Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.

(Dino Buzzati, I sette messaggeri)

La domanda essenziale quando parliamo di simbolo è sempre la stessa: che rapporto sussiste fra il simbolo e il reale? Il simbolo richiama sempre l’Essere o si riduce a fenomeno linguistico?

Questa domanda riguarda in generale la relazione fra linguaggio e realtà ma il simbolo sembra recare in sé stesso un qualcosa di superiore o comunque di distinto rispetto al normale utilizzo del linguaggio e questo aspetto del simbolo sembra dirci a sua volta qualcosa sulla realtà.

Prima di provare ad accennare a questa dimensione occorre definire con maggior precisione il rapporto fra simbolo e linguaggio e, comunque, occorre provare a precisare tutti gli aspetti di relazione dialettica che intercorrono fra il simbolo e altri fenomeni simili, linguistici, concettuali e di comunicazione.

In altre parole, siccome il simbolo rivela una natura assai sfuggente, ambigua e di difficile definizione, è necessario portare alla luce tutte quelle altre realtà che hanno qualcosa a che fare con il simbolo, sia in termini di somiglianza che in termini di dissomiglianza. Fatto questo dovrebbe potersi dire qualcosa di più chiaro sulla natura del simbolo e sul suo problematico rapporto con il reale, anche se questo aspetto risulta immediatamente riconoscibile quale interrogazione di natura squisitamente filosofica e, quindi, dipendente dalla concezione che si ha del reale, a sua volta antecedente alla qualificazione che si ascrive al linguaggio.

Qualunque cosa sia il simbolo possiamo comunque elencare sei famiglie di fenomeni vicini al simbolo e che occorre pregiudizialmente definire e descrivere nelle loro similitudini e distinzioni al fine di precisare cosa sia il simbolo e come si comporti e quando compaia e come sia riconoscibile:

  1. Il segno, che include anche: il segnale, il contrassegno e il sigillo, tutti accomunati dalla propensione ad indicare e a riconoscere/distinguere;

  2. Il codice, che comprende tutto ciò che vela, complica e cripta, strutturando una forma minimale di comunicazione come nel rebus e nel pittogramma dove domina l’allusione e così in ogni altra forma di comunicazione e di racconto alternativo (es: comunicazione numerologica, gematrica, subliminale) quale microlinguaggio e traccia ermeneutica, tutti fenomeni accomunati dall’essere forme indirette di lingua e di racconto;

  3. La metafora/allegoria, ampia categoria di forma retorica-figurata/figurante distinta ma accorpabile in quanto presentano entrambe una struttura che moltiplica le relazioni semantiche fra parole e/o segni;

  4. Il modello, dimensione variamente plurale comprendente: l’archetipo, il topos, il typos, il tema-soggetto narrativo (replicabile), la funzione, l’immaginario, l’immagine biblica esemplare in San Paolo, tutte accomunate da una natura di ampia esemplarità, di intento formante-seriale;

  5. L'’atto iconico, includente: l’icona di origine cristiano-orientale, l’emblema, il blasone, il talismano, “l’impresa”, il ritratto, lo still life, il proverbio, il motto, i teloni dei cantastorie, le scenografie, tutte accomunate da una struttura con densa forza di visualizzazione ed efficace portata performativa, focalizzante;

  6. Il modulo narrativo, includente strutture/generi ampi di racconto quali: la visione, la profezia, il rito, la celebrazione, la “messa in scena”, la parabola, tutte accomunate dalla presenza di caratteri ricorrenti, come fossero dei macro-dialetti, delle matrici di declinazione del racconto.

Il segno presenta una maggior concretezza e precisione rispetto al simbolo in quanto appare rivolto prevalentemente all’uso, alla prassi. Area comune con il simbolo è data dalla comune struttura volta al rinvio semantico ad altro. Nello stesso tempo il segno è la famiglia linguistica più ampia in quanto non si dà segno senza linguaggio e viceversa. “Significare” deriva da segnificare, cioè farsi segno delle cose, cioè mutare le relazioni tra le stesse.

