesto”. La società cioè come concetto è già una e unita, per definizione. L’"unità" difficilmente si può apprezzare, come pure la “pace”, in assenza di una sinergia con altri valori di riferimento. Analogamente non viene qualificato il termine “conflitto” tramite l’indicazione delle sue polarità. Il discorso resta nell’indeterminato. Il testo non coinvolge il linguaggio religioso e il riferimento scritturale paolino trasla il linguaggio metafisico e ontologico dell’Incarnazione sul piano dell’argomentazione empirica, non rivelandosi conferente in quanto non si distingue fra storia ed eternità, fra Chiesa e società.
Il punto che chiamiamo 3 recita: “La realtà è più importante dell’idea” (p. 234). Questa affermazione potrebbe chiarire i primi due punti rileggendoli quali posizioni di “idee”: l’unità la vedo sempre superiore e il tempo lo posso pensare superiore allo spazio. Vista invece in se stessa questa affermazione non appare comprensibile se non pensando che si sia confuso il termine idea con il termine “ideologia”. Il punto 3 si fonda infatti sulla demonizzazione dell’"ideazione", come se portasse per forza sempre al sofismo e al formalismo, e sulla celebrazione mitizzante del reale. Sembra una riproposizione del tema retorico dell’esaltazione della “sostanza” pura, quando la purezza può predicarsi solo della forma. Il testo provoca ad una domanda: esiste la realtà quale Realtà, cioè priva di altre qualificazioni? Esiste il reale senza un’idea del reale? Esiste un’esperibilità del reale priva di interpretazione, visione, scelta? Anche qui sembra rinviarsi ad un pensiero hegeliano dove il Reale diventa Spirito. Nelle nebbie della speculazioni sembra perdersi di vista l’obbiettivo del testo: potenziare l’evangelizzazione cristiana. Una “realtà senza idea” si ridurrebbe necessariamente o a tirannica oppressione oppure a mera sperimentazione sensoriale. Questa “idea di un reale senza idea” che sembra emergere dal testo rischia di generare effetti manipolatori simili a quelli delle ideologie!
Senza idea può esistere un ideale? Senza ideale può esistere il senso della religione, può emerge un idea di Dio? Anche nel terzo punto le citazioni scritturali appaiono non pertinenti. Si richiama lo Spirito di Dio e l’Incarnazione. Forse il testo vorrebbe alludere o auspicare ad una rifondazione oggettiva della filosofia dell’essere, ma la sua ambiguità non consente di capire se questa lettura sia corretta. Il linguaggio religioso, rivelativo, sembra venire strumentalizzato per giustificare una sorta di visione olistica e totalizzante del reale. Come percepire e riconoscere lo Spirito di Dio senza un’ideazione, aspetto coessenziale ai processi mentali? L’evidenza oggettiva del reale non è pienamente esperibile fisicamente senza una riflessione, una meditazione che si elevi al di sopra della mera percezione. Né i sensi da soli possono riconoscere la divina presenza di Gesù Cristo. Né si riesce a comprendere dal testo come la svalutazione aprioristica dell’ideazione possa essere utile organizzativamente o spiritualmente a rilanciare l’evangelizzazione. Bisogna puntare sull’istinto? Sull’intuizione metarazionale? Il testo infine si conclude con una grave incoerenza: prima si esalta la realtà e si cita l’Incarnazione di Cristo e appena dopo insegna che: “non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà significa costruire sulla sabbia”.
Sembra di assistere ad un’inversione radicale del valore della rivelazione divina la quale viene accostata ad un’autonoma e non qualificata idea del reale quale polarità dialettica preminente. “Condurre” infatti significa guidare e quindi sembra presupporre che la Parola di Dio da sola non è efficace in quanto disgiunta da quella “realtà” che appare di per sé determinante. La narrazione sembra confondere l’urgenza di “mettere in pratica” la Parola di Dio con la necessità di adattarsi ad un “Reale” che non è la Parola di Dio. Si resta nel dubbio su quale sia la chiave di volta della missionarietà: adattarsi ad una realtà autonoma e aliena, oppure concretizzare la Parola di Dio?
Il testo lascia aperte molte possibilità di lettura: che esista un reale autonomo dalla Parola di Dio, che la Parola di Dio sia fuori dal reale, che il rapporto con la realtà e con la Parola di Dio debba essere senza mediazioni in quanto l’idea è sempre ideologia, ecc. Come può la religione aderire totalmente al reale? Se ciò accadesse non ci sarebbe bisogno di evangelizzazione ma ci sarebbe osmosi fra realtà e Chiesa. Tutto ciò però sarebbe compatibile solo con un pensiero teocratico-dittatoriale.