In occasione della mostra Anish Kapoor, untrue unreal a Palazzo Strozzi, è stato concepito un catalogo per approfondire le opere scelte da Anish per questa mostra. Oltre alla varietà stilistica c’è un uso di materiali molto diversi, pigmento, pietra, acciaio, cera e silicone.
Vivissimi. Corpi di carne, cera e silicone, scritto da Francesca Borgo, è un capitolo del Catalogo in lode della cera che può aiutare a comprendere l’opera più invadente delle stanze di Villa Strozzi, Svayambhu del 2007, un grande parallelepipedo di cera su rotaia che un motore invisibile cerca di infilare in una porta troppo stretta, che gli pialla dei pezzetti del contorno. Il colore della cera richiama quello del sangue coagulato. La posizione scelta dall’autore per questa opera è voluta per superare il rigore razionale delle stanze rinascimentali. L’opera mette in comunicazione due stanze attraverso il movimento avanti-indietro del blocco.
Di Architettura tratta un altro capitolo del catalogo. S’intitola Architettura e illusione a Palazzo Strozzi, di Dario Donetti. Forse scritto in contrapposizione all’operazione messa in atto da Kapoor per smontare il nitore estetico degli ambienti del palazzo. L’artista infatti ha inserito una colonna dipinta di rosso al centro di una stanza e popolato il pavimento di un’altra di macroscopici giochi da bambino di colori sgargianti.
La domanda: fino a che punto questo autore è un artista? la risposta sta in come si definiscono l’Arte e la finzione. Sono universalmente visti come rimedi efficaci nei confronti delle storture della realtà. O magari oggetti scaturiti dalla potenza del pensiero-fantasia umano. In questa luce Anish Kapoor è un grande inventore. A Blackish Fluid Excavation è un’opera che si impone per la laboriosità della costruzione e la novità rispetto a ciò che si può trovare in natura. E qui ricorriamo ad una delle frasi dell’autore, che indicano la profondità del suo pensiero. Con la premessa “sono un pittore che è uno scultore” afferma “non voglio fare una scultura incentrata sulla forma, non mi interessa proprio. Vorrei fare una scultura che riguardi la fede, o la passione, l’esperienza, aspetti che sono fuori del terreno della materia” Nel cortile è stata costruita Void Pavilion VII, opera site specific.
E’ un grande monolite bianco, al cui interno, sulle pareti, ci pare di vedere finestre chiuse, nerissime. Ma nella realtà sono nicchie aperte, dipinte di nero con una vernice così scura che riesce a creare, sul davanti, una superficie inesistente. Ben lo sa quello spettatore che, anni fa, ad una mostra, si è lanciato contro la parete nera ed è finito dentro la nicchia che era profonda due metri e mezzo. Forse per evitare simili inconvenienti, queste nicchie sono di dimensioni molto minori. Impossibile attraversarne l’apertura. Anche questa costruzione sembra fatta per destabilizzare la razionalità del progetto di Palazzo Strozzi. Ma è anche la materializzazione del vuoto, per Kapoor uno stato interiore.
Che ha molto a che fare con la paura, ma ancor più con l’oscurità. Di puro godimento è la sala piena di sculture riflettenti. Con superfici esterne che deformano lo spazio riflesso su di esse in modi diversi, in funzione della loro curvatura. Riprendiamo un’altra sua frase, in cui afferma “ Sono interessato agli effetti che i luoghi hanno sulle opere” Una visione opposta al considerare l’Arte come ornamento.
Sono incantata dalla magia di quello che Anish afferma. Anche se non sempre riesco a collegarne il pensiero alle opere esposte. Per Kapoor gli oggetti sono come la punta dell’Iceberg. Non sono solo quello che si vede, ma anche ciò che si nasconde sotto la superficie su cui poggiano.
Un'altra, diciamo meraviglia scientifica è prodotta da un insieme di oggetti informi, di un bellissimo colore blu, che sono posizionati sul pavimento. Anche qui aver scelto un tipo di vernice superdensa trasforma gli spigoli di questi oggetti, fatti di strati di ardesia, in contorni arrotondati e li fa sembrare velluto, velluto in pezze buttate per terra ognuna in modo diverso. Il colore in Kapoor non è semplicemente materia e tonalità, ma è dotato di un proprio volume, spaziale e illusorio allo stesso tempo.
Sono queste opere le dimostrazioni di inverosimile, non reale di cui parla il titolo della mostra. Trasformando o negando la comune percezione della realtà egli ci invita a esplorare un mondo in cui i confini tra vero e falso si dissolvono, aprendo le porte alla dimensione dell’impossibile. Le sue opere uniscono spazi vuoti e pieni, superfici assorbenti e riflettenti, forme naturali e inventate. In un mondo in cui la realtà sembra sempre più sfuggente e manipolabile, Anish Kapoor ci sfida a cercare la verità oltre le apparenze.
Risalgono ad un momento di sperimentazione precedente alla sua visita a Firenze gli oggetti di alluminio di forme differenti esposti nella grande stanza. Essi restituiscono immagini del visitatore a testa in giù oppure deformate appunto dalla rotondità delle superfici specchianti. In questa sala ci si diverte avvicinandosi con il telefonino ad alcune delle superfici per fare un video con risultati inaspettati, oppure facendosi fotografare davanti a una sfera, in cui la nostra immagine risulta capovolta. Certo ambientare queste opere nel chiuso di una stanza deve essere stata un’esperienza difficile perché, un po’ come molte sculture di Moore, le strutture specchianti sembrano nate per stare nella natura. O almeno, come si vede in alcune foto fatte in America, al di fuori degli edifici.
Questo può spiegare in parte il motivo per cui l’autore ha creato alcune opere proprio in funzione del palazzo che la Fondazione gli aveva offerto per esporre nella nostra città d’arte.