Ci sono segni in qualsiasi tecnica e in qualsiasi linguaggio, visivo e non visivo, grafico, artistico, anche industriale: il marchio, l’etichetta, il brand. Il segnale porta all’estremo l’aspetto di utilità comunicativa di ogni segno, fattore poco rilevante per la natura e la presenza del simbolo. La ragione d’essere del segnale è la sua chiara riconoscibilità. Il segnale grida, è un grido che dice: “eccomi qui e ti dico qualcosa”. Ci sono segnali nell’arte? È difficile dirlo in quanto potrebbero essere tutti oggetti culturali frutto dell’ermeneutica dell’opera. Gli strumenti scientifici nell’opera gli Ambasciatori di Holbein il Giovane potrebbero essere considerati dei segnali, in quanto appaiono troppo precisi ed espliciti per essere considerati quali simboli. Il simbolo infatti non grida mai, sussurra, e al massimo canta e incanta.

Il contrassegno ci ricorda una delle origini pratiche più probabili e più arcaiche per l’emersione del simbolo: l’oggetto segnato e spezzato in due, una parte in mano al messaggero e un'altra in mano al destinatario. Questo aspetto ci illumina sulla funzione unificante propria del simbolo e sulla presenza di un’ampia area comune fra segno e simbolo data dal valore di indicazione e di riconoscimento relazionale.

Il sigillo concerne anch’esso il riconoscimento ma veicola una componente soggettiva più marcata e maggiormente celebrativa. Il sigillo ci parla di un’appartenenza di un qualcosa a qualcun altro. L’artista “firma” la sua opera anche con alcuni elementi che possono svolgere la funzione di “sigillo”: l’autoritratto nelle vesti di un personaggio della scena dipinta, un elemento ricorrente ed eccentrico, un vezzo, un dettaglio di successo. Ma il sigillo può riguardare il committente o un aspetto semantico dell’opera ed è frequente anche nei linguaggi simbolicizzanti (religiosi, poetici, criptici). Il sigillo è una forma di autolegittimazione dell’atto creativo, di coronamento e di suggello dell’ideazione e/o realizzazione di un’opus. Attiene alla fase conclusiva di una qualsiasi produzione/creazione/comunicazione di qualità, selettiva.

Il codice è un microlinguaggio con cui si cripta, si vela, di complica una narrazione, si rende indiretta una significazione. Molte sono le varianti possibili di questa modulo: dalla numerologia ai geroglifici, dai messaggi sottotraccia alla più semplice forma di ipertestualità: una citazione letteraria contenuta in un dipinto.

La Melancolia I di Durer cita Luca Pacioli nel suo poliedro platonico e cita il Vangelo nella mole di pietra su cui sta seduto il bambino, come pure cita la tradizione diffusa dei quadrati magici nel suo quadrato di Giove scaccia-malincolia. Il codice è quindi sempre un fenomeno linguistico, una tecnica di comunicazione interna, indiretta, accessoria ad una comunicazione principale. In comune con il segno e il simbolo presenta la connotazione di strutturale rinvio, ma si distingue in quanto si fonda su un linguaggio o un immaginario o un testo o un altro fattore narrativo che è esterno all’opera che lo contiene e a cui il codice rinvia più o meno intensamente ed esplicitamente.

In comune con il simbolo il codice presenta un buon equilibrio fra autonomia linguistica e arricchimento di relazionalità. La metafora attiene al discorso/narrazione e rappresenta la formula più ampia e diffusa di arricchimento suggestivo-esplicativo dello stesso, senza dove presupporre un repertorio già dato come nell’allegoria. La metafora si fonda sul paragone, sulla similitudine, sull’imitazione e può includere fattori verosimili o fantastici o ipotetici o presunti. Il suo valore è retorico-comunicativo, attiene alla qualità e all’efficacia della narrazione/comunicazione. La metafora attiene più ai testi che all’arte, anche se non è escluso che possa rinvenirsi nella pittura in caso di variazioni semantiche di certi stilemi, cifre, elementi stilistici-descrittivi, per cui in un’opera potrebbe darsi un uso metaforico di un elemento che è invece canonico e convenzionale in molte altre opere.

L’allegoria è l’altra grande categoria spesso assimilata alla metafora e al simbolo. In realtà il carattere indiretto di tutte queste forme logico-linguistiche non supera la loro notevole differenza qualitativa. Nel segno la natura-scopo è di comunicazione/indicazione. Il segno è il mattone di ogni comunicazione e linguaggio. Il suo scopo è pratico e si apprezza in termini di utilità/efficacia. Lo scopo-natura della metafora è invece l’arricchimento/l’imitazione. La metafora crea un nuovo scenario, una nuova relazionalità espressivo-semantica. Il suo scopo è di bellezza-persuasione o di efficacia di insegnamento.

La metafora segue il demone dell’analogia, come lo chiamava Mario Praz riprendendo Lutero. L’allegoria invece persegue la celebrazione, la riconoscibilità, la messa in scena. C’è sempre qualcosa di artificiale, di teatrale, di posturale in ogni allegoria. Non c’è segno senza contesto. La metafora apre il contesto, lo allarga, l’allegoria lo canonizza in un elenco, in un repertorio, il simbolo lo approfondisce, lo fluidifica, lo genera a se stesso. La metafora intensifica, qualifica, il segno indica, l’allegoria rappresenta, il simbolo è pura significazione.

Il segno è fisico, comportamentale, fenomeno di uso, la metafora è estetica, l’allegoria è quasi sempre morale, mentre il simbolo spazia nei mondi dell’anagogia: non si limita a rinvia, ma “tende”, vela una sua tensione ideale interna, costante. Il simbolo pulsa, palpita, vibra, mentre l’allegoria è statica, rigida, theorica nel senso etimologico di “successiva”, seriabile, bidimensionale,m priva di quella prospettiva che sempre ha il simbolo. L’allegoria è un quadrato, il simbolo è una sfera. L’allegoria è più complessa del segno in quanto presuppone un repertorio, un micro-linguaggio, una convenzione di cui è parte integrante in un fenomeno di continua variazione, ripetizione e ricapitolazione.

Il segno nell’allegoria può assumere sensi anche opposti in base al contesto allegorico, cioè grazie al micro-cosmo di relazioni fra elementi allegorici che spesso sostanzia l’allegoria. La benda ad esempio completa l’allegoria della Giustizia oppure quella della Fortuna in base agli altri attributi presenti: se c’è la spada e/o la bilancia oppure la sfera, alata o meno, e le ricchezze sparse. Mentre la benda della Giustizia indica l’imparzialità della stessa la benda della Fortuna indica la sua casualità e imprevedibilità. Il simbolo appare operare in modo più elastico ma anche più autonomo e originale.

L’allegoria è un meccanismo, il simbolo è un organismo. La cosiddetta “allegoria mistica o spirituale” non è una vera allegoria ma il risultato interpretativo o il metodo ermeneutico fondato su di un parallelismo semantico, su di un’equivalenza spirituale. L’interprete opera come se fosse in presenza di un’allegoria. Si tratta di un utilizzo lato, interpretativo, suggestivo, concettuale ma a fini pratici, del termine “allegoria”. In questo caso si riportano singoli elementi di un testo o di un dipinto ad un ordine semantico superiore ed ulteriore, considerandoli come segni di un linguaggio altro, autonomo.

Il segno decontestualizzato può diventare allegoria o simbolo, mentre l’allegoria senza contesto diventa codice oppure decorazione o atto iconico. L’allegoria nuota nel contesto come un pesce nella sua acqua, mentre il simbolo resiste al mutamento del contesto e del linguaggio, come pure l’archetipo e la funzione espressiva. Il simbolo resiste al mutamento anche nel caso di forti mutamenti nella sua percezione socio-culturale.

Basti pensare alla svastica che assume valori e sensi differenti a seconda della cultura di chi la percepisce o usa: un indiano, un archeologo classico, un ebreo, un neonazista, ma resta sempre e comunque formalmente il medesimo simbolo solare e cosmico. Se tutto è corpo, anche l’arte e la narrazione, allora il segno è un atteggiamento, l’allegoria è una postura, un’abitudine, un’idea e il simbolo è un’inclinazione spirituale, un’essenza, un movimento cardiaco: in uscita e in entrata.

L’allegoria è cerebrale, schematica, il simbolo è cardiaco, anche se non sentimentale, se non nell’utilizzo. In comune allegoria e simbolo presentano, oltre al rinvio, una certa dote e capacità di sintesi semantica. Ci possono essere contaminazioni fra allegoria e archetipo/tema come nella Tabula Cebetis dove il tema generale incrocia tre archetipi: il labirinto, l’Eden e il Monte della sapienza, e, nel contempo, assorbe tutte le allegorie del passato in tema di vizi e di virtù.

La Tabula Cebetis è anche la dimostrazione vivente della perfetta possibile specularità e reversibilità fra figura e parola. Il modello rappresenta quella configurazione, quell’approccio, quella struttura, quella matrice logica-narrativa-psicologica-espressiva che può attraversare e riemergere in vari generi, linguaggi e stili e influenza i vari usi del segno e dei vari linguaggi indiretti e figurati. Il modello può accorpare, declinare, incubare, preservare, manipolare sia allegorie che simboli e codici. Tratto comune è la sua ampiezza tematica e configurativa. Il modello forma, informa, indirizza, influenza per sua natura.

Il modello è a metà strada fra pensiero e immagine, è un corpo strutturante altri corpi. Può essere utile per farci capire in che linguaggio e in che contesto ci troviamo. Insieme al simbolo condivide l’ampiezza, l’esemplarità, e l’efficacia armonizzante, ordinante. Rispetto al simbolo può essere più generico o più preciso. Il modello è una ricorrenza generale della vita e dell’espressione. Modelli sono ad esempio: la caccia, la danza, il duello, il banchetto, la scelta, il labirinto, l’inversione (il paese di cuccagna), la vanitas, lo zodiaco, il gioco, il bagno e molti altri.

Propp ha cercato di delimitarli quali funzioni morfologiche nell’ambito della fiaba. Possono anche essere visti quali sedimentazioni e aggregati di modi di raccontare e di antichi miti. Il mito del paese di Cuccagna ad esempio vela un modello-funzione ancora più ampio, più profondo e più antico: l’inversione; presente in tutta la Sacra Scrittura, specie quella messianica, profetica ed apocalittica. Un modello speciale per la sua specifica qualità è il modello biblico e tropologico in San Paolo il quale fonda un nuovo assunto: il modello prefigurativo, che è spirituale, universale, diacronico e massimamente performante. Facili esempi: la roccia che dà l’acqua nel deserto di Mosè e il suo serpente bronzeo innalzato.

Si tratta di fatti e nel contemplo di modello esemplari ma di un tipo nuovo, “vivente”, in quanto parte viva di una storia della salvezza che ha le sue radici nell’Eterno e, quindi, resta metamorficamente attuale per il presente di tutte le epoche umane. L’atto iconico presenta di simile all’allegoria una certa dose di artificiosità, di “messa in scena”. Il blasone e l’emblema sono celebrazioni teatrali, “immagini parlanti” che sintetizzano significati e racconti e il cui scopo è un “rinvio che ritorna su se stesso”. Lo scopo dell’emblema/blasone è di un insegnamento/comunicazione focalizzante. L’atto iconico condivide con il simbolo la presenzialità e l’autoperformatività. Il simbolo però è sempre doppio, mentre l’atto iconico è unitario, centrato in se stesso, autoimpositivo.

Mentre il simbolo appare spesso acefalo, desoggettivizzato, l’atto iconico è quasi sempre intensamente motivato e soggettivizzato. Nell’atto iconico l’iconicità esemplare da contemplare nella sua bellezza e nella sua espressività etico-spirituale si congiunge con la consapevolezza del proprio uso e utilizzabilità concreta. Nell’atto iconico creazione, tradizione e contesto si sposano pienamente. L’atto iconico corrisponde al desiderio di una nuova mitologia o, comunque, al bisogno di perpetuazione di una mitologia, se non altro per adesione alla riproposizione di un modello di successo. Qui la polisemìa è più che altro o interpretativa o derivante dall’uso o dal suo comporsi di elementi di origine simbolico-allegorica, mentre nel simbolo la polisemia è strutturale, originaria, innata.

L’atto iconico vuole farsi comprendere e tende ad una comunicazione forte e precisa. Presenta nella sua aggregante e magnetica esemplarità elementi simili al modello quali la forza e l’intenzione solare, radiante. A differenza dell’allegoria l’atto iconico presenta sempre un’aura di appartenenza e di intento egemonico, trionfale, magnetizzante; mentre l’allegoria è più passiva, più pronta all’utilizzo pratico quale alfabeto e corredo visivo. L’atto iconico e il simbolo hanno in comune anche un senso di compiutezza, di armonia, di autosufficienza. Al contrario l’atto iconico di solito presenta un raggio di efficacia e di fertilità più ridotto e più specifico rispetto al simbolo. La forza del blasone e dell’emblema è la sua capacità aggregante di sintesi, che sembra quasi trova spazi di equilibrio fra segno, allegoria e simbolo. Come il segno l’emblema/blasone indica (ma indica se stesso), come l’allegoria è composto da più elementi e ha un senso di solito morale-educativo, e come il simbolo genera un suo contesto, un suo micro-cosmo, contribuisce a formare un nuovo linguaggio o almeno una nuova inflessione, un nuovo dialetto.

Il blasone/emblema può diventare nell’uso sigillo/segnale come gli stemmi araldici nella Tempesta di Giorgione. Lo scopo dell’atto iconico è sia comunicativo che impositivo-creativo, cioè vuole modificare il mondo in cui si pone. Vuole essere contemplato, ammirato, usato, ripetuto, tramandato. Risponde anche all’esigenza di continuare/innovare una tradizione. In questo è simile all’allegoria anche se quest’ultima è più debole, più passiva e meno creativa secondo questo sguardo. Il modulo narrativo sono alcuni vasti generi/strutture di racconto e di visualizzazione che spesso utilizzano e accorpano e riformulano linguaggi e stilemi indiretti, simbolici, emblematici, archetipali e allegorici.

Hanno in comune con i modelli l’ampiezza dell’ambito e delle dinamiche e possono essere considerate le tipologie più vaste di racconto semanticamente indiretto, cioè massimamente teleologico, e, in quanto tale, potenzialmente fertile nella generazione/facilitazione dell’emersione, della configurazione e dell’utilizzo di allegorie, simboli e atti iconici. Si tratta di tipologie anagogiche in quanto orientano il discorso e la sua modulazione e articolazione. Ma come distinguere fra anagogia e simbolo? E come tra intenzione e veste estetica?

Anche il simbolo, come l’anagogia necessita di un corpo che lo veicoli e ogni simbolo presenta anche una sua naturale e intrinseca performatività: non è solo rinvio ma pure presenza, senso di fattualità, di epifania persistente, insistente. Anagogia e simbolo rinviano ad un Essere che si può partecipare solo gradualmente, per piani e contesti distinguibili?

Il simbolo presenta poi un’ultra-attività nel tempo, generando in parte i propri contesti di ricezione grazie alla sua fisicità, strutturalità. Il simbolo presenta un aspetto sia verticale-assiale che orizzontale-d’espansione e d’autonomia, similmente al concetto di “opera”. Ci sono solo tre moduli di simbolo: quello testuale, quello visivo e quello socio-rituale. Ma il simbolo è sinolo, non mai solo mythos o solo logos. L’uomo è sinolo ed è simbolo in quanto anima e corpo. Il simbolo è sempre ermetico, duplice, ambiguo, ambivalente.

Il simbolo è linguaggio a se stesso mentre il segno non si apprezza al di fuori del linguaggio di cui è parte integrante. Il simbolo ha autonomia sia in quanto estetico ed estetizzante, sia un quanto presenta una presenzialità performativa oltre che una strutturante efficacia di rinvio, come ha bene evidenziato Gianpaolo Azzoni. L'azione di simbolicizzazione è un'operazione di narrazione o di uso tale che determinate rappresentazioni e situazioni assumono un valore e una funzione simile al simbolo, senza essere simboli veri e propri, ed emerge tale livello solo all'interno di quel determinato contesto soggettivo e intenzionale, come in un passo di un romanzo o nelle prassi di relazione fra due vicini di casa.

Simbolo e interpretazione sostanziano un circolo dialettico reversibile tale per cui la simbolicità è strumento di interpretazione e risultato dell'interpretazione e simboli già dati orientano e condizionano l'interpretazione di testi o segni o situazioni temporaneamente asimboliche o presinmboliche e che diventano cariche di simboli o di effiacia simbolica proprio grazie dell'interpretazione. Tale fenomeno pratico-logico accade spesso quando un autore o un racconto subiscono un processo di mitizzazione-uso nel tempo. il simbolo quale oggetto linguistico e quale modalità di comunicazione non esce dalla classica quadruplicazione processuale: parola, dicibilità, espressione mentre resta ambiguo e sfuggente in relazione alla res presupposta, implicata, riferita. La res del simbolo è sempre una res a sua volta semantica, seppur vicina all’indicibile. C'è di più?

Dipende dalla concezione che si ha del reale. Se accettiamo e scegliamo una filosofia dell’Essere, una filosofia di Dio allora il simbolo appare la via di conoscenza prediletta in quanto diventa epifenomeno della struttura e della qualità più profonda del reale. Dato Dio tutto e tutti sono ontologicamente relativi, cioè in relazione, derivanti da Altro, tranne Dio stesso che risulta l’unico in se stesso irrelato. Il simbolo così ci comunica l’essenza dell’esistere, vela e rivela il senso relazionale dell’Essere, la sua intima natura partecipata e partecipante. Il simbolo presuppone un’unità (edenica) spezzata e di possibile ricongiunzione. Altrimenti lo si riduce a mera “relazione simbolica interfenomenica” ma il simbolo instaura sempre una gerarchia fra i fenomeni, fra il dentro e il fuori, se stesso e l’altro, l’implicato e esplicato. Senza asse il volume non si apre e non si chiude. Se infatti il simbolo è relazione e lo è in tre sensi: relazione tra parole, relazione fra oggetti e relazione fra immagini allora cosa fonda questa colloquialità fra ordo rerum e ordo noetico? Il simbolo opera come l’idea di Dio: quale copula, quale azione pontificale, amplessiva, alleativa.

Epifania-nodo di un alfabeto dello spirito del mondo (Zolla, Che cos’è la Tradizione), il simbolo allude ad una relazionalità profonda del proprio esperire e siccome questa percezione appare a sua volta esperibile, partecipabile intersoggettivamente allora sembra alludere ad un decorso ontico coerente. La coerenza del simbolo quale epifenomeno di una lingua rinvia ad una similare coerenza della trama dell’essente. L’aspetto intrinsecamente sacrificale del simbolo quale ponte-reciprocità fra presenze trova conferma nel rapporto complementare fra visione e rito e nella radice indoeuropea da cui viene il termine “rito” (rta) e il simile termine “arte” (ar, da cui il greco ararisko).

Il simbolo quale sosta-pausa in un decorso ontico incessante, nodo di una trama intessuta e tessente, quale prima forma percepibile di un principio di kaos germinativo. Lo stesso Saturnino Secondo Sallustio giunge a parlare del cosmo quale mito (racconto) e quale simbolo (Sugli dei e il mondo). Se l’uni-verso si può percepire quale unità ma pure quale linguaggio e simbolo allora la sua autonomia non è piena ma si dà come relativa-relazionale.

Il kosmos quale entità in sè considerata nella sua interezza e che rinvia ad altro non può che parlarci di qualcosa che non è in sè stesso, non appartenente cioè all’uni-verso, non includibile entro i suoi limiti. Ecco confermata l’implicazione ontica del fenomeno “simbolo”. La scissione ontica generata dalla separazione hegeliana-kantiana tra Spirito e fatto, fra fenomeno e noumeno porta come infine quale conseguenza la possibile semiosi simbolica di ogni contingenza, generando una perdita di consistenza del senso del reale.

Come ha ricordato Umberto Eco nella sua opera I limiti dell’interpretazione ogni corpo “resiste” alla sua ermeneutica e la sua polisemia è limitata dal dato strutturale-fisico presupposto. Ogni corpo è “finito”, incluso in una forma definibile. Il simbolo quindi presuppone la sua stessa non esauribilità quale fatto-atto ermeneutico data da una sua autonomia pratico-esistenziale